Il Commento Collettivo: Un abisso di possibilità. Commento psichedelico a Inferno XXV.

Per il nostro progetto di commento collettivo alla commedia dantesca, ormai ribattezzato nella forma abbreviata “CCC”, pubblichiamo il venticinquesimo canto dell’inferno dantesco, commentato da Federico Di Vita.


IN COPERTINA, E NEL TESTO, un’opera di William Blake

di Federico Di Vita


Con il contributo di  


È un sabato mattina di fine maggio, devo scrivere il commento al Venticinquesimo canto della Divina Commedia, come d’accordo mia moglie Ilaria mi lascia solo in casa, ho bisogno del massimo della concentrazione perché voglio provare a farlo in acido. Appena Edoardo Rialti ha saputo della mia idea mi ha assegnato un canto dell’Inferno a suo dire ricco di immagini evocative, per me è perfetto perché non ne ricordo nemmeno un verso. Da quando mi ha affidato questo canto per il commento o, per usare le sue parole, per scriverne una reazione, non ho aperto la Divina Commedia. Voglio riscoprirlo oggi e registrare le mie reazioni in questo stato di alterazione, in più voglio mettere alla prova la mia memoria, che temo abbia perso colpi da quando hanno ammazzato mia sorella.
Da anni – da allora – mi sembra di non ricordare cose che dovrei sapere, parti di libri che ho letto, collegamenti che dovrebbero venirmi automatici quando scrivo qualche articolo di critica tematica, riferimenti che invece fatico a ricostruire. C’è stato un tempo in cui la Divina Commedia, mi dico da qualche mese, potrei addirittura averla saputa tutta a memoria. È possibile? Quando la vedo completamente dispiegata in dei poster ingialliti appesi alle pareti di qualche ristorante di Firenze penso che in fondo non è così lunga e che sì, avrei potuto davvero saperla tutta. Al Liceo mandavo a memoria lunghi brani di Ariosto e, appunto, di Dante. Ma ora la memoria non la esercito più, magari non ho mai potuto recitarla integralmente ma chissà, avrei potuto conoscere tutto l’Inferno. Del Canto XXV non ricordo nulla, l’ho mai saputo dunque? Quanto è stato inghiottito nel gorgo in cui ho sprofondato i ricordi di mia sorella, cui non penso per non soffrire? Anche di lei mi pare di non ricordare nulla, anzi non ricordo nulla e non ricordo nulla perché non ci penso mai. Sono rigorosissimo nel processo di rimozione, mi è stato indispensabile per vivere per lungo tempo, soprattutto nei primi anni. Non guardo mai nel gorgo, con applicazione da asceta. Non parlo mai di mia sorella, con nessuno. Nemmeno con la mia famiglia, nemmeno con Ilaria. L’esercizio di rimozione ha raggiunto ben presto la perfezione di un automatismo, i miei percorsi mentali si sono riorganizzati per aggirare il vuoto, ma la memoria è fatta di contatti molecolari sottili e imprevedibili, non è uno schedario, le informazioni si innestano una nell’altra per motivi che vanno al di là di quello che ci sembra l’argomento, gli accostamenti possono essere emotivi, sensoriali, legati al tempo della vita in cui si fanno certe esperienze – e tutta la lettura della Divina Commedia risale all’epoca in cui andavo a scuola e all’Università, quando cioè mia sorella era ancora viva – e mi chiedo dunque le conseguenze che posso aver subito a fronte della necessità di eluderne una porzione tanto grande: cos’altro ho sprofondato nell’abisso?

Gli psichedelici mi aiutano da anni a tenere in esercizio il resto del cervello, lo rendono malleabile, mi fanno percorrere sentieri inusitati, mettono in relazione aree della mente lontane, provo stupore, gratitudine, grazia; mi imbatto in rivelazioni illuminanti o in altre completamente assurde, vere e proprie apofenie: tentando percorsi non battuti si finisce in vicoli ciechi, i giorni successivi alle assunzioni li uso per rielaborare. Dopo lo shock panico della dissoluzione dell’ego, che raggiungo spesso, preferendo dosaggi alti, l’onda lunga degli psichedelici mi rasserena, oliando ogni meccanismo della mia anima. Queste sostanze mi hanno curato con efficacia cui non smetterò mai di essere grato la sindrome da stress post-traumatico, permettendomi una funzionalità insperata in una situazione di esteso collasso psichico. Mi consentono di giudicare con più equità e precisione le varie implicazioni di situazioni contingenti in cui mi trovo, mi spingono in avanti nella definizione di me e nelle scelte da fare, mi mettono di fronte a problemi che magari preferirei rimandare – ma anche con la pervasività dei loro molteplici effetti sono sempre riuscito a tenermi a distanza dal ricordo diretto di mia sorella, a volte emerge qualche vocalizzazione cieca, ne pronuncio il nome – Chiara – che fugge come un ectoplasma ultravioletto dal profondo di un buco nero, ma proprio come succede in quel caso la materia di scarto che elude la gravità è priva di luce, vale a dire di attributi visivi, scarica di immagini. Se mi succede di ripescare qualcosa dal vortice oscuro spero che accada per qualche imprevista triangolazione sinestetica, e anche se so che l’influsso degli psichedelici, interagendo coi processi psicologici, può lavorare anche sul piano della memoria, finora ho evitato di esercitarli in questo senso: oggi voglio farlo leggendo il Canto XXV.

L’idea iniziale era prendermi tre cartoni, circa 300 microgrammi di LSD, e costringermi 8 ore in casa con l’unica missione di leggere il canto. Parliamoci chiaro, 300μg sono una quantità sconsiderata per provare a leggere, ma volevo provocarmi a fondo, sfidare a viso aperto la mia stessa capacità di ricordare. Anche per stare in casa sarebbero tanti a dire il vero, è una quantità cui si arriva per gradi, e pur avendo una certa confidenza assumerli sarebbe stata, in questo contesto, una piccola impresa. In ogni caso non ce li ho tre cartoni, ne ho uno e due grammi di funghi psylocibe cubensis, due grammi di funghi contenenti psilocibina sono una dose singola, così come lo è il blotter di LSD che mi rimane. A (relativa) parità di dosaggio l’effetto dei funghi è più visionario e più breve, quello dell’LSD più profondo e duraturo; l’interazione tra le sostanze (con l’aggiunta di MDMA ma qui uno stimolante entactogeno sarebbe risultato fuori luogo) è nota tra gli psiconauti come “Jedi flip”. In queste cose ha sempre una certa parte il destino e così è oggi, i piani cambiano e una volta uscita Ilaria mi metto il rettangolino di carta sotto la lingua e dopo averlo inghiottito comincio a mangiare i funghi secchi, aiutandomi con molliche di pane e un bicchiere d’acqua. Da mangiare due grammi di funghi secchi non sono pochissimi, ci vuole un po’, e non sono buoni, profumano di sterpi polverosi e di terra ammuffita.

Ingoiato l’ultimo boccone guardo l’orologio, sono circa le 12:00, mi dico che posso uscire, arrivare a Piazza Santo Spirito per comprare i sigari e tornare, finita la passeggiata dovrebbe cominciare l’effetto e, quando sarà pieno, la lettura. Vivo a Firenze, dalle parti di Porta San Frediano, esco di casa e non appena arrivo a Piazza del Carmine, più o meno a metà del percorso, le macchie delle lastre di pietra serena dell’impiantito stradale cominciano ad allargarsi e a pulsare, sarò uscito da appena sette o otto minuti. I funghi a volte hanno un effetto rapidissimo, in più sono a stomaco vuoto. Sento alcune lievi folate di vento spostarmi verso destra, l’impatto della digestione dei miceti ha sempre un portato marcatamente fisico nella prima parte dell’esperienza. La strada davanti a me ora appare lunghissima, distesa in una prospettiva profonda e inconsueta. Decido comunque di percorrerla, ho tutto il giorno davanti. Le facce delle persone hanno colori saturi, i vecchi sembrano più vecchi, il tabaccaio che mi porge i sigari ha un’espressione felina, gli chiedo quanto costano e mi guarda strano – li compro sempre – quattro euro mi dice, gli rispondo di essere sovrappensiero. Tornato a casa penso che ci siamo, vado in cortile il tempo di finire il sigaro, la sdraio su cui mi siedo, cadente da tempo, si sfonda. In quel momento rientra Ilaria, è ora di pranzo. Mi rimprovera per aver fumato in casa, cosa non vera e che in questo contesto ricettivo mi irrita; quindi mi dice di alzarmi, ero rimasto un po’ lì a fissare l’effetto della primavera dal basso sulle mie piante gonfie ed esuberanti. Lei mangia qualcosa, io mi metto a letto, dopo un po’ mi raggiunge, mi sdraio accanto a lei, che ora appare in colori pastello, sembra un cartone animato disegnato con le matite di cera. Affondo di nuovo la testa nel cuscino, mi chiede se mi può raccontare un sogno. Nel cuscino vedo un gorgheggio di mandelbrot rotondeggianti, si inseguono in strutture tubolari sprofondando verso l’infinito, mentre roteano vorticosamente in direzione dell’orizzonte degli eventi mi godo l’occasione di poterli osservare senza affondare insieme a loro nel mistero di un k-hole. Quando Ilaria parla la sua voce interferisce con la visione, aggiungendo linee gialle e celesti.
… e poteva cambiare a piacimento il colore dei suoi occhi, uno era azzurro…
Oltre quel limite, nel tesseratto ketaminico, le pulsioni di intensità diverrebbero la nuova chiave di volta di interpretazione del reale, l’esistenza dell’universo sarebbe scandita da differenti consistenze e rapporti di forza geometrica infinitamente significativi.
… una parte della mia famiglia vive in una casa sott’acqua …
Lo spazio tra le forme sarebbe animato dalle presenze ancestrali e care degli amici con cui visito questi spazi, nodi di una rete cosmica pronti a interagire e fondersi tra loro, miscelandosi anche con me ma senza disperdere la loro identità in quella stanza di idee allo stato primordiale. Lì trovo sempre, chiusa come in uno scrigno, la costante eterna dell’amore tra me e Ilaria, un impulso vitale e purissimo, se io fossi un pianeta ricco, carico di lune abitate e impreziosito di anelli lei sarebbe la stella che mi impedirebbe di perdermi nell’ignoto, glaciale buio cosmico. Qualunque cosa ci riservi il futuro la purezza dell’amore che ha avuto per me non svanirebbe, eterna come un arcano di cui lì posso contemplare la stilla primordiale. Ora parlando continua a mescolare le traiettorie delle linee che ammiro da questa sorta di osservatorio orbitale.
… volevano rubarmi una parte dell’eredità…
Sollevo la testa dal cuscino. Mi chiede che ne penso, le dico che non ho capito niente, mi metto a ridere.
Pensavo di poter fare due cose insieme e invece non ci riesco.
Non fa niente, l’importante è che tu mi abbia ascoltata.
… a un certo punto eri sott’acqua?
C’era una casa sott’acqua, di un ramo della mia famiglia, lì sotto potevo respirare anche io.
Aspetta, quindi una parte della tua famiglia era fatta di pesci?
Be’, non è che fossero pesci, potevano respirare sott’acqua, e potevo anche io quando andavo lì.
È implicato il tema della metamorfosi, io non sogno mai niente del genere.
E quindi, continuo, loro saranno stati più avanti di te in questa mutazione, per cui secondo me possiamo dire che erano pesci.
Conviene che forse possiamo ritenerli pesci.
A volte sogno anche di diventare un uccello, dice. Alla fine del sogno litiga con questi pesci per questioni di eredità, le devono una borsa. Immaginarla che litiga con dei pesci per una borsa mi fa contorcere dalle risate. È ancora dipinta con colori pastello, ridacchia anche lei.
Sarà difficile.
Che cosa?
Leggere in queste condizioni, forse ho esagerato.
Chi l’avrebbe mai detto…
È la missione di oggi, devo farcela per forza.
E io devo andare via?
Sì, è meglio che vai via, è impossibile sennò.
Ma non avrai voglia di uscire?
La primavera è bellissima, certo che ho voglia di uscire, ma uscirò solo quando avrò finito.
Io vado al Bistrot Santa Rosa.
Le dico che quando avrò finito passerò di là. Sono solo a casa, mi chiedo cosa mi serva. Be’, mi serve la Divina Commedia. Il libro è in uno scaffale a giorno, dalla parte orientata verso la portafinestra, insieme a tutti quelli di poesia. Anche se la libreria è protetta da una tenda mi rendo conto che l’esposizione alla luce, durata anni, ne ha sbiadito la tela verde con cui lo feci rilegare più di vent’anni fa. È il testo su cui studiava mio padre. Sulla costa c’è un rettangolo di pelle verde scuro su cui in caratteri d’oro c’è scritto solamente “La Divina Commedia”: per me è un libro preziosissimo. Torno a letto, mi sdraio e apro il volume.

Mentre vado a raggiungere il canto assegnatomi da Edoardo, vengo colpito dallo splendore delle pagine. Sembrano d’alabastro, o di pergamena antica, ingiallite in modo disomogeneo sprigionano la loro fortissima aura, la quale si manifesta in un lucore che avvolge tutto il volume. Piccolissime scintille multicolore danzano sul bordo della carta, pronta a minuscole esplosioni di luce cangiante lungo tutte le sue più minute concrezioni d’inchiostro. Le lettere a volte emergono con più forza, vibrando il loro messaggio antico, pronto alla rivelazione telepatica lanciata dal Poeta sette secoli fa. Le sfoglio rapito dall’incanto, raggiunta la pagina dove comincia il CANTO VENTESIMOQUINTO vengo inchiodato dalla perentorietà del titolo. Eccomi all’inizio della mia missione, ogni lettera scritta in stampatello freme, impercettibilmente bordata di una fiamma ancestrale. Ne osservo la maestà tipografica, il potere immortale dell’alfabeto latino mi porta al suo primo modello archetipico, la Colonna di Traiano, l’esempio primario cui tendono o da cui distanziano le loro forme tutti i font esistenti.

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”.

Sono frastornato. Chi parla? Prima di avventurarmi nelle note mi è già chiaro che la mia memoria non è mai stata impressa con questi versi, non si attiva nessuno dei meccanismi che sarebbero consueti se fosse accaduto: niente frammenti di suono, nessun personaggio che torna alla mente, non c’è flashback in grado di accendersi. Non c’è mai stato un tempo in cui potei recitare a memoria tutta la Divina Commedia, da quando ordisco questo vano e segreto inganno che, non avendolo mai detto a nessuno, compio solo ai miei danni? Di più, come detto l’unico momento in cui mi esercitavo in simili imprese era al tempo del liceo, e ora – ecco un ricordo – mi sovviene che verso la fine del terzo anno saltammo questo canto, passando direttamente dal XXIV al XXVI: non c’era tempo per completare il programma. Molto probabilmente l’avrò letto all’Università, quando per un esame lessi tutto il poema, di nuovo però mi è chiaro che di questo brano non ricordo nulla. Mi tuffo nelle note, la bestemmia è di Vanni Fucci, un ladro pistoiese che prosegue la sua invettiva dal canto precedente. Bestemmia nominando Dio e facendogli un gestaccio, le “fiche” – col pollice inserito tra indice e medio – nella Toscana del Trecento erano una specie di gesto dell’ombrello. Le note mi pongono in balia di una tempesta, affrontarle mi causa mal di mare, la potenza delle lettere impresse in nota inoltre è inferiore a quella emanata dal testo e rischia di portare troppo lontano le mie libere associazioni, devo tornare ai versi e vedermela con loro, è l’unico modo per arrivare in fondo. La terzina successiva

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ’Non vo’ che più diche’;

mette in chiaro il livello di difficoltà della prova in cui mi sono cacciato. Le forme tipografiche si contorcono come rami spogli di una rosa carica di spine, serpeggiano lignei e tremolanti, in qualche modo riproducendo nella visione il senso profondo di ciò che stanno lì a significare, ma decifrarli sul piano verbale mi richiede minuti di concentrazione. Poco dopo mi distrae un’invettiva contro Pistoia. La città dovrebbe preferire incenerirsi anziché continuare a diffondere per il mondo il suo immondo seme, dice Dante, ma la mia mente corre nelle campagne a nord dell’abitato, verso gli Appennini, dove da qualche tempo pensiamo di trasferirci. Non riesco a non passare in rassegna i rustici lambiti dal bosco che abbiamo visto sui siti delle agenzie immobiliari, sulla porta di uno di questi, settecentesco, c’è un’effige con una chiave e un monte. Ma quella casa forse è troppo lontana, forse troppo cadente – anche se con tutti gli incentivi messi a punto questa primavera è davvero il momento ideale per ristrutturare…
Fatico a tornare al testo, che in pochi versi mi mette di fronte il centauro Caco – un’entità in grado di suggerirmi qualcosa… Massacrato da Ercole per avergli rubato degli armenti, che però a sua volta lo stesso Ercole aveva sottratto a … – o mi confondo? Le sue forme inaudite, è coperto di serpenti e sormontato da ali di drago, suggeriscono qualcosa alle mie sinapsi. Eppure, penso di non aver ancora trovato il centro di questo canto… qualcosa mi sfugge, mi sforzo al massimo nell’interpretazione di un testo che continua a pulsare in ogni sua più minuta manifestazione. Respiro. Pronuncio come in transe i nomi dei miei familiari, a volte mi capita di farlo in pubblico e ne provo vergogna. La mia fronte ormai è imperlata di sudore, sento freddo, mi copro con una coperta e quando ricomincio Dante fa un gesto a Virgilio e insieme a me:

acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.

Non sono nella posizione migliore per non dar retta a qualcuno che mi parli di visioni, quindi Dante, ti credo, e ancor di più credo al tuo esitare, rivelatore del giusto timore che si incontra quando si tenta un resoconto verbale di questo tipo. Una riluttanza tanto più significativa se pronunciata dall’autore dell’opera letteraria più visionaria di sempre. Certo, Dante gioca con l’incredulità del lettore e il suo appello è utile anche a sottolineare un passaggio che ritiene arduo e altamente significativo; sia di per sé, che nei confronti della tradizione letteraria con cui si confronta. Non va dimenticato però che le parole del Poeta sono come sempre piene e cariche di senso, per cui oltre all’ammicco c’è da tener conto della prima epidermide significativa, che qui vedo vibrare tra rivoli d’inchiostro che serpeggiano verso un abisso di possibilità, e che dichiarano chiaro e tondo la meraviglia e l’incredulità che il resoconto di una visione è in grado di dischiudere, anche dal fondo dell’opera più visionaria. Il tema dell’indicibilità della visione mi sorprende in questo punto del poema ma è un suo tratto caratteristico, con cui ci troviamo a misurarci costantemente nella più abbacinante delle cantiche, il Paradiso. Lì, tra lumi eterni, occhi tanto chiari, acume del vivo raggio e neve che al sol si disigilla, ci troviamo a contemplare, in uno spazio fatto di diverse intensità di luce, sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme in quel che legato per amore in un volume, per l’universo si squaderna. Ed ecco fioccare apostrofi di schietta indicibilità – Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto!; a l’alta fantasia qui mancò possa; ciò ch’i dico è un semplice lume – che qui troviamo anticipati in modo inatteso e in parte ribaltato. Quello che sillabo è tra i canti che ancora ricordo, non riesco a non recitarne qualche verso

da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.

E quando con fatica dalle travi sul soffitto in cui cerco gli antichi versi torno al mio canto, il VENTESIMOQUINTO, eccomi di nuovo al cospetto della sfida costituita dal racconto della visione. Che qui è materica, mostruosa addirittura, ferina ma non meno mutevole, fuggente e inusitata; e questo canto, di cui ormai sono quasi a metà, è intessuto di descrizioni abominevoli, circonfuse di fumi che svelano lo spettacolo di tremende metamorfosi infernali. Un serpente entra nell’ombelico di un dannato per avviarne la trasmutazione, un ramarro si avvinghia a un altro più di quanto un’edera abbia mai fatto con un albero, la bestia quindi sdoppia e fonde le sue zampe con le braccia del malnato, mentre l’aspetto dei due spettri si sintetizza in una forma nuova e raccapricciante. Mi asciugo il sudore dalla fronte, sono spossato mentre di mutazione in mutazione Dante arriva finalmente a lanciare una aperta sfida che solca secoli e letterature: Taccia Lucano – e attenda a udir quel ch’or si scocca. / Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio… il Poeta affronta la metamorfosi e pretende di vincere i suoi predecessori, non solo per la sacra missione implicita nel suo tentativo – un’osservazione che ho sempre trovato un po’ troppo astuta, quando usata per misurarsi sul metro della poesia – ma anche perché le metamorfosi qui descritte sono duplici e orribilmente parallele:

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.

Sigillando la contesa il Poeta piazza finalmente una zampata memorabile – il canto altrimenti forse non lo sarebbe – quando descrivendo una mutazione la imprime nella memoria con una felicissima similitudine di quelle che non a caso si dicono dantesche; lo fa descrivendo la trasformazione della testa di un dannato che, diventando serpente, ritira le orecchie nella dura scorza rettile come face le corna la lumaccia.

Sono circa le 15:00, chiudo il libro stravolto. Barcollo fino al bagno, mi spoglio lentamente e faccio una doccia che sembra lunghissima. Da quando ho appoggiato la Divina Commedia sul letto non ho più distorsioni visive, sento la pienezza della realtà, i singoli spruzzi del getto che mi battono sulla testa, le gocce che mi scivolano addosso, la palpabilità della mia vuota stanchezza, l’evanescenza di un impossibile ricordo. Mi asciugo e mi rivesto, evito lo specchio, è una bellissima giornata, raggiungo Ilaria al bistrot, la trovo seduta su una sdraio da mare, legge qualcosa al cellulare, mi accuccio vicino a lei.
Hai finito?
Ce l’ho fatta.
Dove posso andare?
I petali delle rose canine sono nitidi, sembrano di seta, la luce sopra di noi, filtrata da un’alta acacia, disegna chiazze d’ombra tra gli steccati piantati per terra.
Vuoi andare in un giardino?, mi chiede vedendo che fisso le piante. Puoi andare a Villa Strozzi.
Mentre penso a come andarci, abitiamo qui vicino da ormai otto anni ma sento il bisogno di chiederglielo, mi viene in mente che in fondo non sarebbe tanto più lontano Boboli.
Qual è l’ingresso più vicino per Boboli?
Quello a via Romana.
L’idea di andare a Boboli mi affascina, per via dell’epidemia anche se è sabato non ci saranno turisti. Le chiedo se vuole venire con me, ci pensa un po’ ma declina, mi incammino. Le strade che devo percorrere mi appaiono ancora una volta lunghissime. Sono estenuato dal camminare, mi fanno male i piedi, non ho più visioni, l’effetto dei funghi sembra del tutto svanito mentre quello dell’LSD, al momento, non è manifesto. Lo sforzo della lettura sotto l’influsso di psichedelici mi ha prostrato, ho 37 anni e sono un buon camminatore, nelle gite in campagna o nelle serate dei festival il contapassi dell’iPhone è arrivato a testimoniare un mio girovagare di oltre 20 chilometri. Sono solito camminare lungamente in questo stato, inseguo i miei pensieri, irrequieto o alla ricerca di un ritmo tra le pause estatiche, ma oggi mi sembra di non farcela. In via Romana mi fermo di fronte a un bassorilievo sbreccato sotto il tempietto d’angolo del Giardino Corsi, due figure si cercano, una tiene in mano un’arpa mentre un’altra le porge una corona d’alloro, ma la statua di stucco è rovinata e di cattiva fattura. Cammino ancora un po’ e tiro un sospiro di sollievo all’ombra dei due leoni stanchi appollaiati sopra gli stipiti del portale di accesso al parco. All’ingresso un usciere mi punta una pistola laser sulla fronte per misurarmi la temperatura, è la prima volta che mi capita, poi mi controlla i documenti e mi lascia passare. Voglio solo sdraiarmi su un prato ma mi rendo conto di aver scelto l’ingresso sbagliato, non ero mai entrato da qui e non avevo considerato che c’è ancora una lunga salita a separarmi dalla prima delle distese erbose. Passo accanto a una grande limonaia, non la riconosco, sono spaesato e immerso in una luce agostana. Mentre percorro lentamente la strada bianca che conduce al giardino penso che l’ultima volta che ho visto mia sorella l’avevo invitata a venire a Firenze, dove non è mai stata. Questo ricordo non l’ho mai cancellato. Non saprei dire neppure il giorno esatto in cui è morta. Dopo il funerale sono tornato solo una volta sulla sua tomba, a Maccarese, vicino Roma, in un cimitero spartano non lontano dal mare. Era chiuso, sono rimasto fuori dal muro in blocchi di tufo, tra i cipressi, arrabbiato con lei per essersi fatta uccidere da un mentecatto, nell’abisso di dolore ha sempre trovato posto anche questa rabbia inconcepibile. Allontano questo pensiero, incrocio qualcuno e meccanicamente mi tiro sul naso la mascherina, ho caldo e respiro male, passati questi due me la levo e la infilo in tasca. Giunto nella cavea dell’Anfiteatro, alle spalle di Palazzo Pitti, davanti a me si apre in diagonale uno splendido panorama del cuore della città, da qui pare di poter tenere il Duomo in una mano. Il piano di calpestio dell’Anfiteatro è un prato, mi guardo intorno e non vedo nessuno camminarci sopra ma siamo in pochi, c’è un giardiniere e un pugno di turisti che si incamminano verso altre zone del giardino all’italiana. Mi chiedo se posso sdraiarmi qui.
… è un problema se mi stendo sul prato?
Sei a Boboli?
Sì.
Certo che puoi sdraiarti. Mi dice Ilaria al telefono.
Insisto. Non è che mi fanno una multa?
Mi guardo intorno e non vedo forze dell’ordine, non vedo neanche un guardiano a dirla tutta.
Non penso proprio, al massimo verrà qualcuno a dirti di alzarti.
Mi decido e raggiunto il punto più panoramico finalmente mi metto giù.
L’aria è nitida e l’erba rinfrescante. Non passa però troppo tempo prima che, molto lentamente, un uomo mi si avvicini – da lontano non sembra neppure diretto verso di me – per dirmi gentilmente di alzarmi. Proseguo verso le rampe che portano alla parte superiore del parco, giro a sinistra in un sentiero stretto e protetto dagli alberi. Mi viene in mente che anche Dante, scendendo tra i cerchi infernali, volta sempre a sinistra – la differenza è che io sto ancora salendo. Nel punto in cui sono questi viottoli frondosi sembrano il tracciato di un labirinto, raggiungo quello più esterno e salgo ancora. Dopo un po’ alla mia sinistra c’è una fitta siepe di bossi, sopra di quella la costa di un colle e degli alberi. Sotto, a destra, un avvallamento sul fondo del quale la luce danza sulla fontana del Nettuno. Guardo attentamente la situazione, in questo momento qui sono solo. Penso di potermi sdraiare, invisibile, subito oltre la siepe. Lo faccio, mi tolgo le scarpe, uso la giacca di pelle come cuscino, sopra di me c’è il cielo e le fronde di un leccio mosse dal vento. Una coppia passa nel viottolo, parlano tra loro, sto immobile come un rettile per capire dalle pause dei loro discorsi se mi vedono, se con un minimo cenno mostrano di percepire la mia presenza. Procedono oltre senza dare alcun segno del genere. Sono invisibile, sdraiato oltre una siepe, solo, a piedi scalzi, libero di riposare. Respiro e guardo il cielo. Le nuvole mostrano la finezza impalpabile e inesprimibile che sprigionano quando le guardo in acido, movimenti impercettibili diventano collassi di polvere di borotalco, volute di cirri, minuscoli vortici, corpi di ctenofori baluginanti pronti a sfaldarsi e ricomporsi, cinti di Venere, riccioli avvitati attorno a infiniti gradi di trasparenza. Ne ammiro lo spettacolo mentre nel resto del cielo si disegnano ghirlande ultraviolette, ulteriore trama impalpabile a incorniciare il tuffo nell’assoluto. Respiro ancora, riprendo forza, il mio sguardo scivola sulle chiome dell’albero sopra di me, ondeggiano con grazia rivelando uno spettacolo inatteso: ogni ciuffo sembra fatto di una sostanza diversa, come se la stessa pianta fosse innestata con innumerevoli essenze, che rispondono al richiamo della brezza dispiegando lievi ma nette caratteristiche distinte. D’improvviso una sembra una ciocca di capelli e mi trovo l’immagine di mia sorella che mi prende in giro perché la gatta sfugge alle mie grinfie correndo come un coniglio. Un momento dopo un altro ramo fiorisce col ricordo di lei in motorino, col casco rosa di Hello Kitty, davanti casa.
Ma chi gliela paga l’assicurazione a ’sto motorino?
So’ sei mesi che non la pago.
Ma nun ce poi annà in giro così.
Oh, nun je lo dì a papà.
L’immagine sfuma in quella di mia madre che entra nella casa di Via Luigi Rizzo, quella che sarà per sempre la mia casa in tutti i sogni, con Chiara appena nata, in fasce. Un’altra parte del leccio mi offre una interminabile partita a ping-pong alla Wii con mio nipote, che conduceva per 21 incontri a 0 e che al ventiduesimo riuscii a sconfiggere, e dicendo due stronzate a far rosicare infinitamente. Vedo lei cacciarmi dalla stanza perché lo agito troppo, è sempre stato irrequieto e lei – insegnante alla scuola materna – sapeva di cosa parlava. Respiro profondamente, travolto dall’esplosione dei ricordi, sono come le piante – mi dico – non mi prendo cura ogni giorno di tutte quelle che tengo in cortile? La vedo ancora una volta, mentre l’abbraccio dopo che ci è arrivata la notizia della morte di nostro nonno, morbida come Ilaria. Mi viene in mente un Natale, eccola scartare un portafoglio leopardato su fondo oro, che le ho regalato per prenderla per il culo.
Ma mi hai mai visto con roba leopardata? No, in effetti, ma come se… Su un’altra fronda è nella casa che i miei affittavano quando eravamo piccoli alla Giannella, a mangiarsi in cinque minuti il vaso di more che avevo passato un intero pomeriggio a raccogliere. Mi tocco il volto e sento che una lacrima mi ha rigato la guancia destra ma non sto piangendo, è successo da sé, come tutto questo. L’ho lasciato accadere. Mi alzo e mi ricompongo, mi rimetto le scarpe e il giubbotto, un gruppetto di visitatori che passava di qua mi vede con stupore. Scendo dalla spalletta, procedo verso la fontana del Nettuno. C’è un piccolissimo gruppo di turisti che sembrano ascoltare una guida, mi avvicino ma non troppo.
L’invaso venne creato nel Cinquecento ed era alimentato da due acquedotti, quello di San Leonardo e quello della Ginevra, che arrivavano in testa al giardino, dove c’erano due vasche di accumulo, questa, e otto-dieci metri più su quella delle trote, che è ancora in funzione ma oggi non è visibile, essendo sotto il Museo delle Porcellane…
Mi giro a guardare il panorama della città, che da qui si apre in un campo lunghissimo, anche se con un angolo meno felice di quello che si gode dall’Anfiteatro.
… il giardino è pieno di sorgenti, ancora oggi ce ne sono due attive, una nella Grotta della Madama, e una più in basso, sfruttata e canalizzata dal Seicento. Poi c’è la sorgente della Merlaia, su una proprietà esterna, e quella del Sauro, dietro l’Istituto d’arte, che alimenta parte delle fontane, andando poi a finire nell’invaso dell’isola. La vasca delle trote, oltre ad alimentare lo splendore di questa fontana…
Oh.
Eh.
Ma guardala ’mpo ’sta cosa.
Mi giro verso il Tritone.
Ma ce so’ mai stati a Fontana de Trevi?
Vabbè, ma lasciali parlà…
Però è bello, dai.
Me sa che sto Jedi flip faceva.
Ve’?
Oh, nu je lo dì a papà.

Il canto, integrale

Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr’ a’ fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia.

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”.

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ’Non vo’ che più diche’;

e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”.

Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.

Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece”.

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,

se non quando gridar: “Chi siete voi?”;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette,

dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?”;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.

Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more.

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: “Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno”.

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.

Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.

Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.

Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti.

Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,

l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;

ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.

L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle”.

Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.


ll Canto XXVI dell’Inferno sarà commentato da Tommaso Ragno

I commenti precedenti: Inferno:

– Canto I (commentato da Giovanni Boccaccio, George Steiner e Maria Zambrano),

– Canto II (commentato da Michela Murgia)

Canto III (commentato da Loredana Lipperini)

Canto IV (commentato da Ilaria Gaspari)

Canto V (commentato da Paola Barbato)

Canto VI (commentato da Vanni Santoni)

– Canto VII (Commentato da Guido Vitiello)

– Canto VIII (Commentato da Andrea Zandomeneghi)

– Canto IX (Commentato da Sara Mazzini)

Canto X (Commentato da Riccardo Bruscagli)

Canto XI (Commentato da Francesco D’Isa)

Canto XII (Commentato da Matteo Strukul)

Canto XIII (Commentato da Pietrangelo Buttafuoco)

Canto XIV (Commentato da Alberto Prunetti)

Canto XV  (Commentato da Edoardo Rialti)

Canto XVI (Commentato da Gabriele Merlini)

Canto XVII (Commentato da Francesco Ammannati)

Canto XVIII (Commentato da Chiara Tagliaferri)

Canto XIX (Commentato da Cristina Simonelli)

Canto XX (Commentato da Francesca Matteoni)

Canto XXI (Commentato da Licia Troisi)

Canto XXII (Commentato da Federico Grazzini)

Canto XXIII (Commentato da Emanuele Rimoli)

Canto XXIV (Commentato da Alessandro Raveggi)


Federico di Vita è nato a Roma e vive a Firenze. Ha curato la raccolta di racconti Clandestina (effequ, 2010), è autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (effequ 2011, poi Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; e, insieme a Ilaria Giannini, del libro “I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio” (Piano B, 2016).

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