Pubblichiamo il commento al settimo canto dell’inferno firmato dallo scrittore Guido Vitiello. Questo commento è parte del nostro Commento Collettivo alla Commedia, Il “CCC”, un progetto che vedrà ognuno dei cento canti dell’opera di Dante commentati da un autore contemporaneo.
IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’illustrazione di salvador dalì
Con il contributo di
Un canto che comincia con “Papè Satàn, papè Satàn, aleppe” non può che essere un canto comico. L’esordio si tira dietro nella mia memoria tutto un trenino di versi: “Queste parole dai concetti bui / per seicent’anni niun spiegare seppe. / Solo Dante lo può; ragion per cui / chi vuol saper che cosa voglion dire / vada all’inferno e lo domandi a lui!”. È L’Inferno di Topolino, che mio papà aveva conservato dal lontano 1949 e che mi leggeva da bambino. Capite bene che per me quel verso non può aver nulla di solenne o di tonante: è come il “tri tri tri / fru fru fru” di Palazzeschi, o come i versi di animali rifatti dallo sciamano fanciullino Pascoli, che starebbero così bene su una di quelle ruote giocattolo dove tiri una cordicella e ascolti il cane, il gallo, la mucca.
Girando Otto e mezzo, Fellini teneva sulla cinepresa un adesivo con il monito: ricordati che è una commedia. Chissà che non torni utile anche per Dante. Pensate per esempio a questa scena: due folle di gente spingono pesi immani lungo un cerchio, gli uni in una direzione, gli altri nell’opposta. A mezza corsa (prevedibilmente) tamponano. E come in ogni buon tamponamento, imprecano gli uni contro gli altri. Poi però come niente fosse invertono la marcia, rifanno mezzo giro e tamponano di nuovo. Tutti i giorni. Per l’eternità. Se mi dannassero a quel modo, direi: sentite, qui è chiaro che resteremo imbottigliati a lungo, lasciamo perdere questa cosa dei massi e troviamo un passatempo… facciamo a chi ride prima? Ma loro niente, obnubilati come sono non riescono a vedere più in là del loro naso, o del loro masso – ed eccoli così a incocciare in eterno. È una scena comica, perché a liberare le risate – lo sappiamo dai tempi di Bergson, spettatore del vaudeville – è tutto ciò che di meccanico e ripetitivo imprigiona in noi la vita.
Il canto settimo, del resto, è il primo in cui i peccati sono presentati in coppia, e nulla è più comico di un duo ben assortito. René Girard ironizzava sui critici che nella commedia e nella tragedia si sforzano di vedere all’opera conflitti pomposi tra idee – l’onore contro l’amore, la passione contro il dovere – dimenticandosi che esse inscenano prima di tutto conflitti tra persone; e che è dal cozzo tra gli umani che si sprigionano, come scintille, vizi e virtù destinati a una carriera di maiuscole allegoriche. Lo illustra bene la seconda coppia di peccatori che Dante porta in scena appena dopo l’entr’acte (di cui parleremo in coda). Anche qui, il quadro è comico: una zuffa di persone che si picchiano e si addentano tutte nude nel fango. Sono gli iracondi. Dante non lo dice, ma mi piace immaginare che ciascuno accusi l’altro di intorbidargli il fango. E invece a intorbidarlo sono gli accidiosi, che stanno immersi nella melma a gargarizzare. Sono arrabbiatissimi con i fracassoni del piano di sopra, ma non riescono a dirlo, e così si avvelenano il sangue. L’ira quando non può vendicarsi si rattrista, e da questa macerazione nasce l’accidia, insegna il dottor Bonaventura. Conoscete definizione più perfetta del risentimento? Il furore s’infrange contro uno scoglio e torna a ristagnare in chi l’ha covato, lasciandolo con il suo esprit de l’escalier, a gorgogliarsi nella strozza le proteste che non ha saputo articolare a galla.
Ma prima il vaudeville dantesco aveva presentato l’altro duo, gli avari e i prodighi – le code intrappolate nella sempiterna rotatoria. La comicità dei loro vizi aveva già ispirato molte gag da basso impero. Di tanto in tanto i cesari organizzavano una direptio, il saccheggio di una cuccagna: allestivano tavole imbandite, lasciando i sudditi a distanza, e poi – via! – si divertivano a vederli accapigliarsi, contendersi a morsi e a pugni le leccornie. Una scena che si ripete in tutti i buffet del mondo (noto per la sua ferocia è quello del Premio Strega). Certo, l’Imperatore poteva ridersela perché confidava nell’inesauribilità dei suoi averi, ma sappiamo quanto fosse fragile questa illusione. Insomma, ride bene chi ride ultimo. E chi ride ultimo? Per rispondere, Seneca scelse proprio l’immagine di un imperatore che distribuisce ricchezze e onori al popolo: “Una parte va in pezzi tra le mani di quelli che si battono per afferrarla; un’altra parte viene divisa in mala fede tra quelli che si erano messi d’accordo; un’altra è costata troppo cara a quelli che l’hanno ammassata; un’altra è caduta su quelli che neanche ci pensavano; un’altra è sfuggita per l’eccesso di ardore messo nell’acchiapparla; un’altra infine è stata strappata dalle mani di chi l’aveva afferrata con troppa avidità. Di tutti coloro che hanno approfittato del saccheggio, non ce n’è uno solo che ne abbia goduto a lungo”. Ebbene, dice Seneca, “la stessa cosa ci capita tutti i giorni per le grazie distribuite dalla Fortuna”. Eccola, l’Imperatrix mundi, la diva che Dante spinge in scena per l’intermezzo, tra l’ingorgo stradale e la lotta nel fango. Indifferente ai nostri applausi e ai nostri fischi, gira la ruota e se la ride, beata. E io ve l’avevo detto che era un canto comico.
Il canto, integrale
Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l’inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l’avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.
-->“Pape Satàn, pape Satàn aleppe!“,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia”.
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: “Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo”.
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”.
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra”.
Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio“.
E io: “Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali”.
Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una”.
“Maestro mio”, diss’io, “or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”.
E quelli a me: “Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta”.
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra”.
Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
ll Canto VI dell’Inferno sarà commentato da Guido Vitiello
I commenti precedenti: Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
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