Il Commento Collettivo, canto I: L’anima si è destata

Avvicinandoci al 2021, anno in cui si celebreranno i settecento anni dalla morte di Dante, L’Indiscreto pubblicherà un grande Commento Collettivo alla Commedia (abbreviato nella sigla CCC): 100 autori e autrici per altrettanti commenti dei 100 canti.

Solo per questo primo canto, un omaggio alla tradizione con tre celebri commenti del passato.


IN COPERTINA E NEL TESTO: Venturino Venturi, divina commedia, courtesy casa d’aste Pananti

di Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano


Con il contributo di 


L’esilio e la selva, Maria Zambrano, in Dante Specchio Umano, Città Nuova

Il peregrinare dell’esilio si accordò perfettamente con il peregrinare della mente e del cuore di Dante. Quel peregrinare iniziò fin dal giorno in cui, avendo poco più di nove anni, vide Beatrice che ne aveva nove. E quello della sua stessa patria, l’Italia pellegrina che non trova sede né assetto, esiliata da se stessa. Questo triplice peregrinare, quello del suo esilio, quello del suo cuore in cerca di un alimento adeguato e nutriente, vivificante, che trovò solo nelle sue visioni di amore-conoscenza, il peregrinare dell’Italia nella sua storia, gli dette libertà e animo, ma anche la solitudine e il distacco necessari per votarsi alla sua opera. Di questa sua triplice peregrinazione ci offrì l’esperienza integrale; non restò angolo del suo cuore che non avesse mostrato. E di ciò che la sua mente potette vedere lasciò una testimonianza completa nei molteplici piani di tutti i suoi libri, ma specialmente nei due in cui questa sua triplice peregrinazione ed esilio si dichiara in modo immediato, nella Vita Nuova e nella Divina Commedia. Si ha l’impressione che una generosità immensa si sia impadronita di lui, che ne sia stato rapito e anche posseduto. Cosa che non sembra aliena alla condizione del cosiddetto «genio». Poiché forse il genio è una immensa generosità.

Più che solo Dante appare inerme, condizione contraria a quella di chi va in cerca di qualcosa. La realtà gli viene incontro innanzi tutto in qualità di realtà, e al suo interno si manifesta la situazione senza precedenti nella quale è venuto a trovarsi. Nulla ci dice di ciò che era successo prima. Stava per staccare un ramo quando si ritrovò così, nella «selva selvaggia». È una situazione da favola, da mito, archetipica. Stava per staccare un ramo quando tutto gli divenne sconosciuto e avvolgente. Accerchiato, minacciato, assalito da una fiera realtà di carattere assoluto, l’eroe è come una fanciulla, che nel mezzo di una occupazione innocente e anche di festa d’un tratto viene sottratta alla realtà abituale, al suo mondo, e di fronte a lei si spalanca un abisso infernale, gli Inferi stessi, come a Persefone. E forse è a Euridice che Dante poeta si assimila in questo istante iniziale, più che al suo patrono Orfeo. Cose simili sono accadute alle fanciulle e alle giovani spose, quelle stesse che sono state sorprese dalle più peregrine visite annunciatrici. La fanciulla o la giovane sposa, cioè la passività allo stato umanamente più puro. La fanciulla, l’anima eletta. L’anima eletta che si smarrisce, nel prato fiorito o in cammino verso la fonte conosciuta, tra gli allori che non compongono un bosco, nell’orto della casa del padre o dentro la casa, nel suo cantuccio, mentre recita le preghiere o cuce. E non può essere che d’amore, o per amore, questo turbamento totale dell’anima smarrita che, in sogno, viene a trovarsi repentinamente in tale stato. E analogamente succede nella verità della vita, nel risvegliarsi alla vita vera. L’anima smarrita, anche quella dell’uomo, è forse un’anima innamorata? E se l’uomo procede nel cammino vigile, desto, pensante, poiché il cammino lo va tracciando con il suo pensiero, forse è questo che gli succede, che in un istante si ritrova senza via, senza metodo, senza pensiero e la sua anima si desta nella passività pura e completa, si risveglia dal suo sogno metodico, dallo studio, dal discorrere attivo? Si è ritrovata sola e senza vincoli, perduta. E qualora sopraggiunga tale risveglio dell’anima nella sua passività, sarà in effetti «in mezzo del cammino», nel mezzo, nel centro, non alla metà del cammino, bensì in solitudine e nel mezzo del cammino o nel mezzo del prato, o della stanza o della strada, nel mezzo, anche e innanzitutto, della sua vita e della Vita. Si è svegliata.

Virgilio, George Steiner, in Grammatiche della Creazione, Garzanti

Omero appare brevemente come il cieco cantante di strada che Leopold Bloom sente quando si allontana dalle Sirene nell’Ulisse di Joyce. In Carlotta a Weimar Thomas Mann ricrea il Goethe sul quale ha così consapevolmente modellato il proprio sviluppo come scrittore e saggio «olimpico». Riecheggiando l’eco di Joyce, Derek Walcott incontra l’Omeros della sua saga, il mendicante cieco, accompagnato dal suo cane, proveniente da un’Ithaka caraibica. Per la sua densità e necessità, la relazione di Dante con il Virgilio della Commedia è di tutt’altro ordine. Si dice «Dante», dimenticando la vivace complessità della triangolazione che ricollega Dante Alighieri – il nome «Dante» viene usato soltanto una volta in tutta il poema – all’io narrante e alla persona del Pellegrino che parla e percepisce per conto suo ed è, per così dire, una terza persona vista dall’esterno. Ancora una volta, la sola analogia che vedo è con la stretta spirale che coinvolge Proust e il narratore che dice je. Dante sceglie Virgilio, ma il Pellegrino è scelto dall’autore dell’Eneide su richiesta di Beatrice. Normalmente siamo noi a parlare una lingua, anche se a livello neurofisiologico e storico-sociale essa ci viene data. Il vero poeta è parlato dalla lingua. Ne è il mezzo, eletto, per così dire, in virtù della sua natura osmotica e permeabile, di quella che Keats chiamava la sua «capacità negativa». Prima di essere nostro, l’atto di ricezione è quello dell’artista-facitore. Il dettato sovrannaturale che definisce la rivendicazione biblica di un’autorità rivelata, le invocazioni alla Musa nell’arte, nella musica e nella letteratura occidentali, sono codificazioni di questa ricettività. Anche se è grossolana, è suggestiva la polarizzazione simbolica tra una femminilità primaria della ricezione, una vulnerabilità alla dominazione raggiante, seguita da un processo maschile di appropriazione, di formazione volontaria e di dominio. La poiesisha profonde radici nell’elemento androgino, nell’unisono perduto fra maschile e femminile nell’antropologia di Platone. Assieme a molti altri livelli – la perfezione e l’apprendistato tecnici, la loro preservazione e la sottomissione a essi, l’età e la gioventù relativa, il classico e il moderno, il pagano e il cristiano – l’interazione fra la rivalità e l’alleanza maschili da una parte, e il dono di sé o il bisogno femminile dall’altra, colora la relazione tra il Duca e il Pellegrino. Come quella fra il sé creatore e i suoi demoni interiori nell’atto artistico. E come spesso accade, le tensioni future sono latenti nell’istante dell’incipit, nel primo barlume dell’evento creativo e del nominare nomi.

Le tre fiere, Giovanni Boccaccio, Commento al Canto I

Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato di lasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un leone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il vizio dell’avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dal parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi animali a’ detti vizi si possono appropriare; e poi, se all’autore parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.
Sono adunque nella lonza, tra l’altre molte, quattro singolari proprietá: ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú, quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata, piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è maravigliosamente vaga del sangue del becco; ultimamente, ella è di sua natura crudelissimo animale. Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente conformi al vizio della carne: percioché la sua leggerezza è a dimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che con l’appetito o che attualmente con esso vizio s’inviscano; imperoché essi alcuna volta ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amata accesi, e alcun’altra son piú freddi che la neve, cessando punto la speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e lamentansi e piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamente diventano umili; ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigati lusingano.

Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e salta tosto d’una cosa in un’altra: un muover d’occhi, un atto vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una lusinga, d’uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; e ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor mente. Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltá è da intendere la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú con lui si dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce a crudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe donne, mentre senz’alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito, hanno giá la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quanti ancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente disiderio di pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti?
La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu un leone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale, come egli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelle del vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace ma temerario; e appresso è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nel ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che l’odono: e, come che assai piú ce n’abbia, queste tre bastino a mostrare per lui ottimamente potersi intendere il vizio della superbia.Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario; percioché, senza misurare le forze sue, non è alcuno animale sí forte (che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non presuma d’assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato indietro. Ed Aristotile nel terzo dell’Etica, lá dove parla della fortezza, dice che l’esser temerario è vizio, in quanto il temerario presume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s’appartiene. E questo vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre o con piú; conciosiacosaché ciascuno debba credere uno poter quanto un altro, e con quell’uno mettersi a combattere è ardire e segno di fortezza; dove l’andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá. In questo l’uomo superbo è simigliante al leone, percioché il disiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che cosa non è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a lui non si convenga, sol che egli creda per quello essere reputato magnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti regni, molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolo d’esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci; questa fu cagione a Capaneo d’esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe in terra; questa fu cagione a Golia d’essere ucciso da David, come la Scrittura ne dice.
La terza bestia, che davanti all’autore si parò, fu una lupa, fiero animale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso per l’avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell’altre due abbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio conformatole, il mostreranno.
Manifesta cosa è la lupa essere animale famelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nel quale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro continuamente, a quello il quale piú misero di tutti le pare, gli altri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale sospettissimo, continuo si guarda d’intorno, e quasi in parte alcuna non si rende sicuro, credo dalla coscienza sua medesima accusato.

Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel medesimo essere l’uomo avaro; percioché, quantunque l’uomo avaro abbia quello che gli bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato, forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel contento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in ciascun suo esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfare a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niuna falsitá o altra nequizia, nella qual’e’ non si mettesse.

Venturino Venturi, Illustrazioni per la Divina Commedia, courtesy casa d’aste Pananti
Il commento di D’Annunzio, dall’edizione della Divina Commedia di Olschki editore del 1911

Il canto, integrale

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’ era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ‘l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’ io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,
là onde ‘nvidia prima dipartilla.

Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ‘n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov’ or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro


Il commento collettivo alla commedia è curato da EDOARDO RIALTI (1982), TRADUTTORE DI LETTERATURA ANGLO-AMERICANA E LETTERATURA FANTASY, SCI-FI, HORROR, PER MONDADORI, LINDAU, GARGOYLE, MULTIPLAYER. TRA GLI ALTRI HA TRADOTTO E CURATO OPERE DI J.R.R. MARTIN, C. S. LEWIS, J. ABERCROMBIE, P. BROWN, O. WILDE, W. SHAKESPEARE. E’ COLLABORATORE DE “IL FOGLIO” DOVE SI OCCUPA DI CRITICA LETTERARIA E HA SCRITTO LE BIOGRAFIE A PUNTATE DI J. R. R. TOLKIEN, G. K. CHESTERTON, C. S. LEWIS, C. HITCHENS. HA INSEGNATO IN ITALIA E CANADA. DIPENDESSE DA LUI, LA SUA GIORNATA COMPRENDEREBBE SOLO CAFFÈ, SPORT E SCRITTURA.

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