Il Creative Coding come imperativo economico e come arte

Tutti i graphic designer dovrebbero saper programmare? E qual è il rapporto tra design, creatività e coding? 


IN COPERTINA e nel testo opere di jon rafman

Questo saggio è stato pubblicato in inglese nel libro Graphic Design in the Post-Digital Age (Eindhoven: Onomatopee), a cura di Demian Conrad, Rob van Leijsen and David Héritier. 


di Silvio Lorusso. Traduzione di Filippo Corsi

 

La programmazione gioca uno strano ruolo nel graphic design. Se da un lato le si riconosce la capacità di riconfigurare in profondità il nostro ambiente artificiale, dall’altro la sua adozione negli studi e nelle scuole di settore risulta quantomeno minoritaria. Inoltre gli stessi designer spesso non sono in grado di riconoscere le ‘virtù computazionali’ di un progetto, che si tratti di un workflow elegante o di un processo generativo particolarmente ingegnoso.

A fronte dell’esperienza accumulata in cinque anni d’insegnamento in Italia e nei Paesi Bassi, posso dire di essermi imbattuto in una cerchia ristretta di studenti appassionati di coding. Gli altri invece preferiscono addirittura esternalizzare la componente di programmazione dei loro progetti. Quello che spesso causa frustrazione e un disinteresse generalizzato è il fatto che il coding viene inquadrato unicamente attraverso il filtro dell’esecuzione di un’idea creativa. A ciò si aggiungono purtroppo alcuni preconcetti di genere per cui le donne si sentono respinte – e spesso lo sono – dagli ambienti STEM. A riprova di ciò, la maggior parte degli studenti che fin da subito si dichiarano poco inclini alla programmazione sono di sesso femminile.

Detto ciò, ho anche avuto il piacere di confrontarmi con molti progetti complessi a livello di coding realizzati da designer donne. A renderli particolari è il fatto che tali progetti non erano guidati dalla hybris prometeica che spesso la programmazione ispira, o da un orgoglioso sfoggio della potenza di questo strumento. Al contrario, si concentravano sugli aspetti socio-culturali del coding in quanto pratica che accomuna gli esseri umani con le macchine e tramite le macchine, un tema che approfondirò a breve.

La programmazione dovrebbe far parte della prassi di un designer? Da quando ho memoria questa domanda genera continuamente accese discussioni. In parole povere, il problema è questo: il designer deve saper programmare? Per alcuni celebri progettisti la risposta è senz’altro positiva. Uno di loro è John Maeda. La sua posizione sull’argomento non sorprende visto che stiamo parlando dell’autore di Design by Numbers, il linguaggio che ha anticipato il diffusissimo Processing. Maeda può essere considerato a tutti gli effetti un pioniere del design computazionale. Di che si tratta? Il design computazionale, secondo Maeda, fa uso del complesso apparato dei computer, coinvolgendo qualsiasi tipo di sensore o attuatore. Dal suo punto di vista, i designer computazionali non sostituiranno i designer dall’approccio più classico, ma semplicemente si cimenteranno in sfide differenti.

Esiste inoltre una posizione più terrena: sicuramente il coding rappresenta una competenza utile in quanto facilita il dialogo con i programmatori veri e propri, ma in pratica la vera palestra dei grafici, così come quella dei designer dell’interfaccia e dell’esperienza, è il wireframe, il mockup, il prototipo cliccabile prodotto in Illustrator o (brividi) Photoshop; e più recentemente in Figma, Sketch o Invision, con incursioni occasionali nel territorio CSS e SASS.

Non intendo offrire l’ennesima opinione sulla vexata quaestio, bensì allargare lo sguardo sui modelli mentali a cui ricorriamo quando si parla di programmazione. Spero quindi di riuscire a illustrare due paradigmi che si riconfigurano vicendevolmente. Li chiamerò Learn to Code e Code to Learn.

Un chiarimento, prima di cominciare: in questo saggio uso i termini ‘coding’, ‘programmazione’ e ‘hacking’ in modo intercambiabile visto che la loro differenza, anche sul piano gerarchico, è spesso opaca e artificiosa. Come spiegherò, si tratta di termini la cui carica ideologica si lega ai paradigmi appena menzionati.



Learn to Code

All’inizio del 2019 un gruppuscolo di utenti di 4chan e Twitter hanno deciso di perseguitare alcuni giornalisti recentemente licenziati da Buzzfeed e dall’Huffington Post, sostenendo che era giunto per loro il momento di “imparare a programmare”.

Il retroscena è che alcuni anni prima diverse testate statunitensi richiamarono l’attenzione su un’iniziativa mirata a riconvertire dei minatori di carbone in sovrannumero in programmatori. Diffidando della stampa liberale, gli utenti in questione diffusero sui social media il meme Learn to Code per evidenziare l’elitismo intrinseco dell’iniziativa e il suo doppiopesismo: va bene quando si chiede ai minatori di reinventarsi; va meno bene quando tocca invece ai giornalisti. Questi ultimi sono individui responsabili del proprio destino, mentre i primi sono una mera risorsa umana da collocare.

A dire il vero, già nel 2014 un quiz pubblicato nel 2014 su Buzzfeed metteva in discussione con una certa ironia l’imperativo del Learn to Code. Il format era semplice: al lettore veniva chiesto di identificarsi per scoprire se aveva bisogno di imparare a programmare o meno. Riflesso diretto dell’umorismo liberal á la Buzzfeed, le categorie includevano “femminista”, “Michael Bloomberg”, “senzatetto” e, naturalmente, “designer”. La risposta del quiz rispetto a quest’ultima categoria è che anche loro devono imparare a programmare… perché lo dice Fast Company. Il lato comico del quiz stava nel fatto che imparare a programmare toccava proprio a tutti, tranne forse a Barack Obama, all’epoca troppo impegnato a fare il presidente degli Stati Uniti (ma non troppo occupato per non dire agli studenti di programmare i loro smartphone invece di giocarci).

L’imperativo economico di formarsi e riqualificarsi non è mai stato così potente come nel 2021. Dopo il drammatico impatto della pandemia sulle finanze degli artisti e lavoratori della cultura, si è diffuso un certo scetticismo sul lavoro “creativo”, dipinto come un improduttivo sogno o occhi aperti e un settore del tutto inessenziale. L’enfasi si era spostata sul duro lavoro e sull’efficienza. Una pubblicità inglese in parte fraintesa rappresenta abbastanza bene questa nuovo buon senso. Qui vediamo l’immagine di una ballerina che si allaccia le scarpette, accompagnata dalla seguente headline: “Il prossimo lavoro di Fatima potrebbe essere nel cyber (ma lei ancora non lo sa).”

L’idea fondamentale del Learn to Code è che la capacità di programmare sia una necessità storica per tutte quelle persone che svolgono un lavoro considerato inutile o obsoleto, e che queste persone debbano soddisfare gli imperativi economici dettati dal capitalismo. Un servizio alla società chiamato “riqualificazione”. Nel 2019, durante un comizio Joe Biden, rivolgendosi a una folla di minatori in esubero, ha dichiarato accondiscendente che: “Chiunque sia in grado di lanciare carbone in una fornace può imparare a programmare, per l’amor di Dio!” Nessuno ha applaudito.

È utile a questo punto riconsiderare brevemente la distinzione tra coder e programmatori. Mentre i programmatori sono visti come professionisti dotati di un’esperienza riconosciuta e relativamente arcana con un conseguente stipendio elevato, quello del coder è sempre più percepito come un lavoro semi-qualificato. Il programmatore appartiene a una classe professionale, il coder alla forza-lavoro.

 



Tornando al design, la percezione generale dei grafici non si discosta così tanto da quella dei giornalisti. Entrambi sembrerebbero svolgere delle mansioni che sarebbe bene automatizzare una volta per tutte. Lavori destinati a essere convertiti in pulsanti.

In questo scenario, la programmazione si propone come una panacea professionale nell’ottica di una retorica dell’obsolescenza delle competenze e dell’occupabilità. La capacità di scrivere codice diventa una ‘skill’, ma nel senso più riduttivo del termine: un qualcosa da aggiungere al proprio CV, meglio se diviso in unità discrete. HTML e CSS: buono, JavaScript: di base. Il libro Graphic Design Surveyed mostra che gli studenti statunitensi e britannici considerano il coding come la terza skill più utile da acquisire (dopo il networking e la capacità di produrre idee).

Nel 2014, il teorico dei media tedesco Florian Cramer ha analizzato i vari significati del termine post-digital. Uno di questi era “il disincanto contemporaneo nei confronti dei sistemi di informazione digitali e dei gadget multimediali”. Il meme Learn to Code suggerisce che questo disincanto non ruota solo attorno agli strumenti del mestiere, ma anche attorno al mestiere stesso. Il coding, alla luce della riqualificazione, pare non essere una skill così emancipatoria.

Cramer offre un’altra lettura della corrente post-digital legata al revival dei media obsoleti. Forzando un po’ i termini, viene da chiedersi cosa ci sia di più obsoleto, di più novecentesco, dell’idea di una forza lavoro da forgiare per il bene della nazione? Naturalmente la narrazione Learn to Code ha una sua utilità in quanto allude al fatto che i mestieri, le competenze e le aspirazioni non esistono in un vuoto economico. Ciononostante, il disincanto nei confronti della programmazione e una logora retorica lavorista fanno riducono il coding a una manifestazione post-digitale del realismo capitalista, dato che costringe allo stesso modo grafici, giornalisti e minatori a vedersela per conto loro rispetto a uno stato di cose immutabile. Chiunque deve sostenere aggiornamenti obbligatori, al pari di un software. La programmazione stessa è immune da questa logica? Non proprio, visto che l’angelus novus dell’intelligenza artificiale promette o minaccia (a seconda del punto di vista) di automatizzare anche la figura del programmatore.


Code to Learn

Una volta Ted Nelson ha dichiarato: “Il computer è tanto disumano quanto noi lo rendiamo tale”. Il fatto che il coding sia un’attività cognitiva non la rende intrinsecamente umana. Può anche diventare un esercizio noioso e ripetitivo: industrializzato. È così che potrebbero apparire i lavori dei “new collar”, specialmente se tale forza lavoro fosse riqualificata secondo modalità coercitive. Che cos’è allora il coding al di là dell’imperativo economico, in fondo non così attraente, dell’”impara a programmare”? Che si tratti di scrivere HTML e CSS, pubblicare uno snippet di Javascript su Github Gist, modificare uno sketch di Processing o pubblicare una libreria Python, il coding non rappresenta necessariamente il contenuto di un processo di apprendimento, bensì il suo medium. Il coding può essere “artigianato” e cultura, o meglio un punto d’incontro culturale. Qui incontriamo una comunità di pratica.

 

Imparare con il computer

In un momento storico in cui si discute molto delle capacità creative di macchine autonome basate sull’intelligenza artificiale conviene riconsiderare la nozione di simbiosi uomo-computer di Licklider. Quando si programma, si istruisce il computer in modo che possa svolgere un’attività più o meno complessa, che viene quindi eseguita immediatamente. Non sempre è possibile sapere cosa aspettarsi: il risultato potrebbe stupire o deludere, riorientando o addirittura ridefinendo gli obiettivi iniziali. L’essere umano è così coinvolto egli stesso nel feedback loop. Parte di questa simbiosi è intrinsecamente legata al linguaggio condiviso da utente e macchina, ovvero il codice. La creatività si sviluppa attraverso questo processo di apprendimento micro-iterativo: non è possibile ricondurre l’atto creativo esclusivamente alla mente dell’utente o alla macchina, piuttosto è il frutto di un continuo dialogo strutturato tra il soggetto e le sue estensioni. Pur essendo solo una di quelle estensioni, il computer è tuttavia particolarmente potente dato che è ciò che Alan Kay chiama metamedium, cioè un medium capace di simulare tutti gli altri. In quanto tale, il computer dovrebbe essere poter essere modellato e trasformato. Nel momento in cui diventa meno malleabile, ovvero quando lo si fissa entro dei confini prestabiliti, si rende il computer forse più efficiente, ma anche meno sbalorditivo, in qualche modo meno “creativo”. Si fa di più ma si impara meno.

La creatività è in fondo una questione di tempo. La maggior parte della nostra attività quotidiana con i computer avviene attraverso software veloci (si spera), ma al contempo ‘rigidi’. Usiamo il computer in speedrun mode. Questo è il paradosso del creative coding: si programma per velocizzare certe operazioni (la parte coding), mentre l’inventiva richiede al contrario una certa lentezza (la parte creative). Secondo i principi del permacomputing, si potrebbe dire che il Learn to Code è molto yang, mentre il Code to Learn è in grado di apprezzare anche lo yin: “accetta gli aspetti che sono al di là del controllo e della comprensione razionali. La razionalità è supportata dall’intuizione. Il rapporto con il sistema prende a questo punto una piega bidirezionale, enfatizzando la sperimentazione e l’osservazione”.


Imparare attraverso i computer

Il coding non articola soltanto la relazione tra utente e computer, ma anche quelle instaurate tra diversi utenti mediante i computer, utenti che si scambiano tecniche dal vivo o su StackOverflow, che apprezzano le soluzioni reciproche, ed usano il codice come scusa per frequentarsi o per ampliare a vicenda i propri strumenti. L’input che dà il via a questo processo è la pazienza e la capacità di ascoltare; l’output è il divertimento e il senso di appartenenza.

Il coding può anche essere un filo che ci lega agli utenti che ci hanno preceduto. Lo vediamo nell’esercizio di Ted Davis che consiste nel ricreare opere pionieristiche di arte digitale con strumenti attuali, o con il progetto Re-programmed Art di Serena Cangiano e Davide Fornari, dove una serie di designer contemporanei ha reinterpretato le opere cinetiche ‘analogiche’ del Gruppo T, attivo durante anni 60.


Il coder artigiano

Mentre il Learn to Code fa del coding un’abilità pronta per il curriculum, il Code to Learn concepisce il coding come una pratica per così dire artigianale: un’arte, un craft in inglese. Ovviamente stiamo parlando di un’idea di artigianato ad ampio raggio. Essa consiste semplicemente “un buon lavoro ben fatto”, secondo la definizione di Richard Sennett. Un’arte è un savoir faire che, tra le altre cose, permette di consolidare la propria identità. In un’epoca in cui i designer sono spinti ad aggiornare ripetutamente la ‘bio’, infarcendola di etichette strategiche, un’arte può rappresentare un’àncora stabile, in quanto attività in cui le cose prodotte e gli strumenti per farlo sono un riflesso del produttore, che generalmente si identifica in essi. Ciò vale senz’altro anche per il coding. Come sostiene Roberto Arista, ideatore del corso Python for Designers:

programmare può diventare un modo per scavalcare [gli steccati imposti dai software di desktop publishing], mettere in comunicazione regioni differenti e ricostituire pazientemente il laboratorio […].

Il coder artigiano entra nel proprio laboratorio fisico o digitale (un hackerspace locale, una configurazione i3 personalizzata, un CMS fatto a mano) e si sente a casa. Qui è dove si programma e si impara, dove si impara e si programma. È qui che con un po’ di fortuna si possono dimenticare almeno per un po’ le pressioni della vita quotidiana.

Senza trascurare il continuo rimando del Learn to Code all’occupabilità e all’obsolescenza professionale, il Code to Learn ci spinge a considerare la programmazione in sé, e non solo in quanto destino inevitabile. Optare per un modello rispetto a un altro in una scuola di grafica significa anche decidere come insegnare la programmazione. Quando parlo di programmazione in sé non la intendo come un indice di nozioni tecniche (variabili, loop, ecc.). Questa è precisamente la riduzione strumentale tipica del Learn to Code. Il senso del Code to Learn è più ampio: il coding come attività sociale e come dominio culturale.


silvio Lorusso è assistant professor e vicedirettore del Center for Other Worlds presso l’Università Lusófona di Lisbona. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro intitolato Entreprecariat (Krisis).

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