Vaghezza, infinito e nulla: un florilegio di passi tratti dallo Zibaldone di Leopardi.
IN COPERTINA un’opera di Lorenzo Lotto
Questo testo è tratto da Meditazioni scismatiche di Gino Zaccaria. Ringraziamo Olschki per la gentile concessione.
di Gino Zaccaria
69
Oh infinita vanità del vero!
180-182
… E il desiderio del piacere essendo una conseguenza della nostra esistenza per se, e per ciò solo infinito, e compagno inseparabile dell’esistenza come il pensiero, tanto può servire a dimostrare la spiritualità dell’anima umana, quanto la facoltà di pensare. …
… Esistenza – amore dell’esistenza (quindi della conservazione di lei, e di se stesso) – amor del piacere (è una conseguenza immediata dell’amor proprio, perché chi si ama, naturalmente è determinato a desiderarsi il bene che è tutt’uno col piacere, a volersi piuttosto in uno stato di godimento che in uno stato indifferente o penoso, a volere il meglio dell’esistenza ch’è l’esistenza piacevole, invece del peggio, o del mediocre ec.) – amore dell’infinito.
644
L’orrore e il timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno…
1930
-->Posteri, posterità, (e questo più perchè più generale) futuro, passato, eterno, lungo in fatto di tempo, morte, mortale, immortale, e cento simili, son parole di senso o di significazione quanto indefinita, tanto poetica e nobile, e perciò cagione di nobiltà, di bellezza ec. a tutti gli stili. (16. Ott. 1821.)
2242-2243
Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s’ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un’usanza, un metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura ec. o una fatica, o se l’esser finita, non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove per suo fine mirava ec. Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita. La cagione di questi sentimenti, è *quell’infinito che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più. (10. Dic. 1821.). V. p.2251.
2251-2252
Alla p.2243. Tutto ciò che è finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre naturalmente nell’uomo un sentimento di dolore, e di malinconia. Nel tempo stesso eccita un sentimento piacevole, e piacevole nel medesimo dolore, e ciò a causa dell’infinità dell’idea che si contiene in queste parole finito, ultimo ec. (le quali però sono di lor natura, e saranno sempre poeticissime, per usuali e volgari che sieno, in qualunque lingua e stile. E tali son pure in qualsivoglia lingua ec. quelle altre parole e idee, che ho notate in vari luoghi, come poetiche per se, e per l’infinità che essenzialmente contengono.)
(13. Dic. 1821.). V. p.24510.
2451
Alla p.2252. *L’idea dell’eternità entra in quella di ultimo, finito, passato, morte, non meno che in quella d’infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio pensiero già scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p.2242. 2251.
2629
A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec. tutte fatte dal greco ἔρημος, aggiungi lo spagnuolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto come il greco ἐρημόω. (3. Ottobre. 1822.). *Queste voci e simili sono tutte poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec.
La vaghezza, il vago, l’indefinito, la lingua
1900-1902
Non solo l’eleganza, ma la nobiltà la grandezza, tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso, consiste, se ben l’osservi, *in un modo di parlare indefinito, o non ben definito, o sempre meno definito del parlar prosaico o volgare. Questo è l’effetto dell’esser diviso dal volgo, e questo è anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò ch’è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico, giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell’insieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime, elevata, magnifica, grandiloquente. *La vera nobiltà dello stile prosaico, consiste essa pure costantemente in non so che d’indefinito. Tale suol essere la prosa degli antichi, greci e latini. E v’è non pertanto assai notabile diversità fra l’indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec. *Quindi si veda come sia per sua natura incapace di poesia la lingua francese, la quale è incapacissima d’indefinito, e dove anche ne’ più sublimi stili, non trovi mai altro che perpetua, ed intera definitezza. Anche il non aver la lingua francese un linguaggio diviso dal volgo, la rende incapace d’indefinito, e quindi di linguaggio poetico, e poiché la lingua è quasi tutt’uno colle cose, incapace anche di vera poesia. Nè solo di linguaggio poetico, ma anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico, ch’è proprio degli antichi, e fra tutti i moderni degl’italiani (degli spagnuoli ancora, e de’ francesi prima della riforma), e che ho specificato qui dietro. (12. Ott. 1821.).
2288
La lingua latina così esatta, così regolata, e definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la stessa natura loro, e del linguaggio latino, sono di significato così vago, che a determinarlo, e renderlo preciso non basta qualsivoglia scienza di latino, e non avrebbe bastato l’esser nato latino, *perocch’elle son vaghe per se medesime, e quella tal frase e la vaghezza della significazione sono per essenza loro inseparabili, nè quella può sussistere senza questa. Come Georg. 1.44.
2805
Io considero quest’uso come parte di quel vago, di quell’indefinito ch’è
la principal cagione dello charme dell’antica poesia e bella letteratura. 2809
Qual grata illusione senza il vago e l’indefinito?
3248
Per lo contrario accade nelle lingue de’ climi meridionali, dove gli uomini sono per natura molli e inchinati alla pigrizia e all’oziosità, e d’animo dolce, e vago de’ piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond’egli è proprio carattere della pronunzia non meno che della lingua p.e. tedesca, la forza, e dell’italiana la dolcezza e delicatezza.
3253-3254
Una lingua strettamente universale, qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità e per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più impropria all’immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la più da lei per ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata e morta, che mai si possa concepire; uno scheletro un’ombra di lingua piuttosto che lingua veramente; una lingua non viva, quando pur fosse da tutti scritta e universalmente intesa, anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più non si parli nè scriva. Ma si può pure sperare che perchè gli uomini sieno già fatti generalmente sudditi infermi, impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati, languidi, e miseri della ragione, ei non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati della geometria. E quanto a questa parte di una qualunque lingua strettamente universale, si può non tanto sperare, ma fermamente e sicuramente predire che il mondo non sarà mai geometrizzato, non meno di quel che si possa con certezza affermare ch’ei non ebbe una tal favella mai, se non forse quando gli uomini erano così pochi, e di paese così ristretti, e niente vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, che la lingua era universale solo perciò che più d’una nazione d’uomini, almeno parlanti, non v’aveva, onde universale era la lingua perch’era una al mondo, nè altra lingua mai s’era udita, ed una era e sempre era stata la lingua, perchè una sempre la nazione infino allora, o una, se non altro, la nazione che di lingua avesse uso e notizia. (23. Agosto. 1823.)
3909-3910
Alla p.3310. Quanto influisca sempre l’immaginazione, l’opinione, la prevenzione ec. sull’amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare ha forza sull’amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale verso gl’individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a rendere poco noto all’amante l’oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò moltissimo contribuisce all’amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che ha relazione ai pregi o alle qualità comunque amabili dell’animo nell’oggetto amabile, e in particolare un certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l’animo e le sue qualità, e massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all’altre persone, *e dan luogo in queste all’immaginare, ai concetti vaghi e indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al natural desiderio che porta l’individuo dell’un sesso verso quello dell’altro, danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente il piacere che si prova nel soddisfarlo; *le idee misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all’animo dell’oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito, e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell’incerto, e che promettano o dimostrino altre lor parti o altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico, congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale dell’oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.
3975-3976
*In Omero tutto è vago, tutto è supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e nella maggior forza ed estensione del termine; incominciando dalla persona e storia sua, ch’è tutta involta e seppellita nel mistero, oltre alla somma antichità e lontananza e diversità de’ suoi tempi da’ posteriori e da’ nostri massimamente e sempre maggiore di mano in mano (essendo esso il più antico, non solo scrittore che ci rimanga, ma monumento dell’antichità profana; la più antica parte dell’antichità superstite), che tanto contribuisce per se stessa a favorire l’immaginazione. *Omero stesso è un’idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche dubitato e si dubita ch’ei non sia stato mai altro veramente che un’idea. (12. Dec. 1823.). Il qual dubbio, stoltissimo benchè d’uomini gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch’io dico. (12. Dec. 1823.)
4293
Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. *è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze. (21. Sett. 1827.)
4426
Alla p.4415. Dante, dal quale egli (il Monti) tolse l’arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l’arte più notabile ancora, che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri.
(Recanati 13. Dic. 1828.)
Un oggetto qualunque, p.e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; *e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.). V. p. seg. e p.4471.
4427
L’uso, comune a tante antiche (e moderne) nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne’ templi, e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb’egli per sua origine (come tante altre pratiche religiose dell’antichità, derivate, quali evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare, da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse lasciato spegnere? (1. Del 1829.).
4471
Se gli scrittori conoscessero personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente, nè forse pure scriverebbero. Il considerarli coll’immaginazione confusamente e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o stima ec. (10. Marzo. 1829.).
(…)
Alla p. 4365. Certo, siccome la letteratura e le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d’uso, tanto che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero, chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima, eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina (limosina, limosinare ec.), accidia ec. (10. Marzo. 1829.), angelo, arcangelo, demonio, diavolo, patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire, martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia (resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, *eremo (ermo ec. eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec.
L’infinità, il canto, la poesia, l’arte
100
È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. (V. p.86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l’arte e l’affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, *è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre p.e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gen. 1820.)
257-258
*Ma l’entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse volte gli uomini di genio, all’udire una musica, allo spettacolo della natura ec. non è favorevole in nessun modo all’invenzione del soggetto, anzi appena delle parti, *perchè in quei momenti l’uomo è quasi fuor di se, si abbandona come ad una forza estranea che lo trasporta, non è capace di raccogliere nè di fissare le sue idee, tutto quello che vede, è *infinito, indeterminato, sfuggevole, e così vario e copioso, che non ammette nè ordine, nè regola, nè facoltà di annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro e completo, e molto meno di saisir un punto (vale a dire un soggetto) intorno al quale possa ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni che prova, le quali non hanno nessun centro.
384
Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi *esclude l’infinito.
472-473
Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa *è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un’impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l’anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole. (4. Gen. 1821.).
610
Neanche l’amor proprio è infinito, ma solamente indefinito. Non è infinito, dico io non già secondo l’origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che dio è infinito, perché contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l’infinità. Laddove sebbene l’uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l’amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, *contuttociò l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito, e in questo senso dico io che l’amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l’animo nostro abbia niente d’infinito, non più che quello di qualsivoglia animale. E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata infinità dell’amor proprio. Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell’infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall’amor proprio infinito, o senza limiti nè misura. (4. Feb. 1821.).
631
Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: *chè dall’esistenza nel nulla, come dal nulla nell’esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
714-716
Spesse volte il troppo o l’eccesso è padre del nulla [qui inteso come mero annientamento]. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell’eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L’eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l’indolenza e l’inazione, anzi l’abito ancora dell’inattività negl’individui e ne’ popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p.620 fine – 625 principio. Il poeta nel colmo dell’entusiasmo della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All’aspetto della natura, mentre tutta l’anima sua è occupata dall’immagine dell’infinito, mentre le idee gli si affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria né di pratica. *L’infinito non si può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell’infinito, l’animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l’infinito non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono. Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch’egli è sommo; ma la sua proprietà, è di render l’uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l’animo in guisa, ch’egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l’oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire, interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de’ momenti, e per parti, come ho detto p.366-368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l’animo nostro non sia capace di contenerla tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la grande gioia.
1025-1026
Sebben l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. *Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l’infinità, o l’indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: *perchè ogni qualunque facoltà dell’animo nostro finisce assolutamente sull’ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia.
1430-1431
*Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; *e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, *produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec. (1. Agosto. 1821.).
1574
Fra tutte le letture, quella che meno lascia l’animo desideroso del piacere, è la lettura della vera poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo *d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo mondo.
2386-2387
La lingua italiana ha un’infinità di parole ma soprattutto di modi che nessuno ha peranche adoperati. – Ella si riproduce illimitatamente nelle sue parti. Ella è come coperta tutta di germogli, e per sua propria natura, pronta sempre a produrre nuove maniere di dire. – Tutti i classici o buoni scrittori crearono continuamente nove frasi. Il vocabolario ne contiene la menoma parte: e per verità il frasario di un solo di essi, massime de’ più antichi ec. formerebbe da se un vocabolario. *Laonde un vocabolario che comprenda tutti i modi di dire, ottimi e purissimi, adoperati da’ classici italiani, e dagli stessi soli testi di lingua, sarebbe impossibile. Quanto più uno che comprendesse tutti gli altri egualmente buoni che sono stati usati, o che si possono usare in infinito! Usarli dico e crearli nuovamente, e nondimeno con sapore e natura tutta antica: anzi non la moderna, ma la sola antica lingua italiana possiede ed è capace di questa fecondità. – *Deducete da ciò l’ignoranza di chi condanna quanto non trova nel Vocabolario. E concludete che la novità de’ modi è così propria della lingua italiana, e così perennemente ed essenzialmente, ch’ella non può conservare la sua forma antica, senza conservare in atto la facoltà di nuove fogge. (5. Feb. 1822.)
2451
Alla p.2252. L’idea dell’eternità entra in quella di ultimo, finito, passato, morte, non meno che in quella d’infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio pensiero già scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p.2242. 2251.
2936-2938
[Sul nascondimento]
Le cose ch’esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè
anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. *E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l’esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell’esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch’esistono. Pochissimi de’ quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell’esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo. (10. Luglio. 1823.)
3500
Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perchè, s’è dichiarato altrove), *quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de’ viventi.
3977-3978
Alla p.3927. Questa moltiplicità incalcolabile di cause e di effetti ec. nel mondo morale non deve nè parere assurda o difficile ad ammettersi nè far meraviglia a chi consideri com’ella si trova evidentemente, e del pari infinita e incalcolabile nel mondo fisico. Nè la medicina, nè la fisiologia, nè la fisica, nè la chimica, nè veruna anche più esatta e più materiale scienza che tratti delle più sensibili e meno astruse parti ed effetti della natura, non possono mai specificare nè calcolare nemmeno per approssimazione, se non in modo larghissimo, nè il numero nè il grado e il più e il meno, nè tutti i rapporti ec. delle infinite diversità di effetti che secondo le infinite combinazioni e rapporti scambievoli ec. e influenze e passioni scambievoli ec. che possono avere ed hanno effettivamente luogo, risultano dalle cause anche più semplici più poche e limitate, che dette scienze assegnano; nè le infinite modificazioni di cui dette cause, secondo esse combinazioni, sono suscettibili, ed a cui sono effettivamente soggette. E non per tanto, almeno in grandissima parte, esse cause non si possono volgere in dubbio, e nessuno dalla detta impossibilità di specificare e calcolare esattamente e pienamente, risolve ch’esse cause non sieno le vere, e moltissime sono evidenti e sotto gli occhi, e così il loro modo di agire, le loro relazioni cogli effetti ec., i quali tuttavia non sono più calcolabili nè numerabili. Basti solamente osservare le cause e gli effetti che agiscono ed hanno luogo nel corpo umano, e le infinite diversità ed anche contrarietà che per differenze, sovente impercettibili, di combinazioni, hanno luogo negli accidenti e passioni d’esso corpo anche in individui conformissimi, in un tempo medesimo, in circostanze che possono parere conformissime, [3978] in un medesimo individuo ec. Nè per tanto si può dubitare di quelle cause, purchè d’altronde ec. nè se ne dubita, nè si condannano quei sistemi e quei metodi ec. de’ quali in quanto a questo particolare niuno uomo potrebbe pensarne o usarne un migliore. (12. Dec. 1823.)
4177-4178
Alla p. 4142. *Niente infatti nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori di noi, del nostro mondo ec., delle forze inconcepibilmente maggiori delle nostre, dei mondi maggiori del nostro ec. Ciò non vuol dire che esse sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze (sia d’intelligenza, sia di forza, sia d’estensione ec.) che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era incomparabilmente maggior di noi e delle cose nostre che sono minime, noi l’abbiam creduto infinito; *quasi che al di sopra di noi non vi sia che l’infinito, questo solo non possa esser abbracciato dalla nostra concettiva, questo solo possa essere maggior di noi. Ma l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno ben negato), e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, *l’infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa ec. (Bologna 1. Maggio. Festa dei SS. Filippo e Giacomo. 1826.). Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti. (2. Maggio 1826.). V. p.4181. e p.4274. capoverso ult.
4181-4182
Alla p.4178. fine. L’ipotesi dell’eternità della materia non sarebbe un’obbiezione a queste proposizioni. L’eternità, il tempo, cose sulle quali tanto disputarono gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti che lo spazio, altro che un’espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna, e nulla perciò vi sarebbe d’infinito. Ciò non vorrebbe dire altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato e sempre sarà. *Qui non vi avrebbe d’infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe nè l’esistenza nè la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste nè può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma *che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua. (Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.).
4274-4275
Perchè l’esistenza dell’universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l’universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l’avesse potuto creare. *La quale infinità dell’universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). *Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?
4292
*Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia. *Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que’ corpi ch’io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito. Ma come poi si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti, così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell’universo, l’assemblage di tutti i globi, il qual ci pare infinito per la stessa causa, cioè perchè non ne vediamo i confini e perchè siam lontanissimi dal vederli; ma la cui vastità del resto non è assoluta ma relativa; abbia in effetto i suoi termini. Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero. (20. Sett. 1827.).
13.4. L’infinito, la luce, il suono (cenni alla stagliatura) 1744-1747
*Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce p.e. un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; *tutti quegli oggetti in somma che per diverse materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. *A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746] i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello *dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. *È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec. che l’animo non possa determinare, nè concepire definitamente e distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran numero di formiche, o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. (20. Sett. 1821.).
1927-1930
*Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, *un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; *un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l’udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’è più sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. *Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ec. Perocchè l’eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte ec. ec. *E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole dell’argomento ec. V. in questo proposito Virg. Eneide 7. v.8. seqq. La notte, o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata. (16. Ott. 1821.)
L’etimo del nulla
2306-2312
Alla p. 1283. principio. Io sospetto di aver trovato effettivamente questa radice hil nell’antichissimo latino. Osservate. Nihilum, è quasi ne hilum, dice il Forc. e seco gli etimologi. V. anche il Forcell. in Per hilum. E non v’è questione perocchè Lucrezio dice neque hilo ec. rompendo il composto, in vece di nihiloque, come solevano gli antichi latini, massime i poeti, (come Plauto disque trahere per et distrahere) e questi anche a’ buoni secoli: e così i greci. Nè solo Lucrezio ma altri che v. nel Forc. in Hilum. Della particella privativa ne (cambiata nella composizione in ni) vedi il Forcell. in ne, e in nego. Potrebbe anche essere un nec, come necopinans ec. significa non opinante ec. e il nec non è che particella privativa come l’α dei greci. V. anche lo Scapula in νὴ, particella parimente privativa nell’antichissimo greco, del che v. pure Helladii Besantinoi Chrestomathia, colle note del Meursio.
(Nel qual proposito osservo di passaggio. La n è radicale e caratteristica della negativa in latino, e così pure per conseguenza in italiano. Quindi non, ne, nec, neque, (v. il Forcell.) nihil, nil, nemo, nullus cioè non ullus, come pure si dice, nego, nefas, nequam, nepus cioè non purus, nolo, nequeo, nequicquam, nedum, nequaquam ec. de’ quali v. il Forcell. ed osserva la forza e l’uso della particella ne in composizione. Non così nel linguaggio greco dei buoni secoli. Giacchè οὐ, οὐχ, οὐκ, μὴ, ἀ ec. non hanno n. Eppure nell’antichissimo greco è chiaro per le sullodate testimonianze, e per l’uso di Omero ec. che la ν avea forza di negazione, privazione, ec. Ecco un’altra prova e della fraternità antichissima delle dette due lingue, e dell’esser forse qualche cosa passata piuttosto dal latino nel greco, che viceversa; o certo dell’avere la lingua latina conservate assai più della greca le sue antichissime ed originarie proprietà. E notate che trattandosi della caratteristica negativa, si tratta di cosa primitiva affatto, e di primissima necessità in qualunque lingua.) Nihilum pertanto è ne hilum, come nemo, ne homo, e v. il luogo di Varrone nel Forcell. in Nequam.
Che cosa significasse questo hilum, antichissima voce latina, non sanno affermarlo i gramatici. Putant esse, dice Festo, quod grano fabae adhaeret. Dunque egli non sa propriamente che significhi, nè si sapeva al suo tempo. Ed è cosa ben naturale quando tante parole di Dante e d’altri trecentisti o duecentisti (meno lontani da noi, che le origini della lingua latina da Festo) sono o di oscurissima e incertissima, o di perduta significazione.
*Io credo che esso non significhi altro che materia, o cosa esistente (che per li primitivi uomini non poteva essere immaginata se non dentro la materia, ed estendi questo pensiero.). E penso che sia nè più nè meno la ὕλη dei greci, ossia quell’antichissimo hilh o hulh che abbiamo detto.
*Vogliono che nihil, sia troncamento di nihilum. Al contrario a me pare che nihilum sia parola così ridotta da nihil, perchè divenisse capace di declinazione. Che troncamento barbaro sarebbe stato questo, e quanto contrario al costume latino, se da nihilum primitivo, avessero fatto nihil! e non piuttosto viceversa, che è naturalissimo. Addolcendosi la favella (massime quelle del gusto meridionale, del gusto della latina) non si troncano, anzi si aggiungono appunto allora le terminazioni, e si proccura inoltre di render declinabili, cioè modificabili secondo le diverse occorrenze del discorso, le voci che già esistono; e non per lo contrario. Indubitatamente per tanto non nihil da nihilum, ma questo viene da quello. Si dice parimente nil contrazione di nihil, (fatto più volte monosillabo da Lucrezio) ma nilum per nil si trova in Lucrezio appena una volta, e chi sa s’è vero, e che non sia errore in vece di nihilum dissillabo. In ogni modo è costante presso il più sciocco etimologo che le terminazioni non vanno calcolate, ed è chiaro che le sole radicali di nihilum, i, o, ec. sono nihil; di hilum, hil. E di questo secondo, la cosa è tanto più manifesta, quanto che abbiamo appunto da esso, nihil, e nil, senza la terminazione declinabile.
*Eccoci dunque con questo hil nudo e manifesto nelle mani, e se attenderete alle cose dette di sopra, e se avrete niente di spirito filosofico, vedrete quanto sia naturale e probabile che siccome ne homo cioè nemo, vuol dire nessuna persona, così ne hil cioè nihil volesse dire primitivamente nessuna materia, cioè nessuna cosa (v. p.2309. mezzo, e i miei vari pensieri sulla necessaria e somma materialità di tutte le primitive lingue, e di tutte le primitive idee umane, anzi non pur delle primitive, ma di tutte le idee madri ed elementari); ovvero non materia, non cosa, cioè, insomma, e formalmente ed espressamente, nulla. (Così i greci οὐδέν neque unum ec. non quidquam μηδέν, οὔτι, μήτι ec.)
Non vi par ella naturalissima questa etimologia? Non vi par dunque probabilissimo che l’antico e quasi ignoto hilum volesse dir materia, e fosse tutt’una radice con ὕλη e silva adoprata pur essa in senso di materia? Non è chiaro che l’um in hilum non è radicale, ma declinabile ec. e per conseguenza la radice è solamente hil, massime che da hilum abbiamo nihil e nil, parole inverisimili, e strane e mostruose se fossero un’apocope ec.? Non abbiamo dunque probabilmente trovato in realtà nell’antichissimo latino la semplicissima radice di silva? di ὕλη, ec.?
Osservate che in questo caso si renderebbe verisimile che il primitivo e proprio senso ὕλη silva ec. fra quelli ch’essi realmente hanno, fosse quello di materia.
Non so se possa fare al caso l’osservare che noi diciamo filo per nulla, il che potrebbe derivare non da filum [ma] da hilum, mutato l’h in f, come viceversa gli spagnuoli, onde appunto per filum dicono hilo. E ricordati di quanto ho detto circa l’antica proprietà della f, cioè di essere aspirazione. Del resto v. la Crusca, il Glossar. i Diz. franc. e spagn. ec. e il Forc. in filum, se avesse nulla. (30. Dic. 1821.).
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