Eccoci arrivati al commento del tredicesimo canto dell’inferno dantesco: uno dei cento che noi de L’Indiscreto pubblicheremo commentati da altrettanti autori contemporanei. A firmarlo è lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco. Il nostro progetto di Commento Collettivo alla Commedia, che abbiamo chiamato “CCC”, continuerà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’illustrazione di William Blake
di Pietrangelo Buttafuoco
Con il contributo di
Capita di avere avuto un maestro che s’è sparato in testa. Quella di togliersi di mezzo è un preciso insegnamento e se pure ognuno dica no – non si dice no alla vita, non si sfida la Misericordia dell’Inviolato – quel che resta dei suicidi è dottrina e stile per chi li ama e ancora li segue.
Come con Drieu La Rochelle, e la sua pozza di sangue sui libri dei Veda su cui ha deciso di voler morire – con la pistola – come con Yukio Mishima che si denuda il ventre per offrirsi al seppuku dei samurai. E come – indietro nel tempo – con Pier delle Vigne che attesta se stesso innanzi al proprio Imperatore, uccidendosi. Lo fa per lavare da sé l’onta di una terribile infamia: essere considerato traditore.
Pier delle Vigne che è l’ombra di Federico II, il suo più fidato sherpa, è il custode delle chiavi del cuore di Dante che lo canta nel suo canto.
Nel XIII dell’Inferno, infatti, Pier delle Vigne – “colui che teneva le due chiavi del cuore di Federico” – per ben 78 dei 151 versi rivive nel riverbero di un addestramento ai doveri, e al magistero supremo della dignità: la reputazione.
Uomo dell’Imperatore alla cui corte ha scalato tutti i gradi della sua carriera, notaio della cancelleria, ambasciatore presso la corte papale – incaricato dal proprio sovrano di redigere le Costituzioni melfitane con gli altri membri della specialissima commissione – Pier delle Vigne è il testimone di una tragica vicenda in cui Dante, pur condannandone fermamente la scelta suicida, s’immedesima.
Vittima dell’invidia dei cortigiani per il favore imperiale di cui gode, Pier delle Vigne è accusato di tradimento, condannato e fatto accecare. Ne muore poco dopo, suicida. Dante rivive nella figura del funzionario, la sua stessa amarezza di esule ingiustamente cacciato dalla propria città. Se è fermo nel condannare il gesto estremo di togliersi la vita è altrettanto vicino alla vittima perché ha provato sulla sua pelle il costo sociale dell’emarginazione, la riprovazione sommariamente emessa dal tribunale dell’opinione pubblica.
-->Le anime che sono cadute in questa empietà sono condannate a farsi piante, radicate nel duro suolo del Tartaro che le fa prigioniere. Sono martoriate dai denti famelici delle Arpie per l’eternità e nemmeno il giorno del Giudizio universale queste stesse – nemmeno nella pausa in cui ogni mortale attende la sentenza di Dio – potranno rientrare nei loro corpi.
A loro spetta imperitura dannazione: smozzicate e poi ancora restituite – integre – all’immondo pasto.
L’uomo che canta Dante è dunque insieme vittima e peccatore. Il poeta – ascoltando il grido d’innocenza di Pier delle Vigne – comprende il dolore schiacciante di chi ha dovuto subire una accusa tanto terribile quanto infondata.
Il sentimento della vergogna è moneta corrente difficilmente gestibile. La vergogna è irrimediabile: “L’animo mio credendo con il morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”.
L’Inferno di Dante è un grande palcoscenico di vicende destinate a una platea pronta a immedesimarsi. Pier delle Vigne chiede al poeta ciò che ciascuna vittima ingiustamente accusata desidera ottenere: poter essere emendata.
“E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la mia anima”.
Ma si può decidere di porre fine all’esistenza, quando essa diviene intollerabile, farla finita e andarsene nell’addio al mondo?
Smarrito il senso del sacro, rimane la solitudine talvolta insopportabile di esistenze smarrite o stravolte dalla perdita del senso.
Il pur caritatevole poeta escogita nel contrappasso una pena inesorabile per le anime dei suicidi: nemmeno nel Giorno del giudizio quelle ombre meriteranno di essere ricongiunte a quel corpo che hanno scientemente violato, nemmanco per udire la sentenza dell’Eterno. Nell’imperituro oblio saranno costrette a essere pasto per le Arpie sebbene molte tra loro –le anime dei più sensibili, i più delicati nel coraggio – diventeranno nutrimento per chi saprà tenere a custodia ciò che il giusto, caduto nell’ingiusto, lascia di sé.
Capita, appunto, di scegliersi come maestro chi – nell’eleganza del rito – dice no al mondo e se ne va.
Il canto, integrale
Canto XIII, ove tratta de l’esenzia del secondo girone ch’è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch’ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E ’l buon maestro “Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone”,
mi cominciò a dire, “e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone”.
Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi”.
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”.
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
“S’elli avesse potuto creder prima”,
rispuose ’l savio mio, “anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece”.
E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede”.
Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace”,
disse ’l poeta a me, “non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace”.
Ond’ïo a lui: “Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”.
Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega”.
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
“Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”.
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
“O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?”.
Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse: “Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?”.
Ed elli a noi: “O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case”.
ll Canto XIV dell’Inferno sarà commentato da Alberto Prunetti
I commenti precedenti: Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)
– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)
– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)
– Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)
– Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)
– Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)
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