Per il nostro progetto di commento collettivo alla commedia dantesca, ormai ribattezzato nella forma abbreviata “CCC”, pubblichiamo il ventottesimo canto dell’inferno dantesco, commentato da Gregorio Magini.
IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’illustrazione di Giovanni Stradano
di Gregorio Magini
Con il contributo di
Il tema dell’ineffabilità della visione è una delle colonne portanti del Paradiso dantesco, che n’è pervaso dal fondo («vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende») alla cima («A l’alta fantasia qui mancò possa»). Ma se ne incontrano anticipazioni già nelle prime due cantiche del poema. Quasi sempre, l’insufficienza dell’intelletto e del linguaggio è riferita a visioni beatifiche e divine. Contrariamente, in questo Canto XXVIII dell’Inferno, l’ingegno manca per descrivere un’orrenda carneficina: quella che si para ai piedi dei due poeti nel nono fossato di Malebolge, dove soffrono «quei che scommettendo [dividendo] acquistan carco [colpa]», i «seminatori di scandalo e scisma», ciclicamente mutilati dalla spada di un diavolo. Non c’è abbastanza spazio nella mente e nel linguaggio, si legge, per accogliere tutto quel sangue e quelle ferite; nemmeno radunando i corpi straziati di tre fra le più sanguinose battaglie combattute sul suolo d’Italia, si avrebbe un’immagine adeguata del «sozzo» della bolgia. Coerentemente, non ne viene proposta alcuna. Lo sguardo si stringe invece su alcuni specifici dannati, nell’ordine: Maometto, il suo genero Alì, Pier da Medicina, Curione, il Mosca, Bertram dal Bornio. Di ciascuno di loro osserviamo, con un livello di dettaglio che oggi diremmo chirurgico, le ferite: Maometto ha il petto e il ventre aperti e le budella tra le gambe; Alì ha aperta la faccia; Pier da Medicina, il collo trafitto, e il naso e un orecchio amputati; Curione la lingua; il Mosca le mani, che gli spruzzano sangue sul viso; Bertram dal Bornio, il più mostruoso della serie, è un «busto sanza capo» che regge «con mano a guisa di lanterna» la propria testa.
Nell’usuale sviluppo di botte e risposte e incisi narrativi stupendamente intarsiati, apprendiamo che la colpa di questi spiriti è l’aver diviso ciò che per legge umana e divina avrebbe dovuto rimanere unito: la Chiesa (che c’entra Maometto? all’epoca, si credeva che l’Islam fosse un’eresia cristiana), la civitas e all’interno di questa, la famiglia. La disunione è causa di violenza, una violenza senza costrutto, giacché il suo miglior esito non può andare oltre il ripristino dell’unità perduta, cioè il ritorno al punto di partenza: e infatti le ferite degli scismatici, durante il giro, si rimarginano. Non c’è alcuna bellezza tragica, né carisma del male, in questo spettacolo della storia che dilania i propri figli per tornare sempre punto e a capo. Non per nulla, ci stiamo avvicinando al lago ghiacciato del Cocito sul fondo dell’Inferno. Il clima rovente delle passioni dei dannati e delle relative compassioni e ire del poeta pellegrino cede sempre più il posto, con l’inabissarsi del peccato ai gradi più luciferini, all’orrore. Solo dopo aver distolto gli occhi e ripreso il cammino, Dante mostrerà commozione – per la presenza tra i massacrati di un «consorte» ucciso nelle lotte di fazioni fiorentine, e rimasto invendicato. Ma questo avverrà nel Canto successivo; per intanto domina uno stato psicologico molto preciso: quello del trauma.
Indice del trauma è l’assenza di menzioni del dolore fisico che pure dovrebbe tormentare quegli uomini falcidiati. È come se la violenza dei colpi subiti, che rispecchia la violenza delle ferite da loro inflitte alla società quando erano vivi, li lasciasse insensibili ai dolori del corpo, riversando tutto in una sorda disperazione spirituale. «Oh me!» si presenta, appunto sordamente, Bertram dal Bornio, e poi invita Dante a riconoscere, nella sua, la peggior pena addirittura di tutto il mondo infero. Un uomo che si aggira con la testa in mano – tecnicamente si chiama cefaloforo e tipicamente era un gesto da santo, come San Miniato protomartire di Firenze – suscita certo pena e raccapriccio, ma è non è chiaro in qual senso si meriti la medaglia d’oro della sofferenza, se confrontiamo il suo stato ad esempio con quello dei violenti che cuociono nel sangue bollente, per di più saettati dai centauri quando mettono fuori il naso; o con quello degli alchimisti scabbiosi che si strappano la pelle con le unghie.
Allora, se vogliamo dargli retta – e Bertram si merita quantomeno il beneficio del dubbio, è barone e trovatore, una figura nobile che difficilmente parlerebbe solo per farsi compiangere – dobbiamo riconoscere che la più gran pena dell’inferno è essere divisi in due, è essere «due in uno e uno in due». Ma perché? Cosa significa questo paradosso? Se a prima vista è evidente quali siano le due parti in cui Bertram si trova spaccato – il busto e la testa – non è immediatamente chiaro quale sia questo «uno» che permane dopo la divisione. Dante subito ci conferma la difficoltà della situazione, rimarcando «com’esser può, quei sa che sì governa». Lo sa Dio, insomma.
Pare un riferimento al più grande mistero della fede cristiana, quello della Trinità: così come non possiamo comprendere l’unione in Dio delle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (per raffigurare la quale, lo stesso Dante ricorrerà, nella visione finale di Dio, a un’impossibile compresenza di tre cerchi di uguale diametro), non siamo in grado di capire come un uomo decapitato possa rimanere individuo. Suggestivo, a tal riguardo, il fatto che la colpa di Bertram sia di aver messo in conflitto fra loro un padre e un figlio (Enrico II re d’Inghilterra e suo figlio Enrico il Giovane): perversione dell’amore, insensibilità alla voce della terza persona divina. Tuttavia non è chiaro, per ora, se il paragone nasconda un’affinità profonda tra le due situazioni oppure sia un ardito accostamento di tipo logico-formale.
Mettiamo temporaneamente in disparte la Trinità e concentriamoci sul problema del «dilacco» di Bertram. Prima di poter dare una motivazione al primato della sua sofferenza, dobbiamo capire meglio cosa gli sta capitando. Qualcuno potrebbe essere tentato di trapiantare sulla situazione una concezione dualistica moderna, che prevede un distacco ontologico tra mente e corpo, e interpretare il dogmatismo dantesco come una specie di escamotage fantasy, per cui l’«uno» sopravvissuto allo scisma sarebbe la posizione soggettiva di Bertram, la sua coscienza insomma. Non solo peccherebbe di anacronismo, ma anche di cattiva aritmetica, perché si ritroverebbe con una parte di troppo: due pezzi di corpo più una coscienza.
-->Per non cadere in questo errore, basta ricordare che Bertram un corpo non ce l’ha, perché è morto. Le due parti separate di Bertram, il torso e la testa, devono in qualche modo essere due parti separate dell’anima, il che significa, in primo luogo, che l’anima è fatta di parti, in secondo luogo che una delle sue parti sta nella testa, e l’altra da qualche parte nel resto del corpo, e in terzo luogo, che la separazione non distrugge completamente l’unità dell’anima.
Per trovare conferma del primo vincolo, la ripartizione dell’anima, dobbiamo rifarci a informazioni sparse nel resto della Commedia, e ricostruire sommariamente la condizione degli spiriti dei defunti. Nonostante abbiano una loro apparenza e a tratti solidità, costoro non sono che una delle due parti dell’essere umano, per l’appunto l’anima e il corpo, che la morte ha temporaneamente separate, e che saranno ricongiunte nel Giudizio Finale. Nel frattempo, pur essendo prive di materialità, esse sono comunque in grado di pensare e di provare piacere e dolore, anche se in una forma incompleta. Questo però non significa che per Dante l’anima e il corpo siano due sostanze distinte. Seguendo Tommaso d’Aquino che riscriveva Aristotele per conciliarlo con la tradizione patristica, concepisce l’anima come un principio insieme causale e vitale che è una sussunzione di facoltà organiche da parte di uno «spirito novo» infuso nell’embrione direttamente da Dio. Essa è la forma unitaria del corpo ed è dotata di diverse potenze o capacità, cioè può e sa far fare delle cose diverse al corpo. A seconda della potenza sotto il cui rispetto è considerata, l’anima si qualifica in modi diversi, abbiamo quindi l’anima vegetativa, sensitiva e intellettiva. Quest’ultima si differenzia in intelletto e volontà, ma siccome Dante non ha certo paura della polisemia ricorsiva, queste due parti le nomina anche anima e cuore. («L’una parte chiamo cuore, cioè l’appetito [volontà]; l’altra chiamo anima, cioè la ragione [intelletto]». La Vita Nuova, XXXVIII, 5).
Esclama Bertram, alla fine del Canto: «partito [separato] porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone». Cos’è questo «principio» che sta nel «troncone»? Ancora, la concezione moderna potrebbe portare fuori strada, facendo pensare al midollo spinale. Invece, il principio del cervello, secondo la fisiologia Medievale, è esattamente il cuore, organo la cui specializzazione come muscolo circolatorio era ignota, e al quale erano attribuite invece funzioni molto più ampie di regolatore attivo e in qualche modo intelligente degli altri organi, dunque dell’intera vita del corpo, incluso, per mezzo delle terminazioni nervose che salivano lungo la colonna vertebrale, il cervello. Anche a livello ontogenetico, il cuore è ritenuto l’organo fondamentale da cui tutti gli altri si svilupperanno, sia prima del concepimento, per cui il «sangue perfetto [il seme maschile] […] prende nel core a tutte membra umane virtute informativa [facoltà di dar forma]» (Purgatorio XXV), sia durante lo sviluppo dell’embrione, secondo la tradizionale osservazione di Aristotele secondo il quale era il primo organo a formarsi.
Per l’uomo medievale, il cervello non era il despota assoluto del corpo che conosciamo oggi. La tradizione aristotelica addirittura lo concepiva come un banale organo di raffreddamento, una specie di radiatore. Tuttavia già Galeno nel II secolo lo aveva rivalutato, notando che tutti i nervi riconducevano ad esso, e aveva assegnato le tre partizioni platoniche dell’anima: razionale, spirituale e volitiva, rispettivamente al cervello, al cuore e al fegato. E anche nel Medioevo l’anima razionale tende a operare tramite il cervello. Non si aveva ovviamente cognizione dei neuroni, ma esistevano persino teorie sulle funzioni di diverse aree cerebrali, i ventricoli. Secondo Avicenna per esempio, il sensus communis, il luogo di raccolta degli stimoli sensoriali, un lontano parente di ciò che oggi chiameremmo “unità della coscienza”, era locato nel ventricolo frontale.
Nonostante tutte le ripartizioni funzionali, è bene ricordare che l’anima è sempre una e fondamentalmente indivisibile, principio questo assolutamente non negoziabile date le esigenze della teologia cristiana. L’anima è pensata come un’unità molteplice. Già Agostino aveva affermato: essa «in ogni corpo è tutta intera nel tutto, tutta intera in ogni parte» (La Trinità, VI, 6).
In base a questa ricostruzione, possiamo arrischiare l’ipotesi che separate in Bertram siano le facoltà intellettive e quelle volitive; per dirlo con linguaggio psicologico, che la ragione e i sentimenti non comunichino più.
Proviamo a riconnettere quanto detto allo stato di disconnessione traumatica dianzi descritto. Lo spettacolo della violenza operata dai peccatori, che si ritorce per contrappasso sulle loro stesse anime, produce uno stato di alienazione radicale. L’orrore blocca la pietà, non solo in chi assiste, ma negli stessi dannati. La sorgente dell’affettività, il cuore, non può più commistionarsi con le facoltà intellettive. Resta solo un’allucinata oggettività del male: sangue disperso, corpi smontati.
Oggi interpreteremmo un simile stato di disconnessione come una forma di schizofrenia, quando non addirittura, dato che si parla di amputazioni, di un caso di split brain, una sindrome neurologica dovuta alla separazione fisica delle connessioni tra i due emisferi del cervello, la quale, s’ipotizza, potrebbe condurre addirittura alla formazione di due coscienze distinte, che si spartiscono il controllo di diverse terminazioni nervose. Così, per esempio, un paziente in una simile condizione può sperimentare la “ribellione” di una gamba o di un braccio, che paiono dotati di volontà propria, non sempre collaborativa. Come abbiamo visto, però, la condizione di Bertram non può essere interpretata come una forma più o meno estrema di “io diviso”: l’anima, tenacemente, rifiuta di separarsi del tutto. La dannazione di Bertram consiste piuttosto nel trovarsi in una versione medievale dello split brain: la split soul.
Resta da trovare una soluzione all’aspetto più enigmatico: per quale motivo la split soul è la peggiore delle condanne? Per quale motivo l’indisponibilità del cuore deve condurre alla disperazione più profonda? Avevamo introdotto, quasi come una suggestione, una connessione con il mistero della Trinità. La conferma che non si trattava di mere illazioni giunge non troppo più in là nel cammino, per la precisione nel Canto III del Purgatorio. Accade che per un momento Dante si fa prendere dal panico, perché crede di essere stato abbandonato da Virgilio, non vedendo accanto alla propria ombra proiettata al suolo, come si aspetterebbe, quella del suo maestro. Questi spiega che le anime non fanno ombra, perché sarebbe come se due raggi solari si oscurassero a vicenda. Tuttavia le anime patiscono dolori fisici. Come ciò sia possibile, Dio «non vuol ch’a noi si sveli. / Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone.» La rivelazione è che la natura dell’anima è intimamente connessa con la natura divina, incomprensibile tramite ragione.
Se tenta di penetrare i misteri ultimi senza l’apporto del cuore, ovvero dell’amore umano, frutto del «primo amore» divino che è lo Spirito Santo, l’intelligenza devolve nella follia. Al povero Bertram, e a quanti come lui separarono per calcolo ciò che doveva restare uno, è per sempre preclusa la cognizione stessa di Dio.
Il canto, integrale
Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l’auttore vide punire coloro che commisero scandali, e’ seminatori di scisma e discordia e d’ogne altro male operare.
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’ hanno a tanto comprender poco seno.
S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?”.
“Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena”,
rispuose ’l mio maestro, “a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’è ver così com’io ti parlo”.
Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,
e disse: “O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco”.
E io a lui: “Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara”.
Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: “Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse”.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,
gridò: “Ricordera’ ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, ’Capo ha cosa fatta’,
che fu mal seme per la gente tosca”.
E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso”.
ll Canto XXIX dell’Inferno sarà commentato da Claudia Durastanti
Inferno:
– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),
– Canto II (commentato da Michela Murgia)
– Canto III (commentato da Loredana Lipperini)
– Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)
– Canto V (commentato da Paola Barbato)
– Canto VI (commentato da Vanni Santoni)
– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)
– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)
– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)
– Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)
– Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)
– Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)
– Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)
– Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)
– Canto XV (Commentato da Edoardo Rialti)
– Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)
– Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)
– Canto XVIII (Commentato da Chiara Tagliaferri)
– Canto XIX (Commentato da Cristina Simonelli)
– Canto XX (Commentato da Francesca Matteoni)
– Canto XXI (Commentato da Licia Troisi)
– Canto XXII (Commentato da Federico Grazzini)
– Canto XXIII (Commentato da Emanuele Rimoli)
– Canto XXIV (Commentato da Alessandro Raveggi)
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