Dal dadaismo all’Ontologia Orientata agli Oggetti

Per la prima volta Graham Harman, fondatore dell’ontologia orientata agli oggetti (OOO), tratta insieme e organicamente i temi che gli stanno più a cuore: le forme artistiche.


IN COPERTINA: IL GRANDE VETRO, DI MARCEL DUCHAMP (COURTESY PHILADELPHIA MUSEUM OF ART)

Questo testo è un estratto da Arte e oggetti di Graham Harman, ringraziamo Mimesis per la gentile concessione.


di Graham Harman

Gavin Parkinson ha scritto qualcosa che mi colpisce, in quanto è, allo stesso tempo, vero e sorprendente: “la reputazione e l’opera di Marcel Duchamp […] [hanno] superato quelle di Picasso agli occhi sia degli storici dell’arte, sia degli artisti, sia degli ammiratori di Duchamp” (DB, p. 6). Per quanto questa situazione sia comune nel mondo dell’arte odierno, non dovremmo mai dimenticare la sua assoluta improbabilità. In Picasso siamo di fronte a un bambino prodigio che non ha deluso nessuno nella vita successiva, crescendo fino a diventare uno dei grandi maestri nella storia dell’arte occidentale. Greenberg non rischia di sollevare alcuna controversia, quando afferma che “nel corso di una ventina d’anni che vanno dal 1905, l’inizio del suo periodo rosa, al 1926, quando il suo cubismo ha smesso di essere analitico, Picasso ha prodotto arte di una stupenda grandezza, stupenda sia nella concezione che nell’esecuzione, nella correttezza e consistenza della sua realizzazione” (IV, p. 27). Casomai Greenberg incorre nell’ira di quei sostenitori di Picasso che si risentono della sottovalutazione di Guernica e di molte altre opere successive al 1926 (HE, p. 91). In ogni caso, pochi osservatori equilibrati dimostrerebbero che Picasso non è stato uno dei personaggi più grandi nella storia dell’arte documentata. Duchamp, di contro, era un pittore dalle doti visibilmente mediocri, che è diventato inizialmente famoso per aver inserito oggetti di vita quotidiana, come un orinatoio o un pettine, nelle mostre d’arte, prima di lasciare l’arte, a quanto pare, per giocare a scacchi a tempo pieno. Eppure, Parkinson ha ragione nel dire che oggi è lo spirito di Duchamp, non di Picasso, a guidare l’arte. Non dovremmo dimenticare che si tratta di un esito talmente bizzarro che è difficile trovare delle analogie. Forse possiamo ipotizzarne una mettendo insieme Albert Einstein e Alfred Jarry, lo scrittore assurdista francese che aveva coniato il termine umoristico “patafisica” per riferirsi a ciò che definiva una “fisica di cause immaginarie”. Tenendo questo a mente, immaginate un autore di scienza dei giorni nostri che scriva seriamente le seguenti parole: “la reputazione e l’opera di Alfred Jarry […] [hanno] superato quelle di Einstein agli occhi sia degli storici della scienza, sia degli scienziati, sia degli ammiratori di Jarry”. Se vi è un universo parallelo in cui cose simili sono state scritte, allora la storia della scienza in quell’universo deve aver preso una svolta poco plausibile.

Bisognerebbe ricordare altresì che il picco dell’influenza di Duchamp non coincide con le sue opere più celebri, ma risale alla sua anzianità, ovvero agli anni ‘60 del Novecento, lo stesso decennio in cui è morto. Un buon sunto della sua tardiva reputazione si può trovare nei punti in cui è menzionato da Greenberg. Dagli albori della carriera di Greenberg nel 1939 fino all’inizio del 1968, ho contato un totale di 333 saggi, articoli e recensioni, insieme ai volumetti su Mirò (1948) e Matisse (1953). In un arco di produttività e successo di quasi trent’anni, ho trovato Duchamp menzionato solo due volte: un riferimento del 1943 ad alcuni suoi pezzi nella nuova galleria di Peggy Guggenheim (I, p. 141) e una frecciata del 1967 su come il minimalismo utilizzi la terza dimensione, perché è lì che l’arte incontra la non-arte e a Duchamp viene sarcasticamente “attribuito il merito” di questa scoperta (IV, p. 253). Questo ci conduce al maggio del 1968, la nascita simbolica dell’era postmoderna, in cui il successo di Greenberg era ormai lontano. Guarda caso, era anche il mese in cui realizzò la sua prima critica seria di Duchamp. Sebbene la riscoperta di Duchamp fosse già iniziata nei primi anni ‘60, la lezione di Greenberg tenuta a Sydney nel 1968 sembra il momento in cui egli sentì per la prima volta la necessità di rispondere direttamente alla crescente influenza dei dadaisti (IV, pp. 292-303). De Duve esagera quando riferisce che “dalla fine degli anni ‘60 in poi, difficilmente ogni singolo articolo [di Greenberg] non conteneva un violento attacco a Duchamp, accusandolo di tutte le sventure presenti nel mondo dell’arte” (KAD, p. 292). I riferimenti di Greenberg a Duchamp aumentano dopo il 1968, ma non nella misura sostenuta da de Duve. Si può dire che le analisi greenberghiane di Duchamp divengano ovunque più estese e al vetriolo. Invece di citare singolarmente queste critiche, consentitemi di riassumere lo spirito di questi attacchi:

(1) Duchamp rifiuta la qualità come standard estetico.

(2) Tratta lo scandalo nella grande arte non come uno sfortunato effetto collaterale destinato a esaurirsi con il tempo, ma come lo scopo principale dell’arte.

(3) Scandalizza gli standard stabiliti non tramite mezzi estetici interni, ma trasgredendo il decoro sociale quotidiano: esponendo orinatoi, seni, o il corpo nudo disteso di una donna assassinata in un contesto di belle arti, che rimarrà prevedibilmente inorridito da tali gesti.

(4) Nell’arte preferisce il pensiero, trasformando le opere in concetti eccessivamente trasparenti.

(5) Sovrastima la frattura radicale che la sua opera compie con il passato.

(6) Pur ritenendo se stesso il pinnacolo del progresso artistico, Duchamp è, in realtà, un artista accademico che dà per scontato il medium dell’arte, è disperato di non saperlo innovare dall’interno e si riduce così a operare una sorta di puerile sabotaggio attraverso offese scandalose rivolte al contesto delle gallerie di belle arti (GD, p. 259).

Questa lista copre più o meno la varietà delle obiezioni di Greenberg al leader dadaista, a cui bisogna aggiungere l’ulteriore osservazione secondo cui le opere di Duchamp sono simili a delle barzellette o dimostrazioni matematiche: divertenti o interessanti la prima volta che si sentono, ma non particolarmente le volte successive.

Ora, cosa dovremmo fare con questa lista? L’unico elemento che mi colpisce, visto che è palesemente errato, è l’ultimo: l’asserzione che Duchamp sia un “artista accademico”. Abbiamo visto che, nella sua tarda lezione di Sydney, Greenberg ha definito l’arte accademica, con ammirevole chiarezza, come l’arte che dà per scontato il suo medium – una definizione che, a modo loro, hanno sostenuto anche Heidegger e McLuhan (LW, p. 28). Dare il proprio medium per scontato, per focalizzarsi quindi sul contenuto e non sullo sfondo, è un altro modo di definire qualcuno letteralista. Da questo punto di vista, è interessante che Greenberg consideri sia il surrealismo che il Dada come forme d’arte accademica, e dunque come tipologie di letteralismo, sebbene, dal punto di vista della OOO, si tratti di un fraintendimento di entrambi i movimenti. È abbastanza chiaro perché Greenberg lo affermi a proposito del surrealismo: anche il quadro più folle di Dalí porta avanti la tradizione post-rinascimentale delle scene illusionistiche tridimensionali, quindi non fa nulla per confrontarsi con ciò che Greenberg considera il medium fondamentale della pittura, la tela piatta. Lo stesso vale, agli occhi di Greenberg, per René Magritte e gli altri surrealisti. Nella sezione successiva contesterò questa interpretazione del surrealismo come letteralismo. Tuttavia, interpretare il Dada come se fosse inconsapevole del suo medium sembra una posizione ancora più difficile da sostenere. Se qualcuno, nel XX secolo, ha criticato la validità attribuita al medium artistico, è stato certamente Duchamp, malgrado altri problemi riscontrabili nel suo approccio. Dai famosi ready-made industriali allo strano e spassoso Il grande vetro, alla meravigliosa la-boîte-en valise giocattolo con la collezione di opere in miniatura di Duchamp, al repellente nudo squartato di Étant donnés a Philadelphia, difficilmente si può affermare che l’artista non sia riuscito a esplorare un ampio raggio di media per nulla ovvi.

Penso che si debba riconoscere tutto questo. Nondimeno, sono tra coloro che considerano Picasso superiore a Duchamp, e anche tra coloro che si sono stancati del fatto che l’irriverenza duchampiana sia quasi ovunque, con risatine che riempiono gallerie ed esperienze estetiche quasi nulle. Poniamoci la seguente domanda: i limiti autentici di Duchamp, intesi come guida per il futuro, sono già presenti nella lista summenzionata di Greenberg o non sono ancora stati formulati? Mi sembra che le restanti critiche sulla lista si possano ripartire in due tipologie fondamentali. Le obiezioni 2 e 3 sono un’applicazione abbastanza chiara delle idee formaliste: Duchamp vuole soltanto scandalizzare, e i suoi scandali sono più sociali che estetici. Le altre tre obiezioni, la 1, la 4 e la 5, sembrano di primo acchito più diversificate, ma si riferiscono comunque al fatto che Duchamp privilegia l’intelletto contro ciò che spesso rifiuta in quanto “arte retinica” (DB, p. 6). L’obiezione 4 rende esplicito tale aspetto. La numero 5 è strettamente legata a questo, visto che l’asserzione duchampiana di rompere radicalmente con il passato si collega alla sua affermazione di un nuovo concetto radicale dell’arte che nessuno ha mai sperimentato prima. La numero 1 è connessa altresì al primato anti-kantiano, sostenuto da Duchamp, del pensiero nell’arte, poiché egli rifiuta la qualità del gusto estetico autonomo, non il principio che alcuni progetti di opere d’arte possano essere migliori di altri. Le opere di Duchamp sono generalmente basate sui concetti, come nota Kosuth (AAP, p. 84), e questi concetti dovrebbero sconvolgere gli osservatori abituati ai generi artistici tradizionali.

In una risposta critica, seppur generosa, al mio articolo su Greenberg e Duchamp, Bettina Funcke mette in discussione la mia lista in sei punti; o, piuttosto, ritiene che manchi qualcosa nell’approccio greenberghiano a Duchamp. Funcke inizia con il concordare in parte con la frustrazione di Greenberg, se non addirittura con il suo senso del tempo: “Al momento non possiamo accettare di essere giunti alla stessa conclusione di Greenberg, ma potrebbe succedere tra quarant’anni: d’accordo, non avevi ragione sull’arte degli anni ‘70, ma adesso ti abbiamo raggiunto, poiché adesso tutto rende esausti anche noi” (NO, p. 276). Ma certamente “questo sentirsi esausti, poiché le cose sono state eccessivamente sfruttate, è perenne” (NO, p. 276).

Tuttavia, il punto cardine dell’articolo di Funcke sta altrove, quando afferma di aver trovato la reale importanza contemporanea di Duchamp da un’altra parte: “più ancora del ready-made […] è il suo giocare con l’informazione e la documentazione, con la ricezione della sua opera, attraverso rappresentazioni edite e stampate […]. È qualcosa che fondamentalmente esula dall’indagine di Greenberg e a cui non si rivolge la critica in sei punti che tu menzioni” (NO, p. 276). Funcke aggiunge successivamente che “questi punti di critica sembrano avere senso solo finché ci focalizziamo sui ready-made e sugli altri oggetti come oggetti in quanto tali, ignorando il loro contesto, il loro discorso, le loro storie perverse e tutto ciò su cui Duchamp ha lavorato per metterlo in atto, una pratica che adesso è molto più comune grazie alla sua opera” (NO, p. 277). L’esempio accuratamente selezionato da Funcke è Fontana, l’infame orinatoio esposto da Duchamp nel 1917. Sebbene sia solitamente considerato il manuale del ready-made, risulta essere, più che un oggetto singolo, una serie di tracce documentarie e storiche. Dopotutto, in pochi hanno visto la Fontana originale, che è andata perduta. Ciò che ne resta sono alcune fotografie di Alfred Stieglitz, un commento critico all’opera, scritto probabilmente dallo stesso Duchamp, e altri tre orinatoi messi al posto dell’originale nelle mostre molto più tarde del 1950, del 1963 e del 1964. Secondo le parole di Funcke: “l’opera d’arte non occupa una specifica posizione nello spazio e nel tempo; è, piuttosto, un palinsesto di gesti, presentazioni e posizioni […]. In breve: egli ha trasformato l’arte in discorso […]. Lo aveva forse fatto qualcun altro, nell’ambito della grande arte, un simile lavoro di edizioni e copie?” (NO, p. 279).

Nondimeno, Funcke conclude con un’osservazione ambivalente. Da un certo punto di vista, sembra un’accanita sostenitrice di questa tendenza documentaria. Mentre la critica di Greenberg a Duchamp pare focalizzarsi sui ready-made, “nella cassetta degli attrezzi di Duchamp c’erano strumenti molto più potenti: la creazione di manuali per il proprio lavoro, lo status della copia e dell’oggetto edito, la riproduzione ritoccata dell’opera, la maniera in cui l’arte si trasforma nel discorso” (NO, p. 281). Di contro, anche nell’opera di un pittore rinomato come Pollock, “non ci sono così tante strategie concrete da portare via e usare nella propria opera” (NO, p. 281). Tuttavia, anche se Funcke loda questi sviluppi duchampiani, una nota di stanchezza traspare dalla sua voce: “Voglio fermarmi e sottolineare che tutti questi esempi non invalidano la critica di Greenberg. Ovviamente Greenberg avrebbe considerato tutto questo una conferma dei suoi dubbi sulla direzione che Duchamp stava facendo assumere all’arte” (NO, p. 281). E, soprattutto, vi è oggi una “super-sfruttata eredità di Duchamp”, che consiste proprio in un “lavoro di documentazione, informazione, fotografie alterate, falsificazioni, identità, narrazioni e spostamenti”, di cui Funcke aveva già proclamato l’essenziale importanza per il mondo dell’arte (NO, p. 281).

La mia risposta è la seguente. In primo luogo, abbiamo visto che il concetto di “oggetto” della OOO è talmente ampio che lo spostarsi dalle singole entità fisiche del ready-made alle intricate reti di documentazione e commento non smuove nulla nell’ontologia sottostante. Una serie di manuali o pratiche è per noi un oggetto non meno di un solido orinatoio in ceramica. La questione per la OOO è semplicemente se il quadro, la scultura, il ready-made o la rete di documenti in questione è in grado di stabilire un’autonomia e una profondità sufficienti a essere considerati importanti per l’arte, poiché tutte queste cose possono essere fatte bene o male. Funcke centra il punto quando afferma che il formalismo tradizionale non ha individuato nessuno spazio per “documentazione, informazione, fotografie alterate, falsificazioni, identità, narrazioni e spostamenti” nell’elenco delle opere d’arte legittime. Anche in questo senso, si è trattato di una fondamentale operazione tassonomica, secondo cui certi tipi di entità sono sempre stati candidati a essere opere d’arte, mentre certi altri non hanno mai potuto esserlo. Nell’espandere la nostra idea di cosa può essere considerato arte, Duchamp ha reso chiaramente un servizio al futuro, come anche Greenberg è giunto ad ammettere. Infine, Funcke è in disaccordo con l’affermazione di Greenberg che l’ultimo mezzo secolo d’arte può essere definito duchampiano. Il suo ragionamento è che questa idea “lascia fuori l’influenza di Andy Warhol, con cui [Greenberg] non ha potuto realmente confrontarsi e che ha spostato nuovamente il terreno” (NO, p. 276). Sulla base di questa osservazione ci volgiamo a Danto, il critico più strettamente associato a Warhol.

Danto ci racconta che il suo serio coinvolgimento nell’arte è giunto mentre “come soldato nella campagna d’Italia [dell’esercito americano nella seconda guerra mondiale], mi sono imbattuto in una riproduzione di La Vie, capolavoro del periodo blu di Picasso” (AEA, p. 179). Negli anni successivi, la storia mostra che Danto studia sia filosofia che arte, e intraprende anche una carriera artistica negli anni ‘50 come seguace di Willem de Kooning (AEA, p. 123). Eppure, Danto afferma spesso che la sua “grande esperienza” è arrivata dopo, nell’aprile del 1964, quando ha visto la Brillo Box di Andy Warhol alla Stable Gallery di New York (AEA, p. 123). Alcuni mesi dopo, ha tenuto una lezione all’American Philosophical Association intitolata Il mondo dell’arte, a proposito di cui afferma orgogliosamente che “[questo] scritto, non una volta, che io sappia, citato nelle copiose bibliografie sul pop degli ultimi anni, è diventato l’autentica base dell’estetica filosofica nella seconda metà del [ventesimo] secolo” (AEA, p. 124). Per quanto ciò sia indubbiamente vero, c’è qualcosa di poco chiaro nella cronologia di Danto. Anche se l’imbattersi nella Brillo Box è stata la sua grande esperienza, c’era già stato un incontro precedente con il pop – Il bacio di Roy Lichtenstein, sulle pagine di Art News – che aveva avuto un impatto non lieve sulla sua vita: “Devo dire che ero stupito […] [D]entro di me ho capito immediatamente che, se era possibile dipingere qualcosa del genere […], allora tutto era possibile” (AEA, p. 123). Tuttavia, mentre la frase “tutto era possibile” indica quella sorta di visione liberatoria successivamente acclamata dal Danto maturo, l’opera di Liechtenstein ha avuto uno strano effetto sulla sua carriera artistica: “Significava pure che avevo perso interesse nel fare arte e ho praticamente smesso. Da quel momento in poi, sono stato risolutamente un filosofo” (AEA, p. 123). Il significato del pop per Danto sta proprio nel fatto che, per come lo concepiva lui, non era più possibile distinguere l’arte dalla non-arte solo sulla base dell’aspetto visivo. Per qualsiasi scopo pratico, la Brillo Box di Warhol era indistinguibile da qualunque altra Brillo box prodotta in serie nei supermercati. L’arte, dunque, aveva per la prima volta bisogno della filosofia, anche se Kosuth ne avrebbe tratto la conclusione opposta (AAP, p. 76).

Danto è il mio critico d’arte preferito tra i “postmodernisti”, sebbene ciò possa essere dovuto solo al fatto che mi piace il suo modo familiare di affrontare gli argomenti. Tra i filosofi, è Danto ad aver reso Warhol una figura ancor più grande di Duchamp nella storia universale. Danto possiede un talento per gli esempi arguti, di cui uno dei migliori si trova all’inizio del suo primo e più famoso libro sull’arte, La trasfigurazione del banale. Qui parlerò soprattutto di quest’opera, insieme ad altri materiali supplementari tratti da un altro dei suoi libri più letti, Dopo la fine dell’arte, e in misura minore dalla sua monografia Andy Warhol. Possiamo focalizzarci sulle quattro più importanti affermazioni di Danto: (1) Non è più possibile determinare la differenza tra arte e non-arte solo sulla base dell’aspetto visivo di un’entità. (2) Poiché l’aspetto visivo non è sufficiente, il contenuto di un’opera d’arte non è la chiave per determinarne lo status. L’effetto di quest’affermazione è ambivalente: da un lato, l’allontanamento dal contenuto sembra una mossa greenberghiana, ma, dall’altro, Danto critica Greenberg appellandosi all’importanza del contenuto in certi casi specifici – come quando insiste sul fatto che prestiamo attenzione al motivo bellico di Guernica. (3) Al fine di opporsi al contenuto, Danto fa un appello in stile OOO alla Retorica di Aristotele e alla metafora come tipologia particolarmente importante di retorica. (4) Infine, Danto afferma che Warhol, e non Duchamp, è il vero spartiacque nella storia dell’arte recente. Oltre a questi quattro punti, Danto aggiunge alcune osservazioni miste che risultano utili ai nostri scopi, in particolare i suoi segnali contrastanti sul termine “essenza”.

La trasfigurazione del banale inizia con un riff immaginativo su un brano di Kierkegaard, in cui il filosofo descrive un quadro intitolato Mar Rosso, che in realtà non è altro che un quadrato rosso; egli paragona il dipinto alla propria vita per ragioni che qui non ci riguardano (TC, p. 1). Danto estende questa storia, immaginando un’intera serie di altri quadrati rossi identici, o quasi, a quello ricordato da Kierkegaard. Il primo si può chiamare Lo stato d’animo di Kierkegaard e, per quanto sia visivamente identico a Mar Rosso, il presunto soggetto del titolo lo separa dal suo predecessore. Danto procede immaginando altre opere con lo stesso aspetto esteriore: uno spiritoso paesaggio moscovita chiamato Red Square [Piazza Rossa], un’opera minimalista chiamata pure Red Square [Quadrato rosso] per ragioni più immediate, e un quadro metafisico intitolato Nirvana. Poi viene “una natura morta eseguita da un amareggiato discepolo di Matisse, chiamata Tovaglia rossa” (TC, p. 1), che Danto ammette perché utilizza uno strato meno spesso di pittura. L’oggetto successivo, sempre un quadrato rosso, è “semplicemente una tela preparata con il minio” (TC, p. 1), poiché era stata approntata dal pittore rinascimentale veneziano Giorgione prima della sua morte prematura. Dopo questa vi è un’altra tela approntata con il minio, ma non si tratta affatto di un’opera d’arte: è semplicemente un oggetto prodotto per un ignoto scopo quotidiano. Danto chiude la mostra immaginaria aggiungendo Senza titolo, un quadro eseguito da un giovane artista arrabbiato di nome J., che chiede di essere ammesso all’ultimo minuto alla mostra dei quadrati rossi. Qui Danto aggiunge l’acuta osservazione che l’opera di J. manca di ricchezza (TC, p. 2).

Questo lungo esempio ci offre un’utile introduzione all’affermazione principale di Danto come filosofo dell’arte: l’aspetto esteriore di un oggetto non basta a determinare se questo si debba considerare un’opera d’arte. Danto ci ricorda che una simile osservazione sulla letteratura era già stata fatta in un famoso racconto di Jorge Luis Borges, intitolato Pierre Menard, autore del Chisciotte. Com’è noto, si tratta della riscrittura letterale del Don Chisciotte operata da un immaginario uomo francese del XX secolo. Per quanto ogni parola e segno di punteggiatura siano esattamente gli stessi del romanzo originario di Cervantes – rendendo il libro identico secondo l’accezione di Danto – il narratore nota l’enorme differenza tra i due: mentre Cervantes ha scritto con uno stile contemporaneo nella sua lingua natia, Menard ha scritto il proprio romanzo in maniera piuttosto impreziosita con uno stile arcaico in lingua straniera, e così via. Secondo le parole di Danto, “Il contributo di Borges all’ontologia dell’arte è stupendo” (TC, p. 36). Osserva successivamente che questa lezione non è stata colta da un critico rivale: “Greenberg credeva che l’arte da sola e senza alcun aiuto si presentasse agli occhi in quanto arte, sebbene una delle grandi lezioni dell’arte in tempi recenti sia che non può essere così” (AEA, p. 71). Più avanti si riferisce più aspramente all’“ottusità mozzafiato” di Greenberg (AEA, p. 92). In ogni caso, non possiamo soltanto aprire gli occhi e guardare. Riguardo alla Brillo Box di Warhol, “chi non conosce la storia e la teoria degli oggetti non può considerarla arte, dunque sono state la storia e la teoria degli oggetti, più di qualunque altra cosa tangibilmente visibile, a venire interpellate allo scopo di considerarla arte” (AEA, p. 165). Per Danto, questo spostamento è sufficiente a separare l’arte dall’estetica, dato che la seconda è un termine legato alla percezione più che al pensiero. In un discorso tenuto nel 1994 a Iowa City, la mia città d’origine, egli nota correttamente che le ambizioni dell’arte contemporanea “non sono principalmente estetiche” (AEA, p. 183).

Ora, è vero che l’appello di Danto a un antico principio di filosofia della scienza, secondo cui ogni osservazione è carica di teoria (TC, p. 124), potrebbe essere letto come un’altra frecciata alla supposta fiducia di Greenberg nella pura percezione estetica. Eppure, sorprendentemente, la diffidenza di Danto verso l’aspetto visivo esteriore delle cose si tramuta in ciò che Greenberg stesso sosterrebbe: una diffidenza verso il contenuto nell’arte e un interesse corrispondente verso il suo medium. Di certo Danto non va lontano come Greenberg in questa direzione, e inoltre si assicura di dimostrare – prendendo esplicitamente di mira l’anziano critico – che, quando Picasso dipinse Guernica, “si preoccupava poco dei limiti del medium [della tela]: si preoccupava maggiormente, in misura inestimabile, del senso della guerra e della sofferenza” (AEA, p. 73). Eppure, colpisce ancora che Danto contesti la teoria dell’arte come mimesi, nella misura in cui lega la mimesi al contenuto: “Essendo considerata una teoria dell’arte, ciò a cui corrisponde la teoria dell’imitazione è una riduzione dell’opera al suo contenuto, ritenendo tutto il resto presumibilmente invisibile” (TC, p. 151). Lamenta il fatto che le teorie marxiste dell’arte abbiano il generale difetto di essere orientate al contenuto, e parimenti attacca la filosofia idealistica di Berkeley per aver ridotto il mondo a un insieme di immagini sensoriali (TC, p. 151). L’esempio immaginato da Danto dei numerosi e differenti dipinti dello stesso quadrato rosso sembrava proporre il contesto complessivo di un’opera d’arte come alternativo al suo mero contenuto visivo. Eppure, ho dimostrato che il contesto letteralizza l’oggetto tanto quanto le sue proprietà visive, poiché considera l’oggetto solo come un mucchio di relazioni, invece che come un mucchio di dati ottici. Ciò implica che l’arte, per funzionare a un livello più profondo del contesto relazionale o dell’aspetto visivo di un’opera, debba accettare il marchio del realismo filosofico, che è infatti quanto la OOO sostiene. In ogni caso, Danto vuole difendere il medium rispetto al contenuto anche da coloro che considerano irrilevante il medium stesso dell’arte. C’è un altro medium sulla scena, di cui non si può negare la presenza: “Vi è anche […] un analogo filosofico del concetto di medium. È il concetto di coscienza, che a volte è descritto come un puro essere diafano, mai abbastanza opaco da essere un oggetto per sé” (TC, p. 152). È interessante notare che, di contro, la difesa dell’arte concettuale operata da Kosuth sembra corrispondere a una difesa del contenuto (AAP, p. 84) e, in questo modo, la sua sfiducia nella filosofia tradizionale – che sembra il risultato di una superba passione giovanile per Ludwig Wittgenstein – è in realtà una sfiducia nel realismo, suggerita dalla diffidenza di Danto verso il contenuto (AAP, pp. 76, 96). In ogni caso, Danto è sicurissimo non solo che l’arte ha bisogno della filosofia (TC, p. viii), ma anche che l’arte contemporanea è sul punto di diventare filosofia dell’arte (TC, p. 56).

Nell’ulteriore sforzo di spiegare come l’arte vada oltre il mero contenuto visibile, anche Danto ha fatto ricorso a un’analisi della metafora, che giustamente considera una branca della retorica (TC, p. 168). Il concetto principale della Retorica di Aristotele è l’entimema, con cui si intende qualcosa che il retorico lascia inespresso invece di dirlo esplicitamente. L’esempio classico è che un oratore dell’antica Grecia può dire che un uomo è stato incoronato tre volte con l’alloro, senza rendere esplicito il fatto – ovvio per chiunque vivesse a quei tempi e in quel luogo – che questo significa che è stato tre volte campione ai giochi olimpici. Il punto è che, lasciando da parte l’informazione e operando così un “sillogismo troncato” (TC, p. 170), un entimema comunica più di quanto afferma apertamente. Per questa ragione, così tanti autori, da Platone in poi, hanno considerato la retorica come una forma di manipolazione, anche quando non dice nulla di falso. Essa implica “una complessa interrelazione tra il creatore e il lettore dell’entimema. Il secondo deve riempire da solo il vuoto deliberatamente lasciato aperto dal primo: deve provvedere a ciò che manca e trarre le proprie conclusioni” (TC, p. 170). Nei termini della teoria dei media di McLuhan, la retorica è quindi un medium “freddo”, che trattiene molti dettagli e richiede una partecipazione attiva, assicurando così un profondo coinvolgimento da parte dell’osservatore o uditore. Per quanto riguarda la retorica, “la chiarezza è nemica” (TC, p. 170), poiché ciò che si afferma non sarà mai potente quanto ciò che si sente individualmente. Qui Danto richiama la nostra attenzione su quanto Iago, in realtà, parli poco nell’Otello di Shakespeare; le sue manipolazioni vengono attuate sulla base dell’insinuazione più che di vere e proprie menzogne (TC, p. 170).

Volgendosi poi a quella branca della retorica chiamata metafora, che Aristotele tratta più direttamente nella Poetica, Danto la apprezza più o meno quanto la OOO. Glossa Aristotele con sufficiente ragionevolezza, dicendo che non possiamo considerare la metafora come un modo di suggerire “un termine medio t cosicché, se a è metaforicamente b, allora deve esserci una qualche t tale che a sta a t come t sta a b” (TC, p. 170). Tuttavia, penso che in effetti qui Aristotele si sbagli, poiché segue dalla nostra trattazione nel capitolo 1 che il problema non è trovare il termine medio t tra due oggetti, che consiste semplicemente in una o più qualità condivise: l’“essere scuro” come ciò che lega il vino al mare, per esempio. Il vero trucco, invece, è l’azzeramento su un’imperscrutabile a dopo che le sono state concesse le qualità di b. Eppure, è ancora più importante il fatto che concordiamo con l’analisi di Danto su come funziona la metafora: il termine mancante, qualunque esso sia, “deve essere trovato, il vuoto deve essere riempito, la mente spinta all’azione” (TC, p. 171). Osserva, inoltre, che le metafore “resistono […] alle sostituzioni e alle precisificazioni” (TC, p. 177), ovvero che resistono a ogni sorta di parafrasi. Ecco perché i testi, come ogni altra cosa, non possono essere tradotti senza che si perda qualcosa (TC, p. 178). Danto conclude che “la struttura della metafora ha a che fare con alcune caratteristiche rappresentative diverse dal contenuto” (TC, p. 175), che è esattamente il genere di meccanismo da lui indagato. Questo rifiuto del contenuto visibile spiega inoltre la ragione per cui Danto collega l’arte alla filosofia: “Secondo la mia prospettiva, l’arte, in quanto arte, in quanto ciò che è in contrasto con la realtà, è nata insieme alla filosofia” (TC, p. 77). Notiamo semplicemente che per “realtà” Danto intende una sorta di “attualità della superficie visibile”. La sua tesi è che il contrasto con tale attualità è ciò che ricercano sia l’arte sia la filosofia, visto che quest’ultima, secondo la sua prospettiva, è sorta in maniera indipendente solo in due occasioni: in Grecia e in India, “civiltà entrambe ossessionate dal contrasto tra apparenza e realtà” (TC, p. 79).

Tornando alla fascinazione di Danto per Warhol, ci si può chiedere perché la celebrità americana del pop debba essere considerata più importante di Duchamp, che è il bisnonno dell’arte contemporanea nel vero senso della parola. Danto definisce apertamente il pop come “il movimento artistico più critico del [ventesimo] secolo” (AEA, p. 122). Sulla scia della Brillo Box, “una teoria dell’arte interamente nuova è stata chiamata a qualcosa di diverso rispetto alle teorie del realismo, dell’astrazione e del modernismo” (AEA, p. 124). Ancora più energicamente, “Warhol, e gli artisti pop in generale, hanno reso quasi inutile tutto ciò che è stato scritto sull’arte dai filosofi, o almeno vi ha dato un significato locale” (AEA, p. 125). Ciononostante, perché riferire tali affermazioni a Warhol invece che a Duchamp, che potrebbe sembrare una sorta di ideatore di ciò di cui Warhol è stato un mero seguace? Ammetto di non essere pienamente soddisfatto della risposta di Danto, che non solo sorvola sulle somiglianze di superficie tra Fontana e Brillo Box, ma va persino al di fuori dell’arte per misurare l’impatto storico complessivo di questi pezzi. Come afferma Danto:

Secondo la mia prospettiva, il pop non era solo un movimento che seguiva un movimento, che a sua volta seguiva un movimento ed è stato sostituito da un altro. Era un momento cataclismico, che ha segnato delle profonde svolte sociali e politiche e che ha consentito profonde trasformazioni filosofiche nel concetto di arte […]. Qualunque cosa abbia ottenuto Duchamp, non ha celebrato l’ordinario. Forse [al massimo] ha diminuito l’estetico e messo alla prova i confini dell’arte. (AEA, p. 132).

Mentre non è difficile vedere la differenza tra Duchamp e Warhol, l’importanza di quest’ultimo non è immediatamente convincente, né la differenza viene chiarita meglio nella monografia di Danto su Warhol. Lì leggiamo, nell’edizione Kindle, che “Warhol non era anti-estetico allo stesso modo in cui lo era Duchamp. Duchamp tentava di liberare l’arte dal dover dilettare l’occhio. Era interessato a un’arte intellettuale. Le motivazioni di Warhol erano più politiche” (AW, p. 558). Oppure, successivamente, “Andy ha creato le sue scatole della spesa, mentre Duchamp non poteva, in linea di principio, aver creato i suoi ready-made” (AEA, p. 638). Anche se Duchamp avesse prodotto il proprio orinatoio, non riusciamo a immaginare che Danto lo definisca il primo artista pop, poiché per Danto la questione riguarda, in ultimo, il fatto che Warhol abbia dato inizio a un più ampio movimento culturale nella vita americana, un criterio che non si può definire estetico.

Prima di accomiatarci da Danto, dovremmo notare il suo atteggiamento ambivalente nei confronti dell’“essenza”, uno dei concetti più denigrati nella filosofia recente. Se l’essenza di una cosa indica ciò che una cosa realmente è, al di là di tutte le caratteristiche accidentali sulla sua superficie e della nostra capacità di conoscerla, possiamo immediatamente percepire da quali direzioni verrà attaccata. Da un lato, negando qualcosa come una “profondità” che esiste al di sotto di una “superficie” – come se la profondità fosse un retaggio patriarcale di un’epoca passata – i filosofi postmoderni affermano che un’essenza non può nascondersi da nessuna parte: pertanto, una cosa non è nient’altro che la somma complessiva delle sue azioni e dei suoi effetti pubblici. Dall’altro, rifiutando, più che l’essenza in sé, l’essenza nella sua presunta inaccessibilità alla conoscenza, l’influenza hegeliana sulla filosofia contemporanea deride l’idea che ciò che una cosa realmente è possa essere permanentemente nascosta a noi. Ci sono momenti in cui Danto sembra allinearsi pienamente a queste obiezioni. Per esempio, egli celebra ciò che definisce “il successo ontologico dell’opera di Duchamp […] [che] non mette fine soltanto a un’epoca, ma all’intero progetto storico […] [di] cercare di distinguere le qualità essenziali da quelle accidentali dell’arte” (AEA, p. 112). Molto prima Danto si dichiara “un essenzialista della filosofia dell’arte, per quanto, nell’ordine polemico del mondo contemporaneo, il termine ‘essenzialista’ abbia assunto la connotazione più negativa possibile” (AEA, p. 193). Mi sembra che Danto raggiunga la posizione corretta quando dice che il problema nella storia dell’estetica precedente non è l’idea che ci sia un’essenza dell’arte, ma che le grandi figure, “da Platone passando per Heidegger […] abbiano male interpretato l’essenza” (AEA, p. 193). Ciò non significa che Danto o chiunque altro potrebbero intenderla esattamente, se facessero uno sforzo in più rispetto a Platone e Heidegger. Abbiamo visto che il problema risiede in ogni tentativo di cogliere direttamente l’essenza di qualcosa, come se questa potesse essere sostituita da una parafrasi.


Graham Harman, filosofo statunitense, è professore al Southern California Institute of Architecture di Los Angeles. Considerato tra i pensatori di spicco del realismo speculativo, le sue riflessioni sulla metafisica degli oggetti hanno condotto alla fondazione di una prospettiva denominata “ontologia orientata agli oggetti”, secondo cui la “vita degli oggetti” è utile a superare le posizioni dell’antropocentrismo e del correlazionalismo.

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