Pubblichiamo il diciottesimo canto dell’inferno dantesco: uno dei cento che noi de L’Indiscreto pubblicheremo commentati da altrettanti autori e autrici contemporanei/e. A firmarlo è la scrittrice Chiara Tagliaferri.
IN COPERTINA, E NEL TESTO: un’opera di Giovanni Stradano
di Chiara Tagliaferri
Con il contributo di
La notte del 18 maggio del 1936, una donna giapponese aspetta che il suo amante – con cui ha finito da poco di fare sesso – si addormenti. Verso le due del mattino, prende l’Obi del suo kimono, lo passa due volte attorno al collo di lui, e lo strangola. La donna si chiama Sada Abe, e finalmente può riposare al fianco di Kichizō Ishida, l’uomo che ama e che ha appena ucciso.
Quando si sveglia, con un coltello da cucina recide pene e testicoli dell’uomo, li avvolge in un pezzo di carta di riso, li infila dentro la biancheria di lui, che decide di indossare sotto al kimono. Intinge un dito nel sangue e gli scrive sulla gamba sinistra “Sada e Kichi insieme”, come gli adolescenti fanno sulle cortecce degli alberi, o sui muri. Ripete la stessa scritta sulle lenzuola dell’hotel, mentre sul braccio sinistro di lui incide il suo nome, affinché venga seppellito con l’idea di lei addosso.
Lascerà l’albergo, raccomandando ai proprietari di non disturbare Ishida, e questo sarà il primo momento, nella sua vita, in cui racconterà di essersi sentita “totalmente a suo agio, come se un pesante fardello le fosse stato tolto dalle spalle, vedendo dentro di sé tutto più chiaro”.
Perché, se non puoi avere ciò che desideri, a volte la soluzione è uccidere il tuo desiderio.
Sada Abe non aveva mai desiderato davvero nulla, fino a quel momento.
Settima di otto figli, nasce a Tokyo nel 1905. Il padre fabbrica tatami, la madre le insegna fin da piccola a suonare lo shamisen, il liuto a tre corde che accompagna le rappresentazioni kabuki e che è, soprattutto, lo strumento di battaglia delle geishe. Status a cui Sada ambisce da subito, perché sinonimo di emancipazione e libertà.
-->Solo che, come geisha, Sada vale poco: a quindici anni – quando viene venduta dai genitori a una casa di Yokohama – è già stata violentata da un balordo, e l’evento fa franare le sue quotazioni, inficiate comunque dall’età (la formazione di una bambina solitamente inizia verso i cinque anni). Dunque Sada è in ritardo su tutto, e in anticipo su quello che non dovrebbe.
Così, per i successivi quattro anni, il suo compito è quello di “scaldare” gli avventori in attesa delle geishe, e a furia di intrattenerli, si prende la sifilide.
È inquieta, feroce, violenta, decide di andarsene dalla Casa per entrare nella prostituzione organizzata con licenza: si guadagna meglio, e le regole sono meno ferree. Così finisce a Osaka, ma la sua fama è pessima: deruba i clienti e la cacciano dalle case di tolleranza, passa quindi ai bordelli illegali, abituandosi ai soprusi dei clienti, alle retate della polizia, e alla prigione.
Quando muoiono entrambi i genitori, Sada prova ad arrotolare il filo dei suoi ultimi quindici anni, torna indietro, cambia nome, si fa assumere come cameriera in un ristorante nel quartiere di Yoshidaya.
Il proprietario è Kichizō Ishida, un bellissimo quarantaduenne che ha una moglie e parecchie amanti.
Sada racconterà che Kichi – così lo chiama – era l’uomo più sexy che avesse mai incontrato. Parlando di lui, dirà: “È difficile spiegare esattamente cos’aveva Ishida di così bello. Ma era impossibile trovare qualcosa di negativo nel suo aspetto, il suo atteggiamento, la sua abilità come amante, il modo in cui esprimeva i suoi sentimenti”. I due iniziano a fare l’amore, e non la smettono più. Lo fanno per giorni che diventano settimane, ininterrottamente. Si rinchiudono prima in un hotel di Shibuya, poi cambiano quartiere, si rifugiano in una casa del tè, e continuano a scopare, anche mentre entra qualche geisha per servire da bere.
Un amante di Sada racconterà: “Non era soddisfatta se non lo facevamo almeno due, tre, o quattro volte ogni notte. All’inizio era fantastico, ma dopo un paio di settimane ero esausto”.
Sada, per la prima volta, si innamora. E non è tipa da dividere qualcosa o qualcuno che vuole tutto per sé.
Compra un coltello affilato, minaccia Kichi, dettandogli i suoi personalissimi comandamenti: “Non avrai altra donna all’infuori di me”, gli giura che lo ucciderà, lui è quasi lusingato, la prende per mano ma non la prende sul serio. E sbaglia.
La mattina del 18 maggio, dopo averlo ammazzato, Sada si aggira per Tokyo, con i pezzi di lui che ha scelto di portare con sé: “Perché non potevo portare con me la sua testa o il suo corpo. Volevo prendere la parte di lui che mi avrebbe riportato le memorie più intense”. È una versione hard-core di Lisabetta da Messina, Sada, e come l’eroina boccaccesca decide di morire di dolore, suicidandosi in una maniera abbastanza romantica: progetta di saltare da un dirupo. Il 20 maggio però la polizia la precede, arrestandola a sud di Tokyo: c’è una foto che ritrae il momento della cattura, in cui Sada sorride, come anche i poliziotti. Sembra una festa.
Al processo dichiara di amare da pazzi Kichizō, e che lo ha ammazzato solo per impedire alle altre di averlo. Le donne empatizzano con lei, diventa un simbolo del femminismo giapponese: Sada parla – a suo modo – d’amore, e l’amore è scellerato, brutale e folle.
I suoi interrogatori vengono trascritti, e diventano un best-seller. La condanna è a soli sei anni, ne sconterà cinque e uscirà per un’amnistia generale. Fuori dal carcere cambierà nome e molti lavori (appena la riconoscono, la licenziano). Troverà un marito, che quando verrà a conoscenza della sua vera identità, la lascerà.
Nel 1970, semplicemente, sparirà, di lei non si saprà più nulla. Diranno che si è suicidata, o che si è ritirata in convento. Sada diventerà la leggenda di se stessa, la sua storia ispirerà film come “Ecco l’impero dei sensi”, di Nagisa Oshima, che riscuoterà un successo pazzesco.
Sada Abe era una prostituta. Dante ha scelto per i ruffiani, i seduttori e le cortigiane del potere la prima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno. Li ha coperti di sterco, li ha denudati, ha immaginato per loro le fruste dei demoni cornuti. Le prostitute, invece, le incontrerà in Paradiso, dove è giusto che siano. Sada, sicuramente, gli sarebbe stata molto simpatica.
Il canto, integrale
Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de’ ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
“Già di veder costui non son digiuno”.
Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.
E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?”.
Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno”.
Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: “Via,
ruffian! qui non son femmine da conio”.
I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.
Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia
lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati”.
Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna”.
Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.
Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?”.
E io a lui: “Perché, se ben ricordo,
già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti”.
Ed elli allor, battendosi la zucca:
“Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca”.
Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”,
mi disse, “il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.
E quinci sian le nostre viste sazie”.
ll Canto XIX dell’Inferno sarà commentato da Cristiana Simonelli
I commenti precedenti: Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)
– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)
– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)
– Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)
– Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)
– Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)
– Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)
– Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)
– Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)
– Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)
– Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)
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