Il Commento Collettivo, Canto XXIV: Vanni Fucci ladro mai

Per il nostro progetto di commento collettivo alla commedia dantesca, ormai ribattezzato nella forma abbreviata “CCC”, pubblichiamo il ventiquattresimo canto dell’inferno dantesco, commentato da Alessandro Raveggi.


IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’opera di William Blake

di Alessandro Raveggi


Con il contributo di  


Vanni Fucci è l’autentico supervillain della Commedia: bestiale, dal passato che chissà perché e per come ne motiva l’assoluta malvagità, tanto che il Canto XXIV dell’Inferno gli sta stretto, in quanto davvero solo ladro sacrilego de’ belli arredi della Chiesa di S. Jacopo a Pistoia non fu. Contro di lui, Dante si vendica, si potrebbe dire, politicamente e personalmente, umiliandolo in quella settima bolgia, forse perché, si dice, il pistoiese gli fece un affronto pubblico, dandogli un mostaccione una volta nella città di Modona. L’Alighieri, novello Batman, piazza così il suo Joker nella cerchia dei ladri: un orrido rettilario africano dove i condannati, morsi da serpi e rettili di varia natura, che giungono le mani dietro la schiena ai condannati e allo stesso tempo li mordono, bruciandoli in polvere, per poi farli risorgere, in un terribile samsara. If I’m going to have a past, I prefer it to be multiple choice diceva il Joker di Alan Moore. E Fucci sembra proprio uno dal passato tutt’altro che unico: la bestia di Pistoia, che con le sue azioni efferate era il vero e proprio incubo della valle dell’Ombrone, un brigante reo di molteplici assassini, che scendeva con le sue bandacce dal Castello di Lizzano nelle montagne, dove fu confinato, per tormentare le famiglie avverse ai Neri. Di lui non abbiamo né confessioni, né rimorsi, e non sappiamo niente della morte: è il male assoluto. Da qui sono partito: mettendolo alle strette. Chissà se si ha lecito rubare la visione dantesca e rovesciarla in incubo di un supervillain che si smerdò rubando delle reliquie?

Chiuso in queste mie stanze fredde di Lizzano, col vento che fuori batte scuro di giù dall’Appennino verso le mura del castello, anche stanotte, sono tornati a visitarmi i serpenti.

Per anni, sono stato l’annientatore della valle dell’Ombrone, il bandito che ha trafitto cuori e bruciato case, ha tagliato mani ai suoi avversari e gole alle loro mogli, ha gioiosamente imprecato più volte di fronte a Dio, mentre i poderi di Serravalle e Montecatini venivano squassati tra le urla. Dentro e fuori dalla mia tana pistoiese – tana certo inospitale, tana odiata-amata assieme, il bastardo dei Lazzeri, bastardo fino a questo esilio, che mi sta quasi bene addosso. Ho sempre amato il disordine più di ogni cappa o stirpe o parte. Per il disordine, ho avuto davvero un grande amore, e c’ho dormito sopra, pargolo che si addormenta attaccato al capezzolo materno, e sospira assieme.

Ora, scosso come gli epilettici, sento ancora il morso di quelle vipere, la stretta di quelle anfisbene, e lo strisciare di chelidri, iaculi, faree, su tutto il corpo. E più che un fastidio è un terrore oscuro e molteplice, e ha insieme la regola di una tortura, fatta a posta per sortire una qualche genere di dichiarazione o confessione al condannato.

Una confessione? Piuttosto la morte, mi dico, e mi avvicino il coltello alla gola. Piuttosto la morte, che l’umiliazione, mi dico affacciandomi al balcone del castello, scrutando là dove scorre silenzioso il torrente Lima e l’albereta verde scura anch’essa tace. 

Nella nuova visione di stanotte, la scena rettile però si chiariva ulteriormente.

Mi trovavo come in una cella, in mezzo ad altri prigionieri, che più che una cella era un’arena di roccia, con i bordi un po’ franati, un anfiteatro o una camera di tortura all’aria, mentre sopra il cielo visibile era polvere e latte assieme: pareva d’essere in una di quelle scene infernali d’Etiopia o d’Arabia che i cronisti fiorentini riportano, fosse di rettili immondi dove mulina la polvere assieme alle loro code e lingue.

E non ero solo: c’era gente, anime in pena, forse erano i miei compari, ho distinto quasi ser Fiumalbo Tedeschi, o quel Della Monna notaio, che mi ha aiutato con la refurtiva la scorsa notte a San Jacopo, per la mia carnevalata.

Correvano nude, spaventate, gridavano intorno a me, tormentate dai serpenti. Le mani, come lo erano anche le mie, erano infatti legate da altre serpi, che agivano da lacci, e alcune di queste stesse serpi, saltando ogni tanto mordevano me e i miei compagni, alla nuca.

Non so spiegare bene poi cosa sia accaduto dopo quel morso.

Vedevo ogni gente avvampare attorno a me, sentivo il mio corpo tra le fiamme, svanire come svanissero i miei e più passati: non più il bastardo, non più l’assassino, non più il partigiano nero, non più il blasfemo Vanni bestia dal passato plurimo e dai ben pochi rimorsi, ma Giovannino Lazzeri preso per un ladro, un pusillanime, che ha fatto una sciocchezza col calare della notte in una cappella. Fregato forse io da una confessione del Della Monna, o del Rampino? Vanni anch’egli serpe, anch’egli biscia, per un paio di reliquie trafugate? Che mi abbiano davvero incastrato?

Pareva però tutto finito in cenere. Un certo sollievo. 

Il peggio del sogno rettile però ancora aveva da venire.

Come accade spesso negli incubi violenti, è quasi peggio che non si muoia, risvegliandosi.

Ma ci si sospende, per poi ripartire, come fossimo la celebre fenice che muore tra la mirra e poi rinasce. Dopo la mia prima incinerazione, ho sentito infatti il corpo come dolorosamente reincarnare, e rivivere in un attimo la botta della nascita, e farmi uomo come sono ora, e farmi figlio illegittimo di Fuccio, e ritornare a quel cerchio di compari prigionieri e forse fedifraghi, domati dalle serpi. Di nuovo lì, si ricominciava.

L’ennesima volta però, stanotte, la scena perenne fino a che non mi sveglio, era ulteriormente cambiata, schiarita. 

Sopra al bordo aperto della nostra cella, della nostra fossa nel deserto, sono apparsi due uomini.

Le tuniche tirate su fino alle ginocchia, e lo sguardo affranto di chi avesse scarpinato molto – che la mia arena si trovi in cima ad un monte, e poi risprofondi giù, e quindi per quei due tizi meta, e per me abisso?

Uno pareva guida e l’altro suo seguitore, o meglio chissà l’uno consigliere, l’altro aguzzino, due torturatori di vario livello. Venivano a battere cassa della mia tortura, o solo a goderne.

Il più anziano, quasi a umiliarmi, recuperato il fiato, beffandosi, mi urla, con un mezzo ghigno: “Ehi, anche tu qui?” – e so cosa vuole insinuare. 

Ma la sorpresa vera è stata riconoscere quell’altro, il più giovane. Perché pareva il tizio del mostaccione. Il mostaccione modenese che gli tirai perché era un Bianco, che amava farsi vedere, fare il galletto, un poeta pieno di giustizie, e santi del passato, e innamorato, come quelli che si adorano leggere in Toscana. E a me andava così, in mezzo a quella strada di Modena, di umiliarlo: toh, fiorentino, toh guelfo bianco, Alighieri stilnovista, beccati questo, sbam!

“Tu sei quella bestia senza amore né patria della battaglia di San Savino contro i pisani, io ti riconosco”, mi aveva detto, per quella stessa strada, rimbalzando su di nuovo, dopo lo schianto, la mascella in mano. 

Ed era lui, sì, su quella ripa ronchiosa.

Ha fatto un ghigno tale e quale il suo mentore, aggrappandosi al suo braccio per sporgersi forse meglio. Godeva nel mio sogno di vedermi preso ora come ladro.

Al che, liberandomi dai miei rettili come un Laocoonte, ho provato a scarpinare dal mio abisso, e a farmi avanti, e a farla finita. Però, anche questo accade nei sogni: a volte l’aria è come terra dura da trapassare.

“Togli subito quel ghigno, pensa a le tue, che io penso alle mie!”, ho annaspato. “Pensa ai Malaspina, a Moroello, che è pronto a far briciole Firenze. Pensa alla tua città, per la quale sei più uggia che leggenda”.

“Parli tu, Fucci, leggenda di Pistoia? Leggenda dei ladroni, sì…”, ha gridato quell’altro, il più anziano. Come fosse il babbo dell’Alighieri corso in sua difesa contro un ragazzaccio.

Ero pronto al secondo attacco, ma un nugolo di luridi serpenti mi ha riportato pesantemente giù nel gorgo, lontano da quel babbo arrogante, da quel figliolo tremante, sul quale avrei caricato volentieri un secondo o un terzo mostaccione, o molti. Io tra le mie bestemmie dure durissime a Dio, trascinato e indebolito giù, io bestia, io serpe, io ladro avvelenato, che si è poi svegliato nel letto, tutto morsicato.

Una confessione? Piuttosto la morte, mi dico adesso, e mi avvicino il coltello alla gola davanti al Lima. Piuttosto venga la morte, mi dico, venga questo coltello.   

Il canto, integrale

Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de’ ladroni sgrida contro a’ Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta

che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende.

La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi ne la prima giunta.

“Omai convien che tu così ti spoltre”,
disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.

Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia”.

Leva’ mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.

Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi

da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro”.

“Altra risposta”, disse, “non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de’ seguir con l’opera tacendo”.

Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,

né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.

Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana”.

E ïo al duca: “Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci”.

E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: “Più mi duol che tu m’ hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,

e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

E detto l’ ho perché doler ti debbia!”.


ll Canto XXIII dell’Inferno sarà commentato da Emanuele Rimoli

I commenti precedenti: Inferno:

– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),

– Canto II (commentato da Michela Murgia)

Canto III (commentato da Loredana Lipperini)

Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)

Canto V (commentato da Paola Barbato)

Canto VI (commentato da Vanni Santoni)

– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)

– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)

– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)

Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)

Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)

Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)

Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)

Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)

Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)

Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)

Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)

Canto XVIII (Commentato da Chiara Tagliaferri)

Canto XIX (Commentato da Cristina Simonelli)

– Canto XX (Commentato da Francesca Matteoni)

Canto XXI (Commentato da Licia Troisi)

Canto XXII (Commentato da Federico Grazzini)

Canto XXIII (Commentato da Emanuele Rimoli)


ALESSANDRO RAVEGGI (1980) Vive a Firenze. Insegna letteratura alla New York University. Ha fondato e diretto la rivista letteraria “The FLR”. Ha scritto due romanzi (Grande karma, Bompiani 2020, e Nella vasca dei terribili piranha, Effigie, 2012), i racconti de Il grande regno dell’emergenza (LiberAria, 2016), quattro raccolte poetiche, un libro su Italo Calvino e uno introduttivo a David Foster Wallace, oltre a curare l’antologia di racconti Panamericana (La nuova frontiera, 2016). Scrive di libri e cultura su riviste nazionali e internazionali, tra le quali «Wired» e «Esquire». È curatore della collana di narrativa straniera di LiberAria editrice.

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