Il Commento Collettivo, Canto XXII: La bolgia dei politici e dei direttori artistici

Per il nostro progetto di commento collettivo alla commedia dantesca, ormai ribattezzato nella forma abbreviata “CCC”, pubblichiamo il ventiduesimo canto dell’inferno dantesco, commentato da Federico Grazzini.


IN COPERTINA, E NEL TESTO opere di federico grazzini

di Federico Grazzini


Con il contributo di  


Nell’aria riecheggia ancora il peto con cui si è chiuso il ventunesimo canto. Dante con parole marziali dice di aver assistito, in vita, ad operazioni militari con ogni sorta di segnale ma mai uno come quello del cul fatto trombetta di Barbariccia. Come se le parole pronunciate sotto la pioggia dal replicante di Blade Runner, “Io ne ho viste cose che voi umani…” si concludessero con “Ma mai ho sentito un culo dare un segnale militare così portentoso.” 

Il canto inizia con questa parodia e si snoda lungo l’argine della bolgia dei barattieri. La baratteria è un concetto estremamente attuale e caro al nostro tempo: i barattieri sono coloro che sfruttano una carica pubblica per interessi privati, facendo azione contraria agli interessi della cosa pubblica, macchiandosi di corruzione. Siamo nella bolgia dei politici, dei direttori artistici. La condanna richiama, per analogia, la bassezza della colpa di cui si sono macchiati: la pece è infatti viscida come la baratteria, e arriva a coprire interamente i loro corpi così come i barattieri hanno tentato di coprire le proprie malefatte. 

Questi dannati non appena vedono spuntare i loro carcerieri si ritirano nella pece in un gioco di astuzie contrapposte, come se fossero costretti a giocare all’infinito ad un grottesco ”Un due tre stella.” C’è qualcosa di ludico e molto di comico nel sollievo fantozziano che i condannati trovano entrando e uscendo dalla pece bollente, in questo chapliniano nascondere la colpa immergendosi di continuo. 

La cultura popolare dice “chi beffa, sarà beffato.” Una doppia beffa è alla base di questa vicenda. La beffa che la squadraccia sgangherata dei Malebranche sta architettando dal canto precedente a scapito dei due poeti e la beffa che gli stessi diavoli subiscono a loro volta da Ciampolo precipitando nella pece. 

Secondo lo schema tipico della rappresentazione popolare, l’episodio giunge qui al momento cruciale da cui scaturisce il ridicolo. La famosa buccia di banana. La comicità è poi accentuata nella goffa rissa fra i due demoni che termina con un capitombolo di entrambi nel fiume di pece e nella parziale vittoria del dannato che comunque, ben presto, tornerà a cuocere nella pece bollente. “Agli zoppi grucciate” si dice ancora a Firenze.

La rissa tra diavoli è anche l’occasione per la fuga di Dante e Virgilio, il che dimostra la goffa stupidità dei Malebranche che non hanno nulla di veramente spaventoso, ma sono ridotti a una dimensione burlesca tipica della letteratura medievale, assai lontana dalla rappresentazione sinistra che dei demoni offrirà in seguito tanta letteratura moderna e contemporanea. 

A doverli immaginare, vengono in mente i diavoli del mondo di Bosch e Bruegel o le creature e caricature di Callot e Daumier piuttosto che le bestie immonde dei film horror a cui siamo abituati. Per aiutare il lettore, ho deciso di dare un volto a questi diavolacci attraverso delle piccole sculture ispirate ai mondi che ho citato.

Nella costruzione di tutta la commedia dei diavoli Dante utilizza tecniche narrative e forme espressive simili a quelle che utilizzerà Dario Fo nel Mistero buffo, e le adatta di volta in volta agli effetti scenici desiderati. L’azione che ne scaturisce ricorda i generi della pantomima, della giullarata, della farsa, in cui prevalgono i toni burleschi e un feroce sarcasmo. 

Il registro è comico anche nel linguaggio, nelle somiglianze dei dannati e dei diavoli con gli animali, nelle metafore culinarie, nelle immagini e nei termini presi in prestito dalla cultura popolare. I Malebranche stessi sembrano delle maschere della commedia dell’arte. Una specie di Zanni con una fame del tutto particolare: la fame di torturare. 

La vicenda ricorda molto i Morality Plays dove i personaggi incarnano istanze morali. L’episodio è d’altronde paragonato da Dante stesso, nel canto successivo, alla favola di Esopo della rana e del topo che come ogni favola è un genere morale. E’ risaputo che Dante fu accusato ingiustamente di baratteria e per questo esiliato dai giudici fiorentini.

A questa storia il canto non fa riferimenti diretti, eppure, potrebbe suonare come una risposta a quei giudici. Per prima cosa perchè molto elegantemente Dante fa sua la morale della favola di Esopo: “la giustizia divina tutto vede e, tutto misurando sulla sua bilancia, dà ad ognuno quel che gli spetta”. In secondo luogo perchè con la commedia dei diavoli Dante sembra dire a quei giudici: “Una risata vi seppellirà!”. In un mare di pece.

Un’opera di Federico Grazzini per Il Commento Collettivo

Il canto, integrale

Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de’ barattieri in persona d’uno navarrese, e de’ barattieri medesimi questo canta.

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.

“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”,
gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi”.

Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
“I’ fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo”.

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.

Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: “State in là, mentr’io lo ’nforco”.

E al maestro mio volse la faccia;
“Domanda”, disse, “ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia”.

Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.

E Libicocco “Troppo avem sofferto”,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:

“Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?”.
Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.

Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna”.

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”.

“Se voi volete vedere o udire”,
ricominciò lo spaürato appresso,
“Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette”.

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: “Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”.

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: “Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia”.

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: “Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali”.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”.

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;

e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.

E noi lasciammo lor così ’mpacciati.


ll Canto XXIII dell’Inferno sarà commentato da Emanuele Rimoli

I commenti precedenti: Inferno:

– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),

– Canto II (commentato da Michela Murgia)

Canto III (commentato da Loredana Lipperini)

Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)

Canto V (commentato da Paola Barbato)

Canto VI (commentato da Vanni Santoni)

– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)

– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)

– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)

Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)

Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)

Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)

Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)

Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)

Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)

Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)

Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)

Canto XVIII (Commentato da Chiara Tagliaferri)

Canto XIX (Commentato da Cristina Simonelli)

– Canto XX (Commentato da Francesca Matteoni)

Canto XXI (Commentato da Licia Troisi)


Federico Grazzini è teatrante, disegnatore, musicista e all’occorrenza scultore. È diplomato in regia teatrale alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi e lavora da molti anni nel mondo dell’opera come regista. I suoi spettacoli sono andati in scena nei più importanti teatri in Italia, Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Sud Corea e Giappone. Vive tra Firenze e Londra.

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