Il Commento Collettivo, Canto XI: “Capovolgere il peccato”

Questo commento è uno dei cento che noi de L’Indiscreto pubblicheremo sugli altrettanti canti danteschi. A firmarlo è Francesco D’Isa, scrittore e direttore editoriale della rivista. Il nostro progetto di Commento Collettivo alla Commedia, che ormai abbiamo soprannominato “CCC”, continuerà nelle prossime settimane.


IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’illustrazione di salvador dalì

di Francesco D’Isa


Con il contributo di  

La tentazione di domare il male con una griglia di categorie non poteva che stuzzicare la furia tassonomica dantesca, che nell’undicesimo canto dell’Inferno si cela dietro l’understatement di ingannare il tempo mentre il naso s’abitua al fetore (sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato). È però lecito immaginare che la stratificazione sociale dell’Inferno sia stata una delle più grandi delizie – e giustificate arroganze – del poeta, che nel sistemare i peccati in ordine di gravità si sostituisce nientemeno che al giudizio divino. L’essenza della morale dantesca è semplice: «D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, / ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale / o con forza o con frode altrui contrista. / Ma perché frode è de l’uom proprio male,/ più spiace a Dio; e però stan di sotto / li frodolenti, e più dolor li assale». Il peccato coincide con l’arrecare dolore ed è tanto più grave quanto più il male è consapevole – in breve, far danno è peccato e se lo fai apposta è peggio. A questo si aggiunge un’ulteriore aggravante se la persona colpita si fidava di te. Passeggiamo con questa regola in mente tra i gironi infernali, dal più lieve al più grave. Anzitutto troveremo lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi, eretici ed epicurei. Questi gironi più lievi (ma tremendi) accolgono chi ha ceduto agli istinti, talvolta provocando danni al prossimo. Più in basso abbiamo i violenti, a loro volta divisi in omicidi, suicidi e scialacquatori, bestemmiatori, sodomiti e usurai. Anche loro cedono ai nostri peggiori istinti, ma arrecano un danno più grave. Nota a margine: i contemporanei potrebbero stupirsi che chi è violento contro gli altri (omicida) sia meno peccatore di chi è violento contro se stesso (suicida) o contro dio (bestemmiatore), ma ci torneremo più avanti. Abbiamo poi i fraudolenti verso chi non si fida (ruffiani e seduttori, adulatori e lusingatori, simoniaci, maghi e indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari), e, al fondo del fondo, i traditori, ovvero i fraudolenti verso chi si fida. Non stupisce che Lucifero passi l’eternità a masticare come spregevoli chewing-gum Bruto, Cassio e Giuda. Quando lessi la Commedia per la prima volta, rimasi un po’ interdetto dall’idiosincratica gerarchia dantesca, fin troppo tagliata sui gusti e i capricci del poeta. Secondo quale logica uccidere cento persone per rabbia è meno grave di falsificare o rubare del denaro? Bestemmiare è davvero più grave che uccidere? Per quale motivo una gioiosa e consenziente lussuria dovrebbe essere un male? È perché è molto più grave se omosessuale? Considerare più lievi gli omicidi “passionali”, inoltre, non ha forse portato alla depenalizzazione del femminicidio? La mia impressione era che agli errori dell’etica cristiana Dante unisse i propri, per ottenere una morale a dir poco opinabile. Ora, a distanza di anni, ho finalmente l’occasione di approfondire o modificare questa opinione. Un inciampo lo noto subito: per giudicare la morale dantesca si deve dare per buona quella cristiana dell’epoca. Da laico credo che la colpevolizzazione di lussuria, sodomia, suicidio, eresie e bestemmie sia inaccettabile, ma stiamo parlando della Divina Commedia e anche se non accolgo la Bibbia come filosofia di vita, devo accettarla come cornice finzionale dell’opera. Detto questo, resta opinabile la scelta dantesca di basare la gerarchia sull’intenzione, in cui un male è grave più in virtù della consapevolezza che del danno. Ed è qui che azzardo un capovolgimento del concetto di peccato. Proviamo a calarci nella mente di un dio che coincide con l’amore e immaginiamo che il peccato non è un’offesa contro gli altri, ma contro noi stessi. Se il Dio cristiano esiste, infatti, il peccato è un errore prima ancora di essere una colpa. Ripercorriamo ora l’inferno dantesco con questa inversione in mente (peccato = errore). Lussuria, ira, gola e avarizia sono errori in cui è facile cadere, perché sebbene non ci sia nulla di male nel godere di un buon pasto o del sesso, fare della soddisfazione di questi istinti il nostro unico scopo ci rende loro schiavi e ci incatena a desideri intrinsecamente effimeri e inesauribili. E se questo è uno sbaglio, ancor più grave sarà arrecare del male pur di soddisfare questi istinti; uccidere, truffare e tradire per un vantaggio materiale è un errore che porta a un altro errore. E ancora, com’è sfortunata la vita di chi è a tal punto schiavo del proprio egoismo da tradire chi ama, pur di soddisfarlo! Quale errore è più folle di quello di Bruto e Giuda, che per ottenere una briciola di potere tradiscono chi li ama? Una volta eliminata l’idea di colpa la morale dantesca può arricchire anche chi non ne condivide le premesse cristiane. Se giuridicamente è giusto che il male venga letto dal punto di vista delle vittime, la sua portata esistenziale si estende anche ai carnefici. La domanda che un inferno vecchio di settecento anni solleva ancora ai contemporanei è se il male sia davvero utile a chi lo infligge. Il potere e i beni materiali sono effimeri, i desideri sono una feroce altalena, la felicità è più difficile da capire (e accettare) che da realizzare. E forse arrecare dolore è un male anche per chi lo fa – con o senza Dio.

 

Il canto, integrale

Canto undecimo, nel quale tratta de’ tre cerchi disotto d’inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.

In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;

e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta
che dicea: ’Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.

“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”.

Così ’l maestro; e io “Alcun compenso”,
dissi lui, “trova che ’l tempo non passi
perduto”. Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso”.

“Figliuol mio, dentro da cotesti sassi”,
cominciò poi a dir, “son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi.

Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.

D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,
ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.

Ma perché frode è de l’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.

A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.

Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;

onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in sé man vïolenta
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta

qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov’esser de’ giocondo.

Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

La frode, ond’ogne coscïenza è morsa,
può l’omo usare in colui che ‘n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch’incida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.

Per l’altro modo quell’amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;63

onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto
de l’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto”.

E io: “Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.

Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s’incontran con sì aspre lingue,

perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?”.

Ed elli a me “Perché tanto delira”,
disse, “lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,

incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?

Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,

tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli”.

O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi”,
diss’io, “là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi”.

“Filosofia”, mi disse, “a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende

dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;

e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,

e ’l balzo via là oltra si dismonta”.


ll Canto XII dell’Inferno sarà commentato da  Matteo Strukul

I commenti precedenti: Inferno:

– Canto I  (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),

– Canto II  (commentato da Michela Murgia)

Canto III  (commentato da Loredana Lipperini)

Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)

Canto V (commentato da Paola Barbato)

Canto VI (commentato da Vanni Santoni)

– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)

– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)

– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)

Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)


FRANCESCO D’ISA (FIRENZE, 1980), DI FORMAZIONE FILOSOFO E ARTISTA VISIVO, DOPO L’ESORDIO CON I. (NOTTETEMPO, 2011), HA PUBBLICATO ROMANZI COME ANNA (EFFEQU 2014), ULTIMO PIANO (IMPRIMATUR 2015), LA STANZA DI THERESE (TUNUÉ, 2017) E SAGGI PER HOEPLI E NEWTON COMPTON. DIRETTORE EDITORIALE DELL’INDISCRETO, SCRIVE E DISEGNA PER VARIE RIVISTE.

1 comment on “Il Commento Collettivo, Canto XI: “Capovolgere il peccato”

  1. Complimenti. Un commento acuto e originale.

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