Ciò che è carino sembra avere la caratteristica di farci sentire protetti e al sicuro. Secondo il filosofo Simon May, tuttavia, le cose che troviamo adorabili nascondono anche un altro, inquietante potere.
In copertina e nel testo
Questo testo è tratto da Carino! di Simon May. Ringraziamo LUISS University press per la gentile concessione.
di Simon May
Il Cute sta colonizzando il nostro mondo. Ma perché? E perché in modo tanto esplosivo proprio nella nostra epoca?
Potremmo pensare che il Cute sia talmente trito da non meritare la nostra attenzione e che quindi non costituisca un argomento degno di indagine. Oppure che sia talmente perverso, per la stereotipata vulnerabilità che impone ai suoi oggetti, forse anche con un certo compiacimento, da meritare poco più del nostro disprezzo. Pertanto sarebbe inutile, nel migliore dei casi, tentare di scavare in qualcosa di tanto superficiale come la figura della ragazza felina Hello Kitty; in Pikachu, il mostro dei Pokémon; in E.T., con il suo aspetto allampanato e raggrinzito; nelle bruttissime bambole Cabbage Patch Kids; e nella strana evoluzione di Topolino dopo la Seconda guerra mondiale. O forse siamo ormai talmente abituati al Cute che non ci accorgiamo di quanto sia onnipresente: per esempio nella proliferazione degli emoji, usati da persone pressoché di ogni età e formazione; oppure nell’abbondanza di brand dal suono “carino” come Google (e, se è per questo, Apple, il cui logo collega scherzosamente la libertà personale concessa dai suoi dispositivi al simbolo originario della ribellione: il morso al frutto proibito nel giardino dell’Eden). Tutto questo potrebbe spiegare perché è stato scritto così poco sul fenomeno e sul significato del Cute e sull’incessante successione di mode passeggere che gli danno voce. Siamo stranamente poco curiosi riguardo a questo argomento.
E se il Cute, però, parlasse di alcuni dei bisogni e delle sensibilità più potenti del mondo contemporaneo? E se, per adattare una frase di Nietzsche, fosse davvero superficiale, ma per profondità? E se il Cute non fosse soltanto qualcosa di impotente e innocente ma giocasse, si divertisse, ironizzasse sul valore che attribuiamo al potere e sui nostri assunti riguardo a chi detiene il potere e chi no? E se fosse ipnotico proprio perché non è (o non è considerato) semplicemente innocuo, innocente, dolce e quindi confortante in un mondo impersonale e pieno di pericoli, ma invece può anche – come succede con la voluta distorsione e bruttezza di tanti oggetti carini – esprimere qualcosa di più ricco e più vero, che allo stesso tempo viene esperito come poco chiaro, insicuro, perturbante, imperfetto, consapevole, ma in un registro giocoso? E se questa sovversione lievemente minacciosa dei confini e questa indeterminatezza troppo umana – tra il chiaro e l’oscuro, il sano e l’anormale, l’innocente e il consapevole –, quando compaiono nell’idioma leggero e derisorio del Cute, fossero il fulcro della sua immensa popolarità?
E se poi l’esplosione del Cute rispecchiasse uno dei grandi sviluppi della nostra epoca, almeno in Occidente, ovvero il culto del bambino? A mio parere infatti il bambino è il nuovo oggetto supremo d’amore, e sta con lenta gradualità prendendo il posto dell’amore romantico come archetipo dell’amore che bisogna avere, il tipo di amore senza il quale si pensa che la vita non sia vissuta a pieno o al massimo del suo rigoglio. E l’infanzia è il nuovo locus del sacro e quindi anche il luogo in cui, come società e come epoca, è più facile trovare la profanazione.
Come vedremo, c’è stata una straordinaria coincidenza tra l’ascesa del Cute, dalla metà del Diciannovesimo secolo, e l’aumento, all’incirca nello stesso periodo, del valore attribuito all’infanzia, ed entrambe le tendenze hanno subito un’accelerazione in tandem dopo la Seconda guerra mondiale. Questo, argomenterò, non significa affatto che la mania del Cute sia dovuta soltanto – e in realtà neppure principalmente – all’impulso a una regressione infantile, al desiderio di tornare a un mondo immaginario di sicurezza e semplicità, né che le motivazioni che ne sono alla base e i suoi obiettivi siano necessariamente infantili.
Anzi, dobbiamo chiederci se il Cute non rispecchi anche una perdita di fiducia nelle distinzioni nette tra infanzia ed età adulta. Infatti, l’esperienza infantile non è sempre più considerata determinante per tutte le emozioni, le scelte e le azioni fondamentali dell’età adulta? E, di contro, non è sempre più invalsa la convinzione che il mondo adulto contemporaneo – in particolare la sua intensa attenzione nei confronti dell’espressione di sé, dell’autenticità e della sessualità – pervada quello infantile?
La mia tesi, pertanto, è che gli oggetti cute non sono soltanto distrazioni infantili dalle ansie del mondo odierno, in cui competitività e cambiamenti dissennati sradicano da un giorno all’altro gli individui dal proprio posto di lavoro, dalla propria comunità e dalla propria identità. Non sono soltanto fonti di intimità sicura e affidabile in un’epoca che sembra precipitarsi verso un’esplosione di paure, rabbia, recriminazioni e ingiustizie storiche, troppe e troppo grandi da poterle affrontare o riparare tutte insieme. Non sono soltanto avatar di una commercialità priva di anima o modi per rifugiarsi in un’esistenza autoindulgente, vuota, senza impegno. Non sono soltanto modi di personalizzare gli oggetti di un mondo impersonale. E non sono necessariamente schermi su cui proiettare stereotipi di innocenza, soprattutto in riferimento alle giovani donne. Anche se, come vedremo, il Cute può essere, ed è stato, accusato da più parti di essere tutte queste cose, e anche se, al pari di molte altre sensibilità – nonché appetiti, virtù, estetiche, merci e divinità –, può essere usato in modo scorretto a fini inaccettabili e le sue motivazioni possono essere pervase da cinismo, desiderio di autogratificazione, ricerca di potere e violenza, nessuno di questi elementi ne è una caratteristica intrinseca.
Infatti il Cute, come proverò a mostrare, è soprattutto un’espressione giocosa della mancanza di chiarezza, dell’incertezza, dell’inquietudine, del flusso continuo o del “divenire” che sono al centro di tutta l’esistenza, vivente e no, nella nostra epoca. È tangibilmente effimero negli stili e negli oggetti in costante mutamento che lo esemplificano, del tutto passeggeri e privi di pretese di importanza a lungo termine. Se si spinge l’indeterminatezza oltre un punto di non ritorno, questa diventa minacciosa, fatto che il Cute riesce a rendere intrigante proprio grazie al suo stile superficiale, affascinante, tutt’altro che minaccioso, anzi, deliberatamente rilassato. L’intuizione che il Cute esprime è che la vita è priva di fondamenta solide, di un “essere” stabile che perduri nel tempo; che, come ha suggerito Heidegger, l’unico fondamento della vita è l’accettazione della sua assenza di fondamento.2 E spesso lo fa con l’“artificio e […] l’eccesso” che Susan Sontag ascrive al Camp, espressi in modo da “detronizzare la serietà” o da non riuscire a veicolarla.
Questa “impossibilità definitoria”, come potremmo chiamarla, caratteristica del Cute – l’erosione dei confini tra quelli che in precedenza erano considerati ambiti distinti o discontinui, come l’infanzia e l’età adulta –, si rispecchia anche nella confusione di genere di tanti oggetti carini che appaiono ermafroditi o indeterminati. (A quale genere appartiene E.T. o i Balloon Dog di Jeff Koons?) Trova inoltre realizzazione nella loro frequente fusione tra forme umane e non umane. E anche nella loro età, spesso indefinibile. Infatti, sebbene talvolta gli oggetti cute sembrino infantili, può essere davvero difficile capire, per esempio nel caso di E.T., se siano giovani o vecchi, e talvolta sembrano, in termini umani, sia giovani sia vecchi. (La pelle rugosa di E.T. è “simultaneamente quella di un neonato e di un anziano”.)
Con queste modalità, il Cute è in sintonia con un’epoca che non è più legata, come in passato, alla sacralità di dicotomie come maschile e femminile, sessuale e non sessuale, adulto e bambino, essere e divenire, passeggero ed eterno, e persino bene e male, dicotomie che un tempo hanno dato struttura a grandi ideali ma che oggi sono considerate meno rigide e più porose di quanto indichi il pensiero tradizionale.
Inoltre, la celebrazione dell’indeterminatezza caratteristica del Cute si rispecchia anche nella sua incompatibilità, in quanto sensibilità, con il culto moderno della sincerità e dell’autenticità, che affonda le sue radici nel Settecento e afferma che ciascuno di noi possiede un’individualità unica – o quanto meno una serie di convinzioni, sentimenti, pulsioni e gusti – che ci iden tifica e che siamo in grado di cogliere chiaramente riconoscendone la piena espressione. Come vedremo, lo spirito del Cute è molto distante da questa convinzione di poter riconoscere – e controllare – le nostre espressioni di sincerità e di autenticità e pertanto ancor più dall’idea che gli altri siano in grado di comprendere quando noi siamo sinceri e autentici.
E sebbene possa essere monopolizzato dalla brama di potere, il Cute esprime anche – e ne è forse l’aspetto essenziale – una volontà embrionale di ripudiare l’ordinamento delle relazioni umane basato sul potere o quanto meno di mettere in discussione i nostri assunti su chi detiene il potere e a quale scopo. Il Cute sa trasmettere vividamente questa volontà, proprio perché di solito comporta un rapporto con un oggetto vulnerabile o che ostenta vulnerabilità o flirta con la vulnerabilità. È una volontà di liberazione dal paradigma di potere che possiamo aspettarci da molte persone, soprattutto in Occidente e in Giappone, ma forse anche dai comuni cittadini cinesi, sotto forma di antidoto nei confronti di una brutalità senza eguali durata più di un secolo.
In poche parole: e se il Cute non fosse una frivola distrazione dallo Zeitgeist, ma piuttosto una sua potente espressione?
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Stiamo chiaramente parlando di un fenomeno in grande crescita, che ha già colonizzato ampi segmenti del mondo e dell’immaginario contemporaneo. L’asse del Cute vanta capitali in California e nell’area urbana di Tokyo, una presenza in rapida espansione in Cina (in particolare a Hong Kong) – che un giorno potrebbe soppiantare Giappone e Stati Uniti come motore globale del Cute – e avamposti disseminati nel resto dell’Asia Orientale, per esempio in Thailandia, a Singapore e a Taiwan, oltre che in vari Paesi europei. Pubblicità, prodotti di consumo, nomi e loghi di aziende – per non parlare dell’arte contemporanea – sfruttano il suo fascino originale, la sua innocenza consapevole, il suo inquietante gioco sulla giocosità, la sua autoironia, il suo apparente rifiuto sia della dura realtà sia dei grandi ideali. Un’infinità di prodotti, dai computer ai telefoni, dalle pistole al cibo, dai giocattoli per bambini ai calendari, dalle calze agli aeroplani, dai preservativi alle lenti a contatto, può ottenere e ha ottenuto un brand con un logo carino. Persino Lady Gaga ha deciso di posare per un servizio fotografico in sgargianti abiti da Hello Kitty.
I famosi “Balloon dog” di Jeff Koons esemplificano alla perfezione lo spirito del Cute e mostrano che può essere più oscuro, incerto e ambiguo di ciò che è meramente tenero.6 Balloon Dog (Red) sembra allo stesso tempo potente (è in acciaio inossidabile) e impotente (è privo di faccia, bocca e occhi; i suoi “palloncini” sono vuoti). La sua “innocenza” è malinconica; la sua innocuità attraente; il suo contegno vulnerabile è compensato dalle enormi dimensioni.
Grandi fenomeni globali come Bambi, i Pokémon, E.T., Hello Kitty e le bambole So Shy Sherri; artisti come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Jeff Koons, Mark Ryden e Brecht Evens; modalità cute di autopresentazione come gli emoji: tutti parlano con una forza peculiare alla nostra epoca e non solo ai giovani ma anche a schiere di fan adulti, uomini e donne, ingegneri, politici, consulenti finanziari, medici e celebrità mediatiche. Il fulcro dei consumatori di Hello Kitty sono le donne di età compresa tra diciotto e quarant’anni, che occupano l’intero spettro tra performance artist e musiciste punk, banchiere di Wall Street e pornostar;7 inoltre la gattabambina è presente nelle collezioni di alta moda da New York a Milano a Tokyo. Neonati, cuccioli e orsi polari cute sono oggetto delle moine di milioni di uomini e donne adulti su innumerevoli siti dedicati a tutto quello che è carino. A Washington D.C., un cucciolo di panda nato nello Smithsonian’s National Zoo è diventato subito una celebrità. Tutti e tredicimila i biglietti per vederlo sono andati esauriti nel giro di poche ore, mentre molti altri appassionati hanno aspettato il proprio turno a una temperatura polare. Poco dopo, un film sull’imperatore pinguino, cute da far spavento, è diventato uno dei documentari di maggior successo al botteghino della storia.8 A Berlino, un cucciolo di orso polare soprannominato “Cute Knut” ha attratto un seguito globale di decine se non centinaia di milioni di ammiratori dalla sera alla mattina, mentre all’inizio del 2011 Heidi, una femmina di opossum strabica con i grandi occhi bianchi e neri rivolti pudicamente verso il musino rosa a punta, è stata la notizia di apertura di tutti i mass media tedeschi, suscitando un livello d’interesse quasi pari alla storica Primavera araba che si stava svolgendo in Tunisia e in Egitto.
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Tuttavia queste riflessioni note sul Cute tendono a mancare il bersaglio, poiché ritengono che la sua essenza sia una vulnerabilità disarmata e facile da sfruttare. E gran parte di queste riflessioni, soprattutto in Occidente e in Giappone, ma molto meno nelle altre parti dell’Asia, prosegue lamentando un’infantilizzazione dello spettatore (oppure l’espressione di una sua volontà di essere infantilizzato, di regredire a una mitica esistenza fanciullesca di semplicità poco impegnativa, di sicurezza e protezione), nonché il potere del Cute di suscitare una miscela squallida di pietà e piacere, il suo invito furbo alla cura e al sadismo, la sua estetica sessualizzata, oltre alla sua subordinazione a un consumismo rampante (che contribuirebbe anche ad alimentare).
Questa è senza dubbio l’interpretazione dominante del Cute. Così Sianne Ngai, in un saggio seminale, lo considera un’“estetizzazione dell’impotenza”, una “reazione affettiva alla debolezza” imperniata “sul desiderio di una relazione sempre più intima e sensuale con oggetti considerati familiari e innocui”. Tali reazioni affettive nei confronti della debolezza possono diventare facilmente brutali o deformanti e questo è uno dei motivi per cui Ngai, al pari di altri, afferma che “nella nostra relazione con l’oggetto cute è sempre implicita la violenza”.
Christine Yano, nel suo libro che ripercorre la traversata di Hello Kitty dal Giappone agli Stati Uniti, definisce il Cute “innocente, giocoso, candido, attraente e facile da vendere” e cita altri che ne criticano il “falso conformismo da centro commerciale”. Gary Cross parla di “mirabile innocenza”.12 Natalie Angier, riportando le opinioni di Denis Dutton, filosofo dell’arte, lamenta che la “rapidità e la promiscuità della reazione nei confronti del Cute rendono l’impulso sospetto, subito annullato dalla rabbiosa sensazione di essere sfruttati o ingannati”. Sharon Kinsella scrive delle “ragazze carine in Giappone” e vede la pervasività del kawaii (grossomodo l’equivalente giapponese del Cute) come il riflesso di un “infantilismo di tendenza”. Daniel Harris, in un saggio molto citato, lo critica aspramente definendolo “un’antiquata religione dell’infantilismo” che domina gli atteggiamenti dei genitori nei confronti dei figli: un’“utopia portatile” di innocenza e candore e altri stati feticizzati che “vorremmo vedere nei bambini”, che vengono costretti “non solo a essere carini [in sé] ma a riconoscere e ad apprezzare la cuteness negli altri, a interpretare il doppio ruolo di attori e spettatori”. “Poiché estetizza l’infelicità, l’impotenza e la deformità,” osserva inoltre Harris “quasi sempre comporta un atto di sadismo da parte del suo creatore, che tenta inconsapevolmente di mutilare, storpiare e mettere in imbarazzo l’oggetto che vorrebbe idolatrare”.
Anzi, prosegue Harris, “la visione del mondo cute è caratterizzata da un immenso sciovinismo umano” che impone qualità umane a oggetti non umani. Pertanto i libri per bambini, per esempio, attribuiscono a “cani, gatti, orsi e maiali […] gli abiti e il comportamento degli esseri umani”. Il “narcisismo della cuteness” significa che “la visione cute del mondo naturale è di un mondo senza natura, un mondo che distrugge l’‘alterità’, sopprime spietatamente il non umano e non permette ad alcunché, neanche ai nostri figli, di essere separato e distinto da noi”. La cuteness, sostiene Harris, “è in fin dei conti disumanizzante, perché paralizza le sue vittime riducendole a oggetti in stato comatoso o semicosciente”.
È un bell’elenco di capi d’accusa. A parte l’articolo di fede, pressoché mai messo in discussione, per cui le relazioni umane, compresa quella tra un bambino e un orsacchiotto di peluche, devono essere considerate innanzitutto come relazioni di potere (lascito di una tradizione filosofica molto specifica proposta in epoca moderna da figure come Nietzsche e Foucault, a sua volta più che matura per una messa in discussione), magari anche i critici più severi del Cute potranno scorgervi dei meriti nella misura in cui coltiva l’istinto all’allevamento e all’altruismo?
In effetti, una scuola di pensiero, ispirata all’opera pionieristica di Konrad Lorenz, che prenderemo in esame nel capitolo 2, considera la cuteness una leva fondamentale proprio di questi istinti. Il critico culturale Joshua Paul Dale sostiene che “la cuteness è fondamentalmente un appello agli altri, un invito alla socialità” rispondendo al quale “ci si scopre già attratti nell’orbita di un altro amabile e intimo”. Gli psicologi sociali Gary Sherman e Jonathan Haidt si spingono addirittura a considerare la reazione alla cuteness un’“emozione morale” per antonomasia: un “liberatore diretto di socialità umana” che attira le entità cute nella nostra cerchia di interessi morali – l’interesse per il benessere degli altri –, e questa è a sua volta una condizione per massimizzare “la cura, l’altruismo e il comportamento prosociale tra estranei e nei confronti degli animali”.
In ogni caso, lo spirito di condanna – che in Occidente va sempre più di moda – non arricchisce la nostra comprensione, ma piuttosto la impoverisce, nel caso del Cute come in tanti altri. Pertanto il mio obiettivo è resistere all’impulso di censurare la mania del Cute e cercare invece una comprensione più ampia di questo affascinante fenomeno e dei ruoli diversificati che ricopre nel mondo di oggi.
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