Il commento collettivo, canto II: Il femminile come vetta, il maschile come abisso

La scrittrice Michela Murgia commenta, in occasione del Commento Collettivo alla Commedia, il secondo canto dell’inferno dantesco. Il CCC: 100 autori e autrici per altrettanti commenti dei 100 canti.


IN COPERTINA E NEL TESTO: Venturino Venturi, divina commedia, courtesy casa d’aste Pananti

di Michela Murgia


Con il contributo di 


L’arroganza contenuta in questo canto, a dispetto dell’ostensione di pudore e sottostima, a distanza di secoli suona ancora sbalorditiva. Dante, in un cortocircuito simbolico esplosivo, si fa letteralmente “pregare” dalle potenze superiori, come se nella bassezza della sua mortalità occupasse un illogico altare inverso da cui solo un’altra volontà può smuoverlo a un’azione che non sente più di voler fare. Per motivarlo verso il viaggio che lo aspetta si devono per questo agitare in paradiso nientemeno che – oltre a Beatrice – la vergine Maria e la santa martire Lucia, che si interessano delle sue sorti al punto da mandargli un messaggero e compagno per fargli forza e guidarlo. Ciascuno cresce solo se sognato, così scriveva Danilo Dolci consegnandoci l’atto educativo come risultato di una vocazione onirica, e Dante fa il primo passo del suo cammino iniziatico proprio come un fanciullo ritroso in atto di divenire adulto, condotto per mano da un maestro e convocato da tre donne elette, rispettivamente provate dai fuochi santi dello Spirito, del Martirio e dell’Amore. C’è un altrove da raggiungere per l’uomo mortale, ma anche un’alterità molteplice, tutta femminile, che si pone in sua attesa, allo stesso tempo meta e metafora delle altezze spirituali alle quali sarà necessario accedere per arrivare dove essa già si trova. È curiosa la coreografia spirituale che viene delineata in questo canto, dove il femminile viene descritto come la vetta e il maschile come un abisso, due profondità inverse in rapporto di attrazione unidirezionale, giacché a chi sovrasta non è permesso scendere, al massimo ispirare in chi può salire il desiderio di farlo a dispetto di tutta la fatica necessaria. A convincere Dante ad attraversare lo spettacolo di ogni bassezza è il desiderio di quelle altezze (ma non è il motore di tutti, quel benedetto desiderio?) e l’idea che chi le occupa lo consideri degno di intraprendere il viaggio d’ascesa. La forza e il difetto della spiritualità cristiana sono entrambi qui: nel mondo dei battezzati in Cristo ogni elevazione è una relazione, spesso in così evidente dislivello che la salvezza a cui vuoi giungere, posto che vi avrai accesso, non sarà mai un merito tuo.

Il canto, integrale

Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l’auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno

m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.

Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale

non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.

Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono”.

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

“S’i’ ho ben la parola tua intesa”,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
l’anima tua è da viltade offesa;

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.

Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:

“O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui

tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.

“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’i’ non temo di venir qua entro.

Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.

I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.

Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ‘mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.

Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -.

Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,

venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno”.

Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.

Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?”.

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:

“Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!

Tu m’ hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.

Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro”.
Così li dissi; e poi che mosso fue,

intrai per lo cammino alto e silvestro.


ll Canto III dell’Inferno sarà commentato da Loredana Lipperini.

I commenti precedenti: Inferno: Canto I, Canto II


MICHELA MURGIA È ROMANZIERA, SAGGISTA E CONDUTTRICE. AUTRICE DEL BESTSELLER ACCABADORA E VINCITRICE DEI PREMI CAMPIELLO, DESSÌ E SUPERMONDELLO. TRA LE SUE OPERE RICORDIAMO IL MONDO DEVE…”, CHIRU’, AVE MARYNOI SIAMO TEMPESTA. HA CONTRIBUITO ALLA RACCOLTA “LE NUOVE EROIDI”. INSIEME A CHIARA TAGLIAFERRI È AUTRICE DEL PODCAST STORIE LIBERE “MORGANA”.

2 comments on “Il commento collettivo, canto II: Il femminile come vetta, il maschile come abisso

  1. Interessante un confronto con la lettura dantesca fatta da Goethe nel Faust (traduzione di Giuliano Manacorda!), in ispecie nella parte sulle madri e -alla fine- coi versi “Femineo eterno ci trae al Superno”.

  2. Rosa Chiricosta

    Questo canto forse più di ogni altro dell’intera Commedia ci consente di comprendere la somma armonia dell’ispirazione dantesca che si concretizza nella visione che si dipana nelle terzine che accompagnano anche noi in questo onirico viaggio. Viaggio che Dante colloca in una dimensione universale , nella sintesi della storia in cui convivono i due pilastri che fino ad allora avevano retto il mondo , Impero e Chiesa , allegoricamente rappresentati da Enea e Paolo e, in questa sintesi , la Fede viene rappresentata anch’essa allegoricamente nelle figure di Maria e Lucia , due facce della stessa medaglia , la fede che illumina ma che poi deve anche affrontare la storia , per consentire all’ umanità di trovare il sentiero che la porti verso il Cielo , patria ultima e promessa nella visione dantesca . La grandezza del messaggio sta nell’aver rappresentato tale percorso senza limiti definiti ma nell’aver dato universalità alla ricerca umana della via che in ogni tempo può attuarsi con coordinate che , pur adeguandosi al tempo ,di volta in volta diverso, esprimono le inquietudini dell’ uomo di ogni tempo .

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