Il Commento Collettivo, Canto XVII “Vendere il giorno e la notte”

Pubblichiamo il diciassettesimo canto dell’inferno dantesco: uno dei cento che noi de L’Indiscreto pubblicheremo commentati da altrettanti autori e autrici contemporanei/e. A firmarlo è Francesco Ammannati, storico e ricercatore universitario.


IN COPERTINA, E NEL TESTO: un’illustrazione di William blake

di Francesco Ammannati


Con il contributo di  


 

Ha una struttura complessa, il canto diciassettesimo. Si apre con la belva infernale Gerione, “sozza immagine di froda” posta a guardia delle Malebolge, l’ottavo cerchio destinato ai fraudolenti e di cui la fiera è la rappresentazione plastica con quel volto ingannevole di uomo giusto, il corpo di serpente e la coda velenosa. Si conclude con una discesa allucinante di Dante e Virgilio in groppa al mostro demoniaco, convinto non si sa come dal Maestro a fungere da navicella.

Tra questi due episodi, Dante trova il tempo per una visita agli usurai che, al pari degli ospiti dell’intero terzo girone, sono costretti sotto una pioggia di fuoco, accovacciati nel tentativo di ripararsi con le mani e strapparsi i lapilli che ne bucano la pelle. Violenti contro l’arte, contro l’attività produttiva questi usurai, come ha già spiegato Virgilio nel canto undicesimo. L’usuraio vuole ottenere un profitto senza lavorare, ma il Signore non aveva stabilito (Gn 3,19) “con il sudore del tuo volto mangerai il pane”? Il denaro, lo diceva già Aristotele, è sterile. Generare denaro dal denaro, come pretendono di fare gli usurai, è contro natura. E invece l’usuraio manovra per farlo fruttare giorno e notte, la domenica e durante le feste, miracolo diabolico del lavorare dormendo: “non guarda dìe né festa, né per Pasqua non resta”, condannava Brunetto Latini. Vende il giorno e la notte, la luce e il riposo. Egli vende il tempo, ma il tempo appartiene a Dio, non agli uomini. Anche ladro, quindi, perché trae profitto da un bene altrui contro la volontà del proprietario. Ladro del patrimonio di Dio, inevitabilmente fuori dalla società dei fedeli.

Oggetto di disprezzo già dei padri della Chiesa, il prestito usurario era concesso nella Bibbia agli ebrei se esercitato nei confronti di uno straniero (Dt 23,20-21), ma trovava nel Vangelo un divieto assoluto concretizzato nel “mutuum date nihil sperantes” (Luca 6,35): il mutuum di epoca romana era un contratto che trasferiva la proprietà e si concretizzava in un prestito che doveva rimanere gratuito; la speranza era l’attesa interessata di un beneficio. Il Decretum Gratiani nel XII secolo era in tal senso lapidario: “Quicquid ultra sortem exigitur usura est”, ricollegandosi idealmente all’etica cristiana tardoantica e bizantina che assimilava spesso gli usurai ai commercianti, entrambi dalla dubbia identità morale: “Homo mercator vix aut numquam potest Deo placere”, ammoniva San Girolamo. Il mercante era sempre in odore di usura.

In realtà, in un’economia chiusa come quella dell’Europa altomedievale, in cui le opportunità di impiego e la circolazione della moneta erano scarse, il problema dell’usura rimaneva, nella pratica, secondario. Ma col volgere dell’anno Mille e la messa in moto di una serie di sconvolgimenti sociali ed economici riassunta dagli storici come “rivoluzione commerciale”, quell’edificio concettuale e il sistema di valori che lo puntellava andarono in crisi. L’espandersi delle città europee come centri produttivi e del commercio, l’aumento dell’estensione e della resa delle coltivazioni, l’emergere di una “mentalità aritmetica”, l’introduzione delle “macchine” in alcuni processi agricoli e manifatturieri e, soprattutto, l’irruzione dei mercanti sulla scena: ogni ambito della nuova economia, già agli inizi del Duecento, non poteva fare a meno del credito. In Europa si spezzava per la prima volta nella storia il legame tra la ricchezza legata al possesso della terra e il potere politico che ne era stato antecedente e conseguenza; la ricchezza mobiliare, monetaria, commerciale, creditizia diventava autonoma, relegando quella immobiliare al ruolo di rifugio e di difesa dei privilegi di ceto. È da questo momento che è possibile tracciare una distinzione tra ciò che è “politico” e ciò che è “economico”, distinzione non conosciuta dalle società tradizionali.

Il capitalismo delle origini aveva bisogno di tecniche nuove, ma anche del ricorso massiccio a pratiche da sempre condannate dalla Chiesa. L’economia monetaria minacciava gli antichi valori cristiani; il nascente diritto canonico, e a seguire la scolastica, tentavano di contenerne l’influenza. Da qui la rinnovata e ancora più rabbiosa lotta al prestito usurario tra Due e Trecento, reazione al nuovo diritto dei cambiatori-banchieri che si stava affermando in tante città italiane ed europee e che usando lo strumento degli statuti comunali sanciva l’esplicita liceità dell’applicazione dell’interesse. In gioco c’era l’anima dei fedeli, certo, ma soprattutto la messa in discussione dei tradizionali assetti di potere, degli equilibri tra gli ordini, della struttura della società, specchio del regno dei cieli: non a caso l’usura finì per essere assimilata all’eresia. Si andava però sviluppando in Occidente una chiara distinzione tra peccato e reato: se l’usura rimaneva un sacrilegio tra i più abietti, il prestito a interesse doveva essere garantito dall’autorità politica e dalla giurisdizione civile in quanto necessario ai traffici, all’economia, alla società. Tra la fine dell’XI e l’alba del XIII secolo, un passo ulteriore, il cambiamento del concetto stesso di peccato, da misurare ormai sulla base dell’intenzione soggettiva del peccatore. L’azione è malvagia, ma l’intenzione è buona? Risolviamo la questione nel confessionale.

Non si deve leggere questo passaggio, in chiave secolare, semplicemente come la vittoria di un’“etica mercantile” sulla “cultura clericale”. Si trattò di un interscambio tra mondi, dell’affermazione della possibilità di definire una rappresentazione dell’economia in cui il confine tra prassi laica e forma mentis teologica fosse, se non liquido, permeabile. Di un meccanismo nuovo, fondato sulla formazione di un rapporto dialettico tra legge positiva, della Chiesa o dello Stato, e il sistema di norme che si formava sul mercato e reggeva lo scambio delle merci. L’invocazione che apriva i libri contabili delle compagnie commerciali, “in nome di Dio e di guadagno”, non era un compromesso ambiguo, ma (come ha sottolineato Paolo Prodi) l’espressione della coscienza del fondamento religioso di un potere dei mercanti-banchieri che non coincideva con il potere politico.

Mutava, parallelamente, anche la concezione della ricchezza monetaria e del denaro in quanto tale. La predicazione dei membri dell’Ordine francescano, fresco di creazione, ebbe un ruolo di primo piano nella riflessione intorno a questi elementi. In modo apparentemente paradossale fu il loro “immaginare la povertà” che portò a definire la ricchezza e il suo funzionamento; partendo dall’enigma di un modello di povertà cristiana impossibile da realizzare in termini concretamente economici, i pensatori francescani approfondirono lo studio delle dinamiche dell’arricchimento trovando nel mercato il luogo di contatto tra mondo laico e religioso, là dove la tensione tra denaro e valore delle cose trovava il naturale scioglimento. La nozione francescana di ricchezza faceva del profitto legittimo e convalidato dalle istituzioni la manifestazione della capacità umana di apprezzare e scambiare i valori relativi degli oggetti. Sotto questa luce, come era possibile insistere con la sterilità del denaro? La ricchezza poteva dipendere dal commercio di un diritto sulla moneta, cioè di un valore astratto e incerto, ma riconosciuto reale da coloro che componevano il mercato: il denaro aveva il potere di raffigurare i valori e di renderli trasportabili, volatili. L’importanza del denaro, e per i francescani questo permetteva anche ai ricchi di essere simili ai poveri di Cristo, non risiedeva nella massa tesaurizzabile, ma nella sua capacità di determinare il valore delle cose; peccato contro la carità non era la ricchezza in sé, ma il suo accumulo improduttivo ed egoistico. La ricchezza sarebbe diventata positiva e in grado di dare utilità alla comunità cristiana se l’abilità mercantile l’avesse fatta circolare e usata come unità di misura e non come oggetto da immobilizzare. In quest’ottica il capitale dei mercanti e dei banchieri era uno strumento al servizio del benessere collettivo, il denaro il “calore vitale” di una città, come lo avrebbe chiamato Bernardino da Siena nel Quattrocento, il “sangue” da far circolare attraverso il “corpo”, l’organismo sociale. “Denaro morto” se tesaurizzato in oggetti o attività improduttive, o posseduto da chi, esterno alla comunità cristiana, non le avesse fatto godere nessun beneficio. Profitto individuale, prosperità collettiva e virtù morale si facevano adesso un’unica cosa. I mercanti, i protagonisti della rivoluzione commerciale, diventavano le figure in grado di far sprigionare la potenzialità positiva della moneta.

Anche il tema dell’usura trovava spazio in questa nuova lettura. In passato ogni applicazione di interesse era stata condannata come un pericolo, per lo spirito ma anche per l’economia poiché sottraeva capitali finanziari alla produzione agricola, l’unica degna di rispetto e considerazione. Adesso queste azioni dovevano essere analizzate nel concreto secondo due punti di vista: da una parte il prestito come investimento produttivo, dall’altra la speculazione usuraria a danno della collettività e dei poveri. D’altronde esisteva un’antica tradizione teologica e narrativa che aveva fatto del diavolo il primo usuraio e di Cristo il primo mercante. Ma in quest’epoca si andava oltre: non la sparizione del peccato di usura, anzi l’inasprimento della condanna a fronte di una diminuzione del suo campo di applicazione. L’interesse diventava giustificabile perché indennità di una perdita (damnum emergens, cioè un danno inatteso subìto per un ritardo nel rimborso, o lucrum cessans, il mancato profitto legittimo di un investimento alternativo al prestito) o remunerazione di un rischio. O di un lavoro, quello del mercante.

Non si trattava di una intelaiatura costruita per ragioni di opportunità, o di una faticosa elaborazione di scappatoie contrattuali per evadere il divieto della corresponsione di interessi, ma dell’affermazione di uno specifico spazio cognitivo in cui il “vero mercante” si contrapponeva all’usuraio manifesto, colpevole del peccato di avarizia, un parassita che si collocava al di fuori di una circolazione virtuosa della ricchezza e non danneggiava soltanto colui che veniva sfruttato, ma la comunità nel suo insieme. Il credito, il commercio, il profitto e i mercanti erano parti essenziali di una realtà cristiana che si voleva capace di raggiungere una felicità universale e un’eterna salvezza. La città-mercato diventava quindi il luogo dove “pericolosamente ma necessariamente” si determinava l’organizzazione politica ed economica della collettività dei cristiani, un sistema di relazioni basato su fiducia e credibilità reciproche: la distanza tra usurai e mercanti era codificata dalla differenza tra individui esterni alla comunità economica dei fedeli, nemici pubblici al pari di ladri e assassini, e gruppi che ne facevano parte perché comprendevano la regola che legittimava l’arricchimento, la conferma pubblica di un’identità non speculativa.

Come viene gestita questa transizione, a ben vedere epocale, nella Commedia?

Torniamo all’inizio. Dante si allontana da Gerione per approcciarsi agli usurai, e presto individua alcuni banchieri, fiorentini e non (un Gianfigliazzi e un Obriachi, uno Scrovegni di Padova): degni nemmeno di menzione, tranne Vitaliano del Dente che tra l’altro non è ancora arrivato all’Inferno, sono solo riconoscibili da una borsa appesa al collo su cui è inscritta l’insegna della casata. L’usuraio è l’“uomo con la borsa” secondo una consolidata, e tutt’altro che lusinghiera, tradizione iconografica medievale.

A fronte di un dibattito civile e teologico che aveva visto l’usura debordare dai ristretti confini in cui era stata inquadrata dalla trattatistica fino al primo Duecento, l’usuraio, anche nella sua accezione di mercante-banchiere, è ancora per Dante la rappresentazione icastica della cupidigia. È chiaro che le trasformazioni di cui è stato detto finora non erano condivise o accolte in modo indiscriminato, nemmeno dal mondo laico, e non mancavano forze di reazione che appoggiavano istanze più conservatrici. Dante pare sottoscrivere queste ultime. Forse proprio perché cittadino di uno dei centri in cui queste dinamiche avevano subito un’accelerazione improvvisa, imprevedibile fino a un secolo prima, dal suo giudizio traspare un deciso risentimento verso la nuova mentalità e “morale mercantile”. Un’alterità rispetto ai tentativi di inquadrare i processi socio-economici in corso in un circolo virtuoso che evidentemente non lo convinceva fino in fondo, stante anche la sua concezione dell’attività economica tout court: una condanna con poche eccezioni. Così com’è assoluta in Dante la condanna delle ricchezze, potenzialmente inique e imperfette perché quasi mai attribuibili all’industria dell’uomo (Convivio IV, XI, 6).

Per giustificare quest’approccio si potrebbe, malignamente, ricordare che il padre di Dante stesso era stato un mercante sospettato di usura e per questo esposto al biasimo sociale, ma è cruciale, piuttosto, l’astio verso Firenze che lo aveva cacciato e l’élite politico-economica, progressista e “moderna”, che la rappresentava. Nella condanna “passatista” dell’usura convivono in Dante la nostalgia per un’età cavalleresca al tramonto e per una società statica ormai arcaica, un buon tempo antico ancorato ai valori tradizionali sconquassato dall’irruzione della “gente nuova” alla ricerca dei “sùbiti guadagni” generatori di “orgoglio e dismisura”, alfieri dell’avanzata dell’economia monetaria. Alla dottrina cristiana che pure iniziava a giustificare la ricchezza privata grazie al benessere che apportava alla comunità, Dante continuava a contrapporre l’utopia del ritorno a una Firenze originaria, non più “città partita” dominata dalla brama esasperata di denaro e potere, ma luogo ideale governato dalla sobria virtù.

 

Il canto, integrale

Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l’ottavo cerchio de l’inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra ’1 quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.

Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!
“.

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi.

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse: “Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca”.

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti”,
mi disse, “va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti”.

Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.

E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.

E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,

che recherà la tasca con tre becchi!””.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’ mi in dietro da l’anime lasse.

Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: “Or sie forte e ardito.

Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male”.

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,

tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.

I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

e disse: “Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai”.

Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;

né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.

Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.

E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,

discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,

si dileguò come da corda cocca.


ll Canto XV dell’Inferno sarà commentato da Gabriele Merlini

I commenti precedenti: Inferno:

– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),

– Canto II (commentato da Michela Murgia)

Canto III (commentato da Loredana Lipperini)

Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)

Canto V (commentato da Paola Barbato)

Canto VI (commentato da Vanni Santoni)

– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)

– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)

– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)

Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)

Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)

Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)

Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)

Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)

Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)

Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)


Francesco Ammannati (1978), Ph.D. in Storia economica, scrive e insegna tra Firenze, Milano e Udine. Partecipa a progetti di ricerca europei che indagano l’economia in epoca preindustriale e collabora con la Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini” di Prato.

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