Per il nostro progetto di commento collettivo alla commedia dantesca, ormai ribattezzato nella forma abbreviata “CCC”, pubblichiamo il ventitreesimo canto dell’inferno dantesco, commentato dal docente di antropologia cristiana e frate francescano Emanuele Rimoli.
IN COPERTINA E NEL TESTO, un dettaglio da Botticelli
di Emanuele Rimoli
Con il contributo di
L’ipocrisia è una, tocca tutte le dimensioni dell’umano, e quella religiosa è certamente la più scandalosa. Non solo né semplicemente per la contraddizione rispetto ai valori professati nel proprio credo, quanto piuttosto per il fatto che, essendo la dimensione che ingloba tutto (re-ligare), molto di più esprime il dramma, o perfino la tragedia, del tradimento di sé, delle relazioni, dei valori, della libertà e dell’amore.
Il greco, lingua delle sottili sfumature, custodisce l’ambiguità tipica dell’ipocrisia fin nel verbo che la indica – hypokrino: spiegare e interpretare, ma anche fingere. È il verbo che alludeva all’attore di teatro: è uno e centomila, a parlare è la sua maschera, non il volto.
La maschera intavola il suo discorso e recita la sua parte, snocciola il suo rosario di intenzioni e sentimenti, gesti studiati, frasi impostate, silenzi accuratamente meditati e sguardi enigmatici che verranno deposti e conservati a spettacolo finito. E poi una solitudine tremenda. Convivere con fantasmi dal volto altrui che si combattono o magari si accordano per una originale convivenza. Lo sapeva bene Dmitrij Karamazov: «Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel suo cuore l’ideale di Sodoma e, tuttavia, non rinnega neanche l’ideale della Madonna […]. No, l’animo umano è immenso, fin troppo, io lo rimpicciolirei».
Ora, questa doppiezza esprime la condizione del cuore dell’uomo. La larghezza dell’animo umano si rivela spesso in termini di ambiguità, di ipocrisia. Si agisce senza “guardare in faccia a nessuno”, ma si è vittima dei consensi; ci si presenta docili come agnelli, ma sotto il vello candido si nasconde la rapacità del lupo; si pretende di giudicare senza la disponibilità a sopportare per primi il giudizio su di sé, ammantando di giustificazioni dorate ciò che è sgradevole. È quel che mostra Dante, non senza una certa ironia: i filatteri esagerati diventano cappucci che impediscono la vista e nascondono il volto, le frange troppo allungate sono mantelli di piombo che appesantiscono e affannano il passo. Malizia e scaltrezza cedono il posto alla fatica insensata del contrappasso, si cammina lentamente su un’unica via, carichi del peso delle responsabilità mancate. Con la beffa della verniciatura in oro.
Reductio ad unum, potremmo intenderla anche così. Non ingaggiare la doppiezza del cuore (da tenere sempre in coppia con larghezza) e identificarsi con la sola manifestazione esteriore. «Voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno?» (Lc 11,39-40). Il volto diventa maschera, lo sguardo paralizza e possiede, la bocca circuisce, l’intelligenza si muta in malizia, la bellezza in cosmesi (una verniciatina dorata). E il drammatico krino (discernere, decidere) diventa una più facile sotto-valutazione (hypo-krino).
Se il compito dell’uomo nel mondo è quello della creatività libera e responsabile, la trasmutazione del piombo della vita morta nell’oro di una vita vivace, l’ipocrisia ne depotenzia la portata fino a renderla gioco di prestigio: filtrare il moscerino, ingoiare il cammello (cf. Mt 23,24) – il trucco c’è (sempre), anche se non si vede.
-->L’ipocrita fa della sua contraddizione una sorta di eroismo tragico. Perpetua l’inganno e si fa carico della giustificazione: Dio lo vole, Ad magnam Dei gloriam, Per il vostro bene… Perciò trova le soluzioni e i mezzi adeguati, percorre le scorciatoie necessarie, pondera il linguaggio impomatando le parole. E solo lui conosce il segreto dell’inganno, ché il cuore non dorme mai del tutto – anche il Grande Inquisitore ha sussultato.
La maschera – dorata fuori, di piombo dentro – sciorina la sua narrazione per mantenere ferma su di sé l’attenzione della platea. Ma a distanza di sicurezza. Poiché quell’innato bisogno di comunione e intimità cui vorrebbe tendere e che predica, è possibile solo in un fiducioso smascheramento, solo a condizione che si tolgano i veli finché appaia il volto, fino alla nuda e confidente consegna di sé all’altro. Solo quando il cuore accoglie questa disponibilità, ogni ipocrisia è vinta e le relazioni iniziano a splendere.
Il canto, integrale
Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l’ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l’auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d’Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.
Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: ’Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: “Maestro, se non celi
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento”.
E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.
S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia”.
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia,
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca.
Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi”.
E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: “Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi”.
Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi”.
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ’l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:
“Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?”.
Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio”.
E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?”.
E l’un rispuose a me: “Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo”.
Io cominciai: “O frati, i vostri mali…”;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa”.
Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce:
“Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci”.
Rispuose adunque: “Più che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri,
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia”.
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: “Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina”.
E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo e padre di menzogna”.
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ’ncarcati mi parti’
dietro a le poste de le care piante.
ll Canto XXIII dell’Inferno sarà commentato da Alessandro Raveggi
I commenti precedenti: Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)
– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)
– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)
– Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)
– Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)
– Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)
– Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)
– Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)
– Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)
– Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)
– Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)
– Canto XVIII (Commentato da Chiara Tagliaferri)
– Canto XIX (Commentato da Cristina Simonelli)
– Canto XX (Commentato da Francesca Matteoni)
– Canto XXI (Commentato da Licia Troisi)
– Canto XXII (Commentato da Federico Grazzini)
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