Siamo convinti che il disagio psicologico, depressione compresa, venga da qualcosa di sbagliato in noi. Ma forse dovremmo pensare anche alla società e ai suoi funzionamenti.
in copertina: un’opera di Maria Anto, Kot.
Questo articolo è un estratto da “Soffro dunque siamo” ringraziamo l’autore e Minimum Fax per la gentile concessione.
di Marco rovelli
Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema. Fin dai primi giorni del lockdown prese a circolare questo slogan. Che però, a distanza, pare più un auspicio che una realtà. I binari della cosiddetta normalità non sembrano essere stati scalfiti dall’emergenza pandemica, ma, semmai, rafforzati. Eppure, questa emergenza ci ha mostrato tutti i problemi di quella normalità in una deflagrazione rallentata, come nello scoppio di Zabriskie Point, nel rallentamento di un tempo sospeso dove il futuro viene radicalmente messo in questione. In questa sequenza lentissima, che ci permette di focalizzare i dettagli, vediamo emergere i segni di un disagio che si colloca al centro di questa nostra civiltà. I media stessi ce lo dicono ripetutamente: con la pandemia, è esploso il disagio psichico. Ma è stato generato o è stato innescato? Non sarà che è letteralmente esploso, e ciò che era già in attesa è affiorato in superficie con la sua terribile forza d’urto? Non sarà che questo varco temporale che è stata la pandemia ci ha permesso di gettare uno sguardo più profondo sulla natura del disagio psichico, su quanto esso appartenga costitutivamente al nostro tempo, e sul modo limitativo in cui di solito lo intendiamo?
La pandemia è un tempo sospeso per tutti. D’un tratto, la percezione del tempo si trasforma. Scompare la profondità di campo, la prospettiva si deforma: come un’anamorfosi, come un teschio. Il passato non è più un «sembra ieri», ma viene allontanato in una dimensione mitica, il «qualche mese fa» diventa «sembra un secolo fa». Il futuro è allontanato in una dimensione palingenetica: non c’è più presa possibile su di esso, non c’è più misura comune, niente che consenta di afferrarlo, orientarlo, farlo proprio. Si sta sospesi in un eterno presente: ma anche il presente sembra scomparso, perché il tempo vive solo nello spazio, nel contatto con le cose: e le cose sono lontane, tremendamente lontane.
Il tempo della pandemia, allora, diventa il tempo di una messa in questione della realtà. Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.
Sono molti gli studi che raccontano di una crescita significativa dei disturbi depressivi e ansiosi dovuti al senso di carcerazione e all’isolamento forzato, alla perdita di relazioni e di «normalità» esistenziale, ma anche allo smart working, che può portare a un collasso della separazione tra tempo del lavoro e tempo di vita, laddove si deve essere sempre operativi, presenti agli imperativi e alle prestazioni richieste dal lavoro. Per non dire, poi, di chi il lavoro lo perde.
Proviamo dunque a pensare il disagio prodotto da questa situazione non come un cataclisma esterno, ma come qualcosa di latente che emerge, che viene portato alla luce. I sintomi ansiosi e depressivi, così come gli altri disturbi aggravati dalla situazione pandemica, non sono forse qualcosa di estremamente comune, indipendentemente dalla pandemia? L’ansia, il calo nel tono dell’umore, la depressione, l’agitazione, il panico, sono condizioni diffusissime nella nostra società. La pandemia, allora, ci dà una straordinaria opportunità per riflettere su come il disagio psichico sia un sintomo che ordinariamente trascuriamo, e che invece contrassegna profondamente la nostra società in senso pienamente politico.
«Salute mentale», si dice. Già il termine salute è insidioso. Salus, salvezza. Quale salvezza? Esistono forse i «sani», col motore mentale a posto, e i «malati», col motore rotto? Questa è l’illusione dominante. Troppo comodo, però. O si tratta della salvezza di chi rischia di annegare in un naufragio? Sono molti i modi per salvarsi da un naufragio: una nave che passa, un compagno che stava nel naviglio dal quale siamo caduti, un rottame della barca andata in pezzi a cui aggrapparsi… L’essenziale è scampare al naufragio, sopravvivere. Ma anche in questo caso, il naufragio non sarà ancora una volta la condizione dei «malati» che non riaffiorano alla luce? Forse, allora, non bisogna parlare di salvezza. Perché nessuno è salvo, mai, e non ci sono destinati al naufragio: non c’è bianco/nero, nell’esistenza. E in ogni caso, niente ci riporta a uno stato iniziale integro. Se da qualche parte un cammino ci porta, lo fa verso una consapevolezza del nostro incessante trasformarci. La salvezza non ci salva dalla nostra precarietà, ci fa comunque restare esposti ai pericoli e ai rischi del transitare nel mare della vita. E si tratta di riprendere un cammino. Di capire dove andare. Di costruire un senso. La salute è allora ciò che ci restituisce alla nostra possibilità di tracciare autonomamente un senso, di costruire un progetto, di individuare un orizzonte.
«Hai notato come sono rari e fievoli i sorrisi, sulla bocca stralunata di un uomo in crisi, come guarda sempre in basso, come cerca protezione, come evita a ogni passo di attirare l’attenzione? Sui suoi occhi stanchi e bui, senza più salde certezze, come cerca con le mani sempre nuove sicurezze?» Così cantava Claudio Lolli, nella canzone «Un uomo in crisi»; e in quella crisi era facile riconoscere i segni di quella che si chiama depressione.
-->La depressione, è stato detto, è la malattia del xxi secolo, popolato da scenari in cui il disagio psichico dilaga come un’epidemia contagiosa. Secondo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2030 la depressione sarà la malattia cronica più diffusa. «Già oggi gli antidepressivi rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica», scrive Luca Pani, ex direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco. Più avanti torneremo su questi dati, anche per metterli in questione alla luce delle categorie usate per definirli, ma certamente si tratta di un fatto di portata enorme, che non può non essere affrontato.
Ma non c’è solo la depressione. Ci sono forme emergenti del disagio psichico che non erano così rilevanti nella psicopatologia del Novecento: disturbi di panico, disturbi borderline, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento alimentare, fenomeni di ritiro sociale.
Cosa ci dice, il dilagare di questo contagio? Ci dice qualcosa di importante sulla natura di questa società, che si tratta di capire. Come scriveva Mark Fisher, la biologizzazione e la farmacologizzazione del disagio psichico sono tra le questioni più rilevanti, profonde e politiche della nostra era, in questa «società degli individui», come sembra opportuno denominare la civiltà ipermoderna neoliberale, quella che prese corpo definito negli anni Ottanta all’insegna del motto thatcheriano: «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie».
«L’attuale ontologia dominante esclude ogni possibile causa sociale della malattia mentale», scriveva Fisher. «La biochimizzazione della malattia mentale è ovviamente legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione». Se ogni disagio psichico è causato da un’anomalia chimica nel cervello, allora non serve chiedersi se c’è qualche determinante patogena nella società stessa. Che «non esiste», appunto. Questo, è bene chiarirlo subito, non significava certo per Fisher sostenere un determinismo – che sarebbe schematico e banale – tra cause sociali e disagio psichico. «Sostenere che ogni singolo caso di depressione possa essere ricondotto a cause economiche o politiche sarebbe semplicistico: ma è altrettanto semplicistico affermare, così come sostengono gli approcci dominanti alla depressione, che occorre sempre cercare le radici della depressione nella chimica individuale del singolo cervello o nelle esperienze vissute durante la prima infanzia». Si tratta dunque di uscire da ogni forma di riduzionismo, e focalizzarsi sui punti di intersezione tra «individuo» e «società»: sulla natura relazionale dell’umano. Chiedendoci che cosa la sua individualizzazione ci impedisca di vedere.
Nella narrazione egemone nella società degli individui, la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale, scompare: scompare la sua storia, scompare la parola. Scompare la complessità della persona, ridotta a un individuo – de-privato della sua natura relazionale; e l’individuo viene ulteriormente ridotto alla sua dimensione organica. Ciascuno viene ridotto al suo sintomo, per ogni sintomo c’è una diagnosi, e per ogni diagnosi c’è una «cura» farmacologica. In questa narrazione, il disagio psichico è effetto di cause biologiche, nasce da un cervello rotto, motore in panne da riparare: e la riparazione avviene intervenendo con uno psicofarmaco. (Criticare questa narrazione non significa affatto dire che gli psicofarmaci siano da buttare, che la psichiatria non sia altro che una forma di controllo sociale, che ogni disagio psichico si potrebbe curare con la parola e basta. Significa invece dire che lo psicofarmaco è uno strumento tra gli altri nella cassetta degli attrezzi dello psichiatra – uno strumento utile, e pure necessario, non solo per salvare vite o per rendere sostenibili condizioni altrimenti intollerabili, ma anche per innescare processi terapeutici di parola – ma non è lo strumento centrale, quando non l’unico.)
Quando si biologizza il disagio psichico si ripete uno degli assunti di base che hanno consentito agli psichiatri di acquisire, dagli anni Cinquanta, uno status di detentori della scienza medica tout court. Abbiamo anche noi, finalmente, il nostro strumento di cura, il nostro farmaco: come per il diabete si prende l’insulina, così per la malattia mentale si prende lo psicofarmaco. Dando per implicito che la mente sia un organo come gli altri. La psichiatria si elevava a scienza a pieno titolo, e su base organica. Ciò che hanno fatto psichiatri come Basaglia o Borgna è stato prendere posizione – nella prassi – contro questo assunto. Perché si tratta di capire questo: la sofferenza ha un senso oppure no? Pensare di cancellarla, con un farmaco oppure con una terapia veloce che in poche sedute elimini il sintomo, significa pensare che non abbia senso; ovvero, che non ci riguardi. È l’atteggiamento dominante: nella società dei vincenti soffrire è da perdenti, di soffrire ci si vergogna, della sofferenza bisogna disfarsi con ogni mezzo. Se invece pensiamo che la sofferenza, in quanto sintomo di un processo complesso, abbia senso, occorre assumerla, comprenderla, sentire in che cosa ci riguarda – per trasformarci. Inoltrandoci nella nostra storia, dunque nel nostro essere relazioni, e non individui isolati.
Occorre riflettere, dicevo, su come il disagio psichico sia un sintomo che ordinariamente trascuriamo, e che invece contrassegna profondamente la nostra società in senso pienamente politico. Molte di queste storie politiche trovano il loro spazio in uno studio psicoanalitico, che è un osservatorio particolarmente significativo, visto che lì si lavora col senso, e col disagio come esperienza soggettiva. Sono entrato nello studio milanese di Nicole Janigro, psicoanalista di formazione junghiana, per farmi raccontare da lei alcune storie – quattro figure della crisi – che raccontano il disagio della pandemia come precipitato e accelerazione di un disagio più profondo, un disagio che attiene allo spirito del tempo. Ci sono entrato due volte, nel 2021 e nel 2022. Ne ho ricavato una costellazione di parole chiave per comprendere la configurazione di questo tempo.
Corpo. Genere.
«Mio figlio ha dieci anni, si taglia». È un’epidemia. «Sei mesi chiuso in casa a quell’età, non è più nemmeno questione di una famiglia patogena…» Lo spazio chiuso fa deflagrare patologie, relazioni, vite. È fisica ed etologia allo stesso tempo: una compressione fortissima che determina un’esplosione. Così esplodono rapporti, anche quelli dove sembrava filare tutto liscio. E poi, appunto, praticare ferite sul corpo: un’esplosione che implode, una ricerca cieca, una ribellione muta, un voler sentire qualcosa quando è impossibile sentire, far fuoriuscire da sé qualcosa che non è mai stato detto, e che è impossibile da dire. Una pratica che è dilagata, arrivando a toccare soggetti che ancora sono bambini. Ma che sono già preda di una pratica sociale troppo più grande di loro.
Milo ha dieci anni, e si taglia. Ha i genitori separati, mi dice Nicole, ma sono due persone in grado di dargli un’affettività forte; non è tanto nell’ambiente familiare che vanno cercate le ragioni del suo tagliarsi senza sapere ancora cosa e chi è. Sembra più un rito di passaggio a fronte del mutamento del corpo, un mutamento vissuto con ansia ingestibile, un corpo insormontabile a cui non riesci a star dietro, che ti impone un cambiamento che non sei in grado di controllare, e allora cerchi di controllarlo così, tagliandoti, avendo appreso quella pratica dai tuoi coetanei, una pratica diffusasi per contagio, per imitazione, per spirito di branco. La protagonista di un romanzo che scrissi anni fa era una ragazza che si tagliava, per far segno di un mondo che non la riconosceva e che lei non riconosceva. Incidersi il corpo è un segno del tempo. Tutto si scarica sul corpo, su un corpo che è sempre più la linea di frontiera, la pietra di paragone, lo standard estetico e qualitativo, la misura del sé, il responsabile di un fallimento – e, infine, il rifugio estremo, sacrificale.
Torno da Nicole un anno dopo. Qualche giorno prima ho letto un suo articolo in cui ha scritto: «Forme maniacali di controllo inchiodano al presente, tagliarsi e picchiarsi, abbuffarsi e affamarsi come un viaggio per incarnarsi». «Il rito sacrificale del tagliarsi», mi dice Nicole, «è aumentato ancora. Dieci ragazze vanno in bagno, a scuola, e si tagliano insieme. Magari non in dieci, ma capita sempre più spesso. L’aspetto pandemico è diventato endemico. È una forma di quello che definisco un normalessere». È una pratica culturale. Da questa pratica ci si può tirare fuori anche in fretta, qualora se ne abbiano le risorse e l’occasione: «Milo ha accettato volentieri di andare dallo psicologo. Questo è un fatto nuovo, spesso sono i ragazzi stessi a chiedere di andare dallo psicologo. Vogliono trovare uno spazio esterno, cosa che storicamente è difficile per gli adolescenti. Per Milo, ad esempio, il segnale del suo disagio è scomparso quasi subito. Era anche, nel suo caso – ma è un caso anche questo ormai sempre più comune – qualcosa che passava per la ricerca di un’identità di genere: aveva una relazione intima con un suo coetaneo, e sempre di più a quell’età la ricerca di un’identità personale passa per la fluidità di genere, sono sempre di più quelli e quelle che dicono di essere bisex, o neutri. E questo porta tendenzialmente alla risoluzione della crisi. Si ricerca l’identità attraverso un cambio di identità».
Allora racconto a Nicole di Mira che è diventata Marco, racconto del suo tagliarsi. A voi che leggete lo racconterò più avanti.
Psicofarmaci. Depressione. Narcisismo.
«“Prendo antidepressivi perché non riesco più a uscire di casa”, mi ha detto ieri un paziente. E me lo hanno detto in tanti. L’uso
degli psicofarmaci è schizzato alle stelle. La depressione è stata
aggravata dall’isolamento. Molti che non avevano mai preso psicofarmaci adesso li prendono. Questo ha a che fare con un narcisismo diffuso, nel senso che molte persone che già per motivi propri si vivono come malate e bisognose hanno sviluppato una enorme sofferenza perché il mondo in pandemia non riesce a curarsi di loro. Le personalità che hanno bisogno di ricevere adesso soffrono».
«Quella persona che mi aveva detto così quel giorno», mi dice Nicole un anno dopo, «ha continuato a non uscire di casa, in una situazione di totale chiusura, di autoriferimento. Si è aggravata perché il mondo non sta bene, nessuno ha tempo di occuparsi di lei… Non voleva nemmeno fare sedute via Zoom, per quello che potremmo definire un narcisismo depresso: non voleva farsi vedere, ché gli altri poi se ne accorgono, che non è messa bene… Poi, da qualche mese, ha accettato di fare sedute via Zoom, ha avuto un miglioramento lieve grazie ai farmaci, e alla ripresa della vita sociale con il dileguarsi della pandemia. Non ho mai avuto, come in questi ultimi due anni, persone – e persone che magari seguo da vent’anni, ovviamente con interruzioni di anni tra una tranche e l’altra – che hanno avuto situazioni così, che si sono alleviate solo grazie ai farmaci. Una volta mi capitavano di rado, adesso c’è una continuità mai vista. Molte situazioni si sono acutizzate perché il contenitore esterno è molto più labile – e così sono tornate in massa persone che non vedevo da anni. È così per me ed è così per tutti i colleghi con cui parlo… Ti richiamano perché hanno bisogno di un interlocutore, e nel nostro mondo non ce ne sono più, di interlocutori. Noi psi catalizziamo il malessere sociale. E il malessere sociale – un normalessere, appunto – è caratterizzato da un senso di insicurezza e di incertezza totale. Appena si è allentata l’emergenza della pandemia, lo scoppio della guerra russo-ucraina ha incrementato il senso di catastrofe, senza soluzione di continuità».
Performance. Lavoro.
Mi riferisce Nicole di una frase molto significativa che le ha detto un paziente: «Non posso dire al mio partner che ho solo bisogno di dormire». Non posso, ha detto quel manager: non gli è concesso esplicitare quel bisogno. Essere stanchi non rientra nelle possibilità di vita. Nelle possibilità di una vita performativa, che deve ottenere prestazioni sempre migliori, raggiungere standard sempre più alti. Non c’è mai tregua: «Nel mio ufficio si fa a gara a chi fa più tardi e resiste di più. Come faccio a licenziarmi adesso, quando ho finalmente un lavoro con un contratto a tempo indeterminato? Chi si vaccina deve lavorare lo stesso, nemmeno il vaccino permette un giorno di sospensione dalla catena di montaggio, in tanti nascondono la positività per non perdere soldi». Anche la relazione affettiva, allora, diventa una performance: sono così stanco che ho solo bisogno di dormire, ma se il partner mi chiede di stare con me non posso dirlo nemmeno a lui, che sono stanco.
«Ho visto persone che di solito non fanno che stralavorare – ai ritmi di Milano – e che nel primo lockdown si erano abbandonate a un assoluto non fare. Non aprivano più nemmeno le ante della finestra, si erano sentite liberate, adesso che l’esterno era stato azzerato. Anche se l’esterno penetra nella tua intimità anche nel silenzio».
Un anno dopo, nulla è cambiato. A Milano si è ripreso a lavorare quattordici ore al giorno come prima, e quel manager ha ripreso la sua vita in cui la stanchezza è un tabù, in cui la prestazione e il raggiungimento degli standard sono ciò che determina i ritmi della vita, in ogni istante della giornata, senza distinguere tra giorno e notte, tra tempo feriale e tempo festivo. «Insonnia, risvegli notturni, attacchi di panico la domenica sera, crisi matrimoniali e familiari, mi pare di distribuire parole banalmente assennate quasi sperando che possano sortire un effetto di pillole: sempre più spesso arrivo a consigliare ansiolitici blandi mentre mi pare di stare in un reparto di malati di lavoro. La mansione non fa la differenza: l’avvocatessa o il ristoratore, l’informatico o la giornalista, l’insegnante o l’impiegato al call center: il lavoro è diverso, lo stress è lo stesso. E segue una curva esponenziale».
Incertezza. Ansia. Possibilità.
«Sono sul lastrico», ha detto Carmen. Ha usato proprio questa espressione, «sul lastrico», come un corpo morto gettato violentemente fuori da una casa, senza più riparo, un corpo morto caduto dall’alto che resta lì inerte, irremovibile e irredimibile. Carmen è una giovane donna che a Milano ha sempre dovuto fare da sola, e far da sola in una città come Milano non ti lascia requie né respiro e, se ti va male, non ti lascia scampo. Con i tanti lavori che ha fatto si è sempre pagata l’affitto: adesso ha perso il lavoro, e tutto è collassato. Il suo ultimo lavoro lo aveva trovato in una scuola di yoga, che con la pandemia ha chiuso per molti mesi, e adesso non ha più i soldi per l’affitto. Il resto precipita a ruota: gli amici, la sua relazione, la sua identità. Poi, tutto sembra rinascere: incontra un uomo, una grande storia d’amore improvvisa, e si trasferisce a Roma. Il tempo della crisi le ha donato una possibilità che prima non c’era. «Del resto», dice Nicole, «è sulla possibilità che nasce la psicoanalisi. Freud vede possibilità dove le possibilità non sembrano esserci». L’incertezza può produrre ansia, ma anche possibilità. «Questo lo vedi anche nella quantità inedita di donne incinte che arrivano nel mio studio. Ricordo quando entrai a Sarajevo il giorno in cui tolsero i cavalli di Frisia, alla fine dell’assedio: dove mi voltavo, vedevo donne incinte. Figlio significa futuro, e molte coppie hanno deciso di mettere il loro focus sul futuro, sulla propria potenza creativa: in questo momento sono bloccato ma posso fare un figlio, posso essere un soggetto. Al di là dei dati, questa è una grande metafora». In questa scoperta dei possibili, allora, non sono pochi quelli che decidono di cambiare vita. È noto quanti siano coloro che, dopo la pandemia, hanno preso questa crisi come opportunità.
Un anno dopo, Nicole mi dice che per Carmen non è finita bene. Ci ha provato, ma l’instabilità sociale ha reso instabile anche lei – posta la sua storia problematica, una storia familiare pesante – lo sregolamento emotivo è tornato fuori in maniera troppo intensa, e non l’ha retto. Nel suo articolo dedicato al normalessere, Nicole ha scritto: «La pandemia ha crivellato il disagio nella civiltà, interrompendo la continuità, ha eroso le abitudini e gli stili di vita. Nemmeno gli psicologi più ortodossi parlano più di patologia, è la collettività che pare regredita a un disturbo pervasivo dello sviluppo nella difficoltà di interazione e comunicazione, interessi e attività. Tutte le età sono incluse – tra le voci rappresentative del paniere quest’anno l’Istat ha aggiunto la psicoterapia individuale. Il fuori casa, la scuola e il posto di lavoro non sono più né luoghi né non luoghi, ma siti dove la socialità a rischio trasmette la sensazione di essere ancora più isolati. E la famiglia italiana, considerata tradizionalmente dai sociologi un cuscinetto capace di assorbire le crisi, non può rappresentare il sostituto del mondo, come mostra lo sconforto adolescenziale».
In un’intervista all’Espresso, Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Ospedale Bambino Gesù, alla richiesta delle motivazioni della crescita drammatica di autolesionismo e tentativi di suicidio tra gli adolescenti, ha dato una risposta che sembra un manifesto di una concezione del disagio psichico che ne pone le basi nella dimensione organica. «Le motivazioni non sono così determinanti», ha detto. «È un atteggiamento figlio di uno psicologismo vecchia maniera: se arrivi in pronto soccorso con l’infarto, ti importa poco sapere il perché: quello che conta è essere curato. Le cause sono importanti ma secondarie. Le malattie mentali sono malattie, hanno una base biologica e sono il risultato di processi lunghi. La familiarità è il primo fattore di rischio. La leggenda del trauma di psicanalitica memoria è stata ridimensionata da un pezzo. Dobbiamo iniziare a pensare ai disturbi mentali come a vere e proprie malattie, come lo sono il diabete e l’ipertensione, con una base biologica e genetica e fattori ambientali che possono favorirne la comparsa». Nelle sue parole, riprese da Repubblica con grande evidenza, viene in luce con estrema chiarezza il lessico della psichiatria egemone, quella organicistica e medicalizzante, di cui abbiamo scritto prima. Il concetto biologico-genetico di «malattia mentale» è così nuovo che «dobbiamo iniziare» a pensare in questo modo, o invece è esso stesso non solo divenuto egemone, ma già vecchio e superato?
La teoria dello «squilibrio chimico», per esempio, entrata nel senso comune, è totalmente invalidata dal punto di vista scientifico. E sono le stesse ricerche neuroscientifiche a dirci che «il trauma di psicanalitica memoria» è tutt’altro che una leggenda. Le scienze, oggi – ci torneremo –, ci mostrano la necessità di ripensare questo modello organicista, e di pensare la psiche nella sua natura relazionale, sociale, politica.
E allora il cerchio si chiude: il tempo della pandemia fa davvero emergere in piena luce le contraddizioni e le strutture della nostra società. Ed è giunto il momento di chiedersi se questa concezione del disagio psichico sia l’unica possibile. Chiedersi questo significa andare al cuore della politica.
Si tratta dunque di comprendere il disagio psichico, nelle sue varie forme, come un sintomo sociale, e specificamente come sintomo della «società degli individui». Già Freud e Jung, del resto, avevano affermato una stretta correlazione tra la dimensione sociale e quella «individuale»: non che il soggetto sia banalmente, deterministicamente, prodotto di un ambiente sociale e culturale, ma che esso sia continuamente, da sempre, traversato da dinamiche che lo costituiscono in quanto soggetto. Dinamiche transindividuali, ovvero «sociali». Bisogna smettere di pensare all’individuo, che in quanto ente separato, autonomo e autofondato non esiste, e pensare al con-dividuo, un ente traversato da processi sia biologici che psicosociali, in continua trasformazione.
Non si tratta certo di negare che possa esservi anche una componente biologica nella sofferenza mentale, ma essa è in genere intramata alle componenti familiari e sociali. Ed è dei punti di intersezione tra sofferenza psichica e dimensioni sociali e sociofamiliari che dobbiamo occuparci.
Nello stesso senso, bisogna comprendere come, nella società degli individui, venga concepita e trattata la cosiddetta «malattia mentale»: la psichiatria, nella sua forma applicata, rivela in maniera palese, dispiegandola in norme, istituzioni e pratiche, qual è la concezione egemone del disagio psichico in seguito all’affermazione del modello biomedico-burocratico, farmacologizzante e ospedalizzante, a discapito del modello psicosociale della psichiatria di territorio e di comunità, quella che aveva dato corpo alla riforma di Basaglia.
Perciò mi sono messo ad ascoltare tante voci diverse, tante prospettive, per comprendere la natura del disagio psichico contemporaneo e in che modo ci racconta la natura più intima della nostra epoca. Ho interrogato psichiatri, psicoanalisti di diverse prospettive (freudiani, lacaniani, junghiani, sistemico-relazionali, cognitivisti), sociologi, filosofi, operatori di comunità, medici di base, per cercare di mappare un territorio, per cercare di comprendere qualcosa che riguarda tutti, i cosiddetti soi-disant «sani» non meno che i cosiddetti «malati». E mi sono messo ad ascoltare storie.
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