In occasione del #DanteDay, pubblichiamo il quindicesimo canto dell’inferno dantesco: uno dei cento che noi de L’Indiscreto pubblicheremo commentati da altrettanti autori e autrici contemporanei/e. A firmarlo è Edoardo Rialti, traduttore, critico, giornalista culturale nonché curatore di questo Commento Collettivo alla Commedia.
IN COPERTINA, E NEL TESTO: Amos Nattini | Inferno, canto XV | tavola della “Divina Commedia” di Dante Alighieri, 1931-1941 | litografia a colori su carta
Con il contributo di
Peccato non leggessero Platone. Che avessero solo il Timeo tradotto in latino da Calcidio. Che non conoscessero il Simposio dove Socrate inscalfibile tra gli avvinazzati già profetizza Shakespeare (“chi ha il mestiere della tragedia deve averlo anche della commedia”) e mostra come l’amore di due uomini genera figli eterni, quando un giovane “sente il fuoco di creare e di dare la vita. Allora comincia a guardarsi intorno a cercare il bello nel quale crearla. E se incontra uno spirito bello, cristallino, sublime, s’abbraccia a questo spirito e al corrispondente corpo e ha subito gran facilità con questa persona, a discorrere di virtù, delle qualità che deve avere un uomo specchiato, e del suo modo di fare… E ‘facendo l’amore’ con lui crea e partorisce ciò di cui era incinto da tanto. Ha sempre in mente l’amato, presente o assente che sia, e in compagnia sua coltiva e alleva quello che ha fatto nascere.” Peccato non leggessero il Fedro. Sediamo qui, all’ombra di questo platano frondoso e alto, mentre il ruscello scorre e possiamo immergere i piedi nell’erba fresca. Ti guardo parlare, divino ragazzo, e ho il petto colmo d’una sapienza e gioia che prima ignoravo. Le Ninfe mi possiedono e posso cantare che ogni amore è memoria dell’esilio. Ricordiamo da dove siamo precipitati, e quale dio servivamo entrambi nella corte del cielo. Tutto questo arriva alla spiaggia di Venezia dove Aschenbach morente guarda Tadzio entrare in mare e additare l’orizzonte, mentre il trucco si sfalda sulla faccia febbricitante. Siamo tutti tempo che si disfa mentre la bellezza ci invita a seguirla dove il mare s’incontra con il sole. La corrente dell’Ilisso che mormorava fuori le mura di Atene si fa strada fino al tribunale dove Wilde è in piedi, processato. “L’amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo maturo nei confronti di un giovane, lo stesso che legava Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare. È bello, raffinato, è la forma più nobile di affetto. Non c’è nulla di innaturale in ciò. Che sia questa la sua essenza, il mondo non riesce a comprenderlo. Il mondo lo dileggia, e talvolta mette alla gogna per causa sua.” Peccato che nel Medioevo non leggessero Platone. Ma non importa. Le cose accadono lo stesso. I figli immortali si generano ugualmente, le stelle si possono additare persino in un abisso senza cielo. In un deserto di fuoco e corse affannose, dove la bestemmia dell’amore contro natura viene punita da una pioggia incandescente che, raddoppiato tormento, accende a vampate la sabbia sotto i piedi, si viene improvvisamente afferrati e riconosciuti da una figura più in basso, nel crinale, ci si sorprende a fissare lo stupore in un viso devastato. Qual maraviglia. Si stende la mano a quella faccia coperta di ustioni e piaghe, e si mormora. Siete voi, qui? Voi. Qui. Ser Brunetto. E se il viaggatore gli rivolge uno dei pochissimi voi di tutto l’Inferno, con la premura di anteporvi addirittura un titolo signorile, per il dannato l’altro resta sempre quel tu fondamentale della vita di ognuno. O figliuol. È uno di quei debiti immensi che non si possono mai scandagliare del tutto, un giovane poeta che muove i primi passi nell’arte e incontra un autore già maturo e ammirato, traduttore dal francese e dal latino, ‘digrossatore dei civici costumi’, come lo omaggia il Villani, modello e fabbro di finezza letteraria, civica e morale, di stile nella sua accezione più vasta e profonda, cui forse si deve la prima poesia omosessuale della letteratura romanza per il compatriota Bondie Diotaiuti. S’eo son distretto inamoratamente. Del resto, la colta, ricca Firenze del ’200-300 era la “nuova Sodoma” delle prediche di Fra Giordano da Rivalto, e come testimonia il Davidsohn, nella Germania medievale “Fiorentino” era sinonimo di pederasta, in una società che, a dispetto delle prediche e legislazioni, era molto più spregiudicata, giocosa e sensuale di quello che certe ricostruzioni successive continuano a farci credere, un mondo di arazzi sgargianti, abiti aderenti, vino generoso, parolacce, guance rosse e donne che esigono il loro piacere e sanno prenderselo. Dove nei favolelli francesi i vescovi benedicono la fica e Boccaccio racconta di giovanotti strapazzati da coppie benestanti per i quali fungono da marito e moglie. Barzelletta “meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto”. A sua volta esule in Francia, il guelfo aveva composto un poema filosofico dove l’io narrante si smarriva in una “selva diversa” errando per una “valle oscura” insidiata da belve feroci. Ricorda qualcosa? Sue citazioni ricorrono in passaggi fondamentali della Commedia (Ulisse, Matelda, il Veltro) e il canto che lo riguarda ne è a sua volta intessuto, col consueto mimetismo di Dante che pare quasi succhiare stile e parole dei suoi interlocutori. Ma il punto è un altro, e va cercato prima e dopo questi echi e omaggi. Giacché nei regni eterni dei morti riaccade sempre il tempo, quanto si era fuggevolmente scorto sulla terra adesso si stende e dilata e trionfa senza schermo. Improvvisamente il sabbione flagellato dal fuoco si sovrappone con le strade chiassose di Firenze dove il giovane poeta intercettava quel politico e scrittore e gli chiedeva di poterlo accompagnare per un tratto di strada, ringraziarlo, parlargli, ascoltarlo. E l’uomo più anziano a sua volta annuiva sorridendo. Ah, hai letto l’Etica, ottimo. Ma forse dovresti provare anche con Macrobio. Non c’era qualcosa di simile in Alano di Lilla? Adesso nell’abisso la prospettiva si ribalta. È il vecchio, con ironia e parrebbe quasi timidezza, che chiede indulgenza. Non ti dispiaccia, se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia. E in quel verbo, come non leggere solamente lo spazio del gigantesco girone di tortura, ma il tempo stesso? Ritorniamo lì, dove eravamo, io e te. Tutto è crudelmente capovolto, non si avanza ma indietreggia, l’anziano riverito arranca in basso, nudo e piagato, eppure alcune cose non cambiano. Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma ’l capo chino tenea com’uom che reverente vada. Il vecchio scrittore, l’umanista anzitempo, evoca il caso e il destino, addita le bestie corrotte che ammorbano la città, torna a consegnare moniti e austeri consigli. Soprattutto, fissa ancora una volta il giovane con quello sguardo e quel sorriso, carichi di affetto e stima, dei momenti insieme mentre tutta intorno Firenze vociava e risuonava. E s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei a l’opera conforto. Avremmo scritto assieme, avremmo vegliato parole e immagini nelle lunghe sere di stanchezza ed esaltazione. Persino adesso, qui, in mezzo alle urla e alle fughe in cerca d’un riparo impossibile, il vecchio scrittore invita a guardare dove tutti i grandi maestri hanno insegnato a puntare lo sguardo quando non hanno voluto plasmare devote copie, ma sostenere chi avrebbe potuto persino superarli. Se segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto se ben m’accorsi ne la vita bella. La tua stella. La stella che è tua. È il riconoscimento di una vastità che elude ogni consegna particolare, uno sguardo a servizio della nostra solitudine. E la risposta del più giovane scavalca a sua volta la somma dei dettagli, Fiesole e l’esilio, le miserie della politica e le fatiche del futuro e al tempo stesso ha l’audacia di legare la propria cacciata terrena a quella soprannaturale del maestro. Se fosse tutto pieno il mio dimando, rispuos’io lui, voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando. Se le cose andassero come io desidero, voi non sareste bandito. Dalla vita, e dall’umanità. Dalla natura. Voi non sareste qui. Perché non c’è ustione o condanna che possa togliermi dall’anima l’icona che stringo come un bambino sotto il cappotto. Ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna. L’unica perenne lezione, l’altra faccia delle macchie scure che sbocciano a fissare il sole, i fari luminosi che si accendono per chi scruta nel buio La sigaretta nella mano di Iannis Ritsos, sotto il cielo greco, Marguerite Yourcenar circondata dagli uccelli come un saggio cinese, Cristina Campo che rifiuta pubblicazioni e pubblicità con un sorriso egizio, Nietzsche che avanza nel suo isolamento di ghiaccio. Ad ora ad ora, balenando in mille dettagli e parole e gesti, scavalcandoli tutti. Nelle orazioni pubbliche o un dialogo privato, nella finezza di una spiegazione o una battuta ironica, passeggiando e ridendo lungo il fiume mentre la nebbia del tempo si dirada e il mondo intero e qualcosa oltre a esso si stendono davanti a noi. E quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. In fondo solo ossessioni da quattro soldi hanno il problema di determinare cosa ci fosse tra loro. Viaggiando verso la luce di Dio e il sorriso di Beatrice, ci si ferma a ribadire di essere stati generati adulti e scrittori da un artista che amava gli uomini. Perché tutti sappiano che il debito non si paga, che io so e ricordo e affermo dinanzi a cielo e all’inferno chi siete stato e siete, per me.
I due grandi modelli si fondono. Virgilio e Brunetto non si parlano direttamente, non solo perché la loro sintesi è chi li ha amati entrambi e si trova fisicamente in mezzo a loro, ma perché l’uno si riflette nella storia dell’altro. Imagine paterna è infatti possibile eco del’imago genitoris (Eneide, II), il viso del padre che fa rinsavire Enea quando questi vorrebbe solo farsi travolgere dal sacco di Troia, e morire con gli altri a difesa della patria che va in rovina. Col tuo volto negli occhi mi sono fatto strada nelle fiamme, ho accettato di fuggire per fondare qualcosa di oscuro che ancora non conosco. Peccato non leggessero Platone, ma non importa. A te sono ritornato nelle notti senza fine, nelle umiliazioni e incertezze, a te ho guardato per restare fedele all’uomo che sognavo di essere. Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio. Ancora una volta, c’è un erede che non dipende dalla carne e dal sangue. Triplice erede. Tu, la tua opera che ho intravisto, e anche la mia. Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. Qualcuno crede dolorosamente che dalla nostra selva di strazi e confusione si possa arrivare alla candida rosa di un senso che superi le contraddizioni e salvi i nostri amori. Ma questo non impedisce di rendere onore a un altro orizzonte dove, esclusa ogni salvezza eterna e ginocchio piegato a implorare misericordia, soli nella fedeltà agli dei che noi stessi abbiamo creato e servito, vincere e perdere quasi non contano più, e paiono persino confondersi e ribaltarsi nella tempesta di sabbia che ci inghiotte.

Il canto, integrale
Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti.
Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.
E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?“.
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.
I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.
“O figliuol”, disse, “qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni”.
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.
El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?”.
“Là sù di sopra, in la vita serena”,
rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle”.
Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.
“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra”.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
ll Canto XV dell’Inferno sarà commentato da Gabriele Merlini
I commenti precedenti: Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)
– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)
– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)
– Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)
– Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)
– Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)
– Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)
– Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)
Un Rialti commovente e poetico come non mai. Parlare di capolavoro non sembra affatto esagerato. Non tutto mi è chiarissimo ma si respira l’aria delle vette più alte.
meraviglioso commento per uno dei canti più belli dell’Inferno dantesco.
Incredibile trovare amore, umanità, affetto e dolce riconoscenza in una landa di fuoco, sotto la pioggia infernale pronta a bruciare un peccato che peccato non appare (e né può essere).
Splendida iniziativa! Ma per favore…almeno stavolta…chiamiamolo Dante dì e non day…non ci dovrebbe costare molto proprio in omaggio al Padre della lingua italiana!
Grazie.