Il giardino filosofico che ci circonda

Tutte le idee, e le filosofie, attorno all’idea di giardino e di natura controllata dall’uomo. In una carrellata potenzialmente infinita.


In copertina e nel testo opere di Gerald Cooper

di Lavinia Mainardi

Iscrivere l’iperoggetto giardino nel perimetro dell’attuale dibattito filosofico, oltre a rappresentare una sorta di avventurosa mise en abyme, derivando la parola giardino dal tedesco gartenche letteralmente significarecinto”, implica una demarginalizzazione in grado di imparentarlo ad alcune questioni molto attuali.

Se il termine “Paradisoderiva – attraverso la mediazione greca e latina – dal persiano “pairidaeza”, ovvero luogo recintato e conchiuso, non stupisce come la connessione con l’Eden abbia costituito una costante nella storia dei giardini, dalla Bibbia all’Epopea di Gilgamesh, dai Campi Elisi al Purgatorio dantesco, fino all’ “eterotopia felicedi Michel Foucault.

Tuttavia, volendo concentrare l’attenzione sulla commistione di filosofia, antropologia, estetica ed iconografia, la nostra attenzione andrà a posizionarsi su alcuni temi in grado di porsi come collegamento fra una visione pre-moderna come quella del Cinquecento manierista e alcuni grumi ermeneutici individuati nell’incontro di due visioni, la “Plantnessed il “Jardinisme”, quali poli di una medesima intenzione cui è finalizzato quest’itinerario, ovvero la sostituzione del “dualismo cartesiano in “terzeità”: Terzo Paesaggio, Terza Natura, Terzo Paradiso, nel tentativo di declinarli in una prospettiva eco-politica che fa del giardino il simbolo di tali fertili incroci. 

Alla base di quest’approccio è senza dubbio l’urgenza del superamento dei dualismi insiti nella cultura antropocentrica occidentale, colpevole anche della deriva che ci ha portato a mercificare il vivente, urgenza che permea da un lato la discendenza francese dell’antropologia levistraussiana, con la ricerca inesausta di Philippe Descola e il pensiero di Bruno Latour da un lato, dall’altro una cultura più radicale e multidisciplinare rappresentata dalle figure di Donna Haraway, Val Plumwood, Isabelle Stengers, Karen Barad, Vinciane Despret, fra le protagoniste dell’ ecofemminismo, senza dimenticare il prospettivismo cosmologico del brasiliano Eduardo Viveiros De Castro, cui molto deve la riscoperta delle culture amerindie. Scrive Davi Kopenawa, attivista yanomami, in “Lo spirito della Foresta”: “Ciò che voi chiamate la natura nella nostra lingua è urihi a, la terra-foresta e anche la sua immagine che vedono gli sciamani, Urihinari a. Gli alberi sono vivi perché esiste quest’immagine… lo spirito della foresta, gli spiriti degli alberi… la terra della foresta possiede un soffio vitale wixiase non viene disboscata, la foresta non muore”.

Immersi nella flagranza di tali visioni è facile comprendere come la ricerca sul campo presso le comunità degli indiani Jivaro-Achuar abbia permesso a Philippe Descola la stesura di un testo paradigmatico quale “Oltre natura e cultura”, la cui tesi di fondo è il superamento della dicotomia fra qualità primarie diciamo oggettive e qualità secondarie relative alle conoscenze del soggetto, a favore di un processo di “mondiazione”, vale a dire la possibilità di attualizzare o meno “un vasto insieme di qualità e relazioni”, eliminando la differenza ontologica fra umano e non-umano che ha caratterizzato il moderno naturalismo occidentale.

La prospettiva di Donna Haraway è molto meno accademica e aperta a plurime contaminazioni, ma al pari di Descola imputa ai dualismi delle categorie ontologiche e culturali la nostra incapacità, politica in primis, di una società paritetica e giusta dove si attui un rapporto non conflittuale con il non-umano che ci circonda. Ad Haraway si deve anche una speciale attenzione per le realtà ibride, i cyborg cui attribuisce la capacità di stressare e superare la ristretta concezione dicotomica che permea la nostra visione occidentale. È in “Staying with the trouble: Making kin in the Chthulucenedel 2016, che diviene centrale la necessità (legata alla sopravvivenza del pianeta) di fare parentela, ovvero condividere senza gerarchie le potenzialità del vivente.

L’ibridazione di natura e cultura era già stata anticipata negli anni novanta del Novecento dal saggio “Non siamo mai stati moderni” di Bruno Latour, in cui si evidenziava, in estrema sintesi, il tentativo – fallito – dalla weltanschauung occidentale di separare il naturale dal sociale, senza comprenderne la continua commistione, relegando quindi la presunta modernità ad una idealizzazione sovrastrutturale mai compiuta e soprattutto incapace di comprendere la complessità di molti fenomeni in via di emergenza, tesi che tornerà, attraverso una problematica riattualizzazione dell’ipotesi di James Lovelock e Lyn Margulis, ne “La sfida di Gaia”, in cui solo una interconnessione di attanti, una rete di agencies potrà contrapporsi alla crisi antropocenica e antropocentrica degli ecosistemi.

Una tale griglia concettuale viene evocata da Emanuele Coccia, nell’introduzione a uno dei piú significativi testi della Plantness – neologismo coniato da W. Marshall Darley per indicare lo spostamento del baricentro dal mondo animale a quello vegetale. Nell’introduzione a “Come pensano le foreste” di Eduardo Kohn, uno dei manifesti del riscatto del non-umano, scrive: “alle tendenze egotiste della tradizione cartesiana, che ha fatto della coscienza un monolocale psichico…l’antropologia ha sostituito un carnevale planetario in cui l’io penso è diffratto, diffuso tra tutti i popoli e tutte le culture, oltre qualsiasi rivendicazione di privilegio della modernità…negli ultimi decenni – aggiunge Emanuele Coccia – l’antropologia si è data un ulteriore scopo: quello di far entrare in questo teatro forme di vita diverse da quella umana”.

Nessuno ha saputo cogliere meglio tale consapevolezza nel Jardinisme, definizione coniata da Jean-Pierre Dantec per riassumere in un’unica disciplina quella commistione di storia dell’arte, storia dell’architettura, orticoltura, composizione e arte dei giardini, resasi indipendente solo recentemente attraverso un più attento studio delle fonti e la constatazione che nel suo sviluppo la cura del giardino ha sempre avuto uno statuto liminale fra le antiche arti meccaniche, ovvero fra tecnica e prassi e arti liberali, di Gilles Clément.

Attraverso la lettura di “Je chemine avec Gilles Clément”, sorta di autobiografia in forma di dialogo e dell’evocativo “Ho costruito una casa da giardiniere”, seguiamo da vicino l’apprendistato del filosofo-giardiniere, attraverso la metafora della costruzione della casa-giardino della Vallée nella Creuze, archetipo di un ritorno consapevole al sogno infranto di un’infanzia finalmente liberata da una visione familiare tarpante.

Riviviamo gli anni dei viaggi giovanili, l’incontro con culture altre, soprattutto sudamericane, gli studi all’ École du paysage, il bando del 1985 per la realizzazione del Parc André Citroên -riqualificazione della dismessa area degli stabilimenti automobilistici – e la successiva progettazione con Patrick Berger, Alain Provost, Jean-Paul Viguier, la pubblicazione nel 1991 de “Il giardino in movimento” e la successiva esposizione nella grande halle de La Villette sul “Giardino planetario”, l’inattesa fama (Clément è nato nel 1943), le committenze e l’elaborazione del concetto di “Terzo Paesaggio”.

Sull’iniziale imperativo di “fare il più possibile con il meno possibile contro” si innesta una concezione sempre più complessa ed organica. Nella conferenza al Collège de France su invito di Philippe Descola, Clément sintetizza l’approdo filosofico cui lo ha portato la sua lunga esperienza: “Il giardiniere interpreta ogni giorno le invenzioni della vita; è un mago”. Il giardino in movimento è dunque una pratica, un rapporto inesausto con e fra la diversità del vivente dove “tutto è in comunicazione con tutto” in un brassage , un meticciato planetario in cui il mondo – recinto arginato dai limiti della biosfera – è un grande, unico giardino.

Già nell’Esposizione sul Giardino Planetario le scenografie di Raymond Sarty avevano dato rilievo iconografico alla convivenza di natura ed estetica attraverso la capacità del giardiniere (demiurgo) di esaltare la perpetua metamorfosi, la mescolanza di diversità, nel superamento di ogni dualismo ontologico, in nome dell’inventio di “altri mondi, altri pensieri, altri immaginari, altre creazioni, altre cosmologie”. È un’esaltazione della natura naturans in cui il giardiniere ha un ruolo creativo. Ma la consapevolezza definitiva che “ogni cosa è effimera e trasformabile” arriverà con il “Manifesto del terzo paesaggio” del 2004, che segnerà il definitivo sorpasso della binarietà del paesaggio, finalizzato alla produzione – come avviene in agricoltura – rispetto alla selvaticità delle foreste. Clément affascinato dalla marginalità, si ispira alla resistenza di quelle che chiama piante vagabonde, alla biodiversità delle friches, “ai bordi delle strade, nei pendii, sulla sommità delle rocce, nelle torbiere”, concetto ispiratogli dall’osservazione del verde intorno al Lago Vessivière nel Limousin, negli interstizi fra boschi e pascoli. L’importante è che il giardino susciti stupore: “Il giardino sembra il solo e unico territorio d’incontro – scrive Gilles Clément – tra l’uomo e la natura dove il sogno sia autorizzato”.

La lettura de “La vita delle piante – Metafisica della mescolanza” di Emanuele Coccia, pubblicato nel 2016, sembra ora schiudere ulteriori implicazioni e potenzialità. Vittime di una separazione operata dalla “macchina antropologica” di ascendenza cartesiana, non riusciamo – scrive Coccia – a capire che le piante sono “l’ornamento cosmico, l’accidente colorato e inessenziale che troneggia ai margini del campo cognitivo”, perché le piante “hanno la capacità di trasformare in corpo vivente l’energia solare diffusa nel cosmo e la materia dissimile e disperata del mondo in realtà coerente, ordinata e unitaria”.

Un principio quindi di animazione, di cui è artefice la vita vegetativa, che Coccia fa derivare dall’aristotelismo dell’antichità e del Medioevo, un principio condiviso da tutto il vivente, tramite il quale “la vita appartiene a tutti” in una “disseminazione di forme”.

Si incrina così uno dei cardini delle scienze naturali ovvero “la priorità dell’ambiente sul vivente, del mondo sulla vita, dello spazio sul soggetto”.

Noi partecipiamo al cosmo attraverso una sorta di respiro, un’immersione nella materia, che si offre così ad una “figurabilità infinita”, un’incessante metamorfosi, perché “generare significa trasformarsi” in un costante atto di “auto-design”. Il richiamo è alle filosofie naturali del Rinascimento, ad una rivalutazione della materia dopo che l’approccio idealistico ha cercato di “far sparire la natura dal dominio della filosofia” in quello che Iain Hamilton Grant chiama “Fisiocidio”. Ecco, dunque, che in questa riattualizzazione “bestie, irrazionali, amentes” diventano non-umani, la filosofia assume connotazioni antropologiche e noi ci scopriamo immersi nel clima:“essenza della fluidità cosmica…infinita mescolanza” unita dalla medesima atmosfera. Come non riandare alle “Nuvole” di Gilles Clément?

Ma è verso la temperie premoderna di ascendenza rinascimentale che occorre virare per comprendere quest’urgenza di vivificazione metamorfica, di indifferenziato (“Furore e non-finito” sembrano essere le chiavi interpretative delle speculazioni di Ficino, Michelangelo e Vasari, sottolinea un recente articolo di Baptiste Tochon-Danguy), una liberazione dalle catene cartesiane ed idealistiche e un’immersione dentro l’“Indeterminato”.

Se poi il Cinquecento fu secolo del Manierismo o dell’Antirinascimento è un’urgenza classificatoria confinabile ad altri contesti.

È attraverso la lettura di Michel Jeanneret e del suo “Perpetuum mobile, Métamorphoses des corps et des oeuvres de Vinci à Montaigne”, che la filosofia improntante l’estetica rinascimentale più eversiva, si disvela in tutta la sua complessità. Il XVI secolo costituisce un momento unico prima dell’instaurazione del “regno della ragione” che sarà dominato dalla scienza, dal limite, dall’imperativo della realtà.

In “un secolo più sensibile all’emergenza della forza che al rigore della forma”, l’origine della conoscenza nasce dallo stupore per il vivente inteso come continua metamorfosi, indagato attraverso una filosofia naturale che si appella ad un “immaginario cosmico” in cui la biologia e la fisica trovano fondamento nel principio di trasformazione: “le mutazioni della materia e la dinamica della creazione diventano così “un modello esplicativo quasi universale”. Emblema di questa visione è Proteo, la filosofia che la guida è trasformativa, il fascino che esercita il caos attiva uno slancio di energia e un inesausto “elemento incoativo” in grado di allontanare il dualismo fra creato e creatore, in un continuo brasaste, quella mescolanza che avevamo già incontrato nel giardino planetario.

Jeanneret rileva l’analogia fra questa impostazione e quella animistica, rintracciando tuttavia nel XVI secolo,“polimorfo e cangiante”, una serie di referenti ben strutturata. In primis la ricezione delle Metamorfosi di Ovidio, la permanenza di saperi altri quale l’alchimia, l’attenzione per le cosmogonie e i miti trasformativi. Poi il “Timeo” di Platone e Lucrezio con il suo materialismo che si esplica in un movimento continuo di aggregazione e disaggregazione, gli scritti ermetici afferibili al contesto dell’accademia neoplatonica di Careggi, fra tutti il “Pimandro”, che attribuisce alla metamorfosi “una valenza metafisica ed occulta”. In quest’orizzonte tutto è animato, si rinnova trasformandosi in un’“economia magica” in cui c’è continua corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo.

Ecco che diventano protagonisti i cicli vegetali, la fluidità: acqua, nuvole, piogge, rocce, fontane sono i protagonisti di programmi iconografici in cui si innestano i mirabilia, spesso oggetti riportati dai viaggi in Oriente e nel Nuovo Mondo, la cui valenza è suscitare, attraverso la curiosità, nuove epistemologie. Epistemologie che inglobano il mostruoso in un’indifferenziata, continua creazione che contamina gli elementi e non emargina l’amorfo, facendone anzi un principio generatore.

Compaiono corpi ibridi, somiglianti ai cyborg”, intersezione di umano, animale, vegetale e minerale, in cui la materia è principio attivatore di continue transizioni e “anatomie flessibili”. Una natura naturans che irrompe nel giardino trasformandone il décor in sauvage, primitivo, fantastico, metamorfico e perfino mostruoso.

In “The Monster in the Garden, the grotesque and the gigantic in Renaissance landscape Design” Luke Morgan, studioso di architettura del paesaggio alla University of Pennsylvania, individua nel mostro, ibrido, difforme, anomalo, smisurato, un tratto costitutivo della cultura rinascimentale che affida alla differenza la sua ansietà. A prova di questa sensibilità Morgan cita un inquietante episodio avvenuto nel 1536 e riportato da Benedetto Varchi, umanista e trattatista della cerchia vasariana, ovvero la dissezione anatomica avvenuta negli Orti Oricellari a Firenze, quindi per analogia all’interno di un giardino, di due gemelle siamesi, ritenute “filosoficamente mostri”.

Una speciale attenzione si deve all’unicità del “Sacro Bosco di Bomarzoi cui riferimenti filosofici sono stati indagati da uno storico dell’arte della profondità di Horst Bredekamp che collega la gestazione del giardino all’eccentrica biografia del suo committente: Vicino Orsini, che alcune fonti identificano con il Giovane che sfoglia un libro di Lorenzo Lotto, di quel ramo degli Orsini che dominavano le terre fra Roma e Siena e che a soli trentacinque anni, dopo campagne militari e prigionie, si ritirò nella residenza di famiglia, poi dedicata alla moglie ,morta prematuramente, e di cui affidò l’enigmatico e straripante programma iconografico a Pirro Ligorio, vivendo nell’ inconciliabile ricerca di una sintesi di spirito libertino e studio intellettuale, interrotta solo dalle visite di una fedele cerchia di amici. “Tu ch’entri qua pon mente parte a parte et dimi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”. L’evoluzione da un iniziale carattere arcadico del giardino in motivi funebri, la statuaria votata al gigantismo e alla stravaganza con declinazioni soprannaturali e mostruose, le fontane e il rilievo esoterico affidato ai giochi d’acqua, “linfa della gran macchina del giardino”, le enigmatiche iscrizioni e le rovine artificiali, a imitazione di monumenti etruschi, l’uso di emblemi, sembrano essere i tratti dominanti del “Sacro bosco”. Molti sono topoi che incontreremo nei giardini coevi, con i quali Bomarzo instaura perfino un rapporto di competizione come con la vicina residenza di Soriano, con Villa Lante a Bagnaia o con Villa d’Este a Tivoli, ma altri rappresentano un unicum non ancora del tutto interpretato. Costante è l’intento di dare valore filosofico alle sensazioni fisiche in una concezione sensualistica di ascendenza epicurea, che intreccia arte e natura, piacere amoroso e memento mori. Se al boschetto viene attribuito un valore terapeutico di antidoto alla malinconia, è l’intero giardino ad assumere un significato esistenziale e biografico nel perenne tentativo di farsi luogo vitalistico antitetico alla morte. Tributi araldici- la rosa è l’emblema della famiglia- si mescolano a curiosità esotiche. Nel giardino è presente un serraglio dove animali vivi convivono con statue che li rappresentano, un’orsa (ancora l’araldica…) e una scimmia che sintetizzano, con le loro caratteristiche derivate dalla ricca letteratura dei bestiari, lo statuto intermedio fra arte e natura o meglio fra arte e inganno (cui molti trattatisti quali Ludovico Dolce dedicano lunghe dissertazioni nell’ utopia di normare l‘irrazionale). Una vis erotica e sensuale prerogativa del carattere di Vicino Orsini viene amplificata dal giardino, così come accade alla compenetrazione di naturale artificio e artificiosa natura, le cui valenze magiche richiamano l’atmosfera del giardino di Armida del Tasso “acque stagnanti mobili cristalli/ fior vari e varie piante, erbe diverse/ apriche collinette, ombrose valli/ selve e spelonche in una vista offerte”.. “Di natura arte far che per diletto /l’imitatrice sua scherzando imiti”.

Un carattere irreale impronta tutta l’iconografia di Bomarzo legata alle potenzialità ermeneutiche del sogno che si riallacciano alla lettura che Cardano fa di Artemidoro, in un “incontro con le culture del Nuovo Mondo, in cui i sogni erano considerati sacri”: un’attenzione per l’altro e l’esotico mediata dalle cronache dei viaggi, un sogno cui si accede attraverso “porte” quali l’inquietante casa inclinata. Ma l’esotismo si imparenta con altri immaginari oltre quello amerindio, etrusco e classico (la ninfa), quello dell’antico Egitto “rinascimentale”,nutrito di ermetismo e astrologia che dalla Firenze di Ficino si irradia alle corti europee.

Con il rilievo caotico e metamorfico, “spettacolo simbolico” della materia in gestazione, fra grotte, ninfei, automi, creature polimorfe, iconografie ovidiane, fontane e giochi d’acqua, dovremo incontrare una nuova alternativa ai dualismi, la “Terza natura”.

John Dixon Hunt, storico del paesaggio inglese, individua l’origine della nozione di Terza natura, alternativa ad una prima, edenica, arcadica, dominata dalla wilderness e a una seconda piegata alle esigenze umane, quindi vocata all’agricoltura, nelle riflessioni di due commentatori rinascimentali, Jacopo Bonfadio e Bartolomeo Taegio, nel tentativo di “concettualizzare questo fenomeno enigmatico, complesso e specifico che definiamo giardino di piacere”.

In quest’ottica la natura, integrandosi con l’arte, si eleva a creatrice divenendo arte essa stessa e in questo processo si genera la Terza natura.

Dixon Hunt rileva in ciò un’ascendenza ciceroniana collegata alla circolazione in quegli anni di volgarizzamenti del “De natura deorum, compenetrando quindi istanze classiciste a sensibilità di ascendenza medievale, compenetrazione che avviene anche nei giardini “territori distinti, dotati di uno specifico statuto” caratterizzati da topoi reiterati, “imitazione” di un paesaggio ideale dalla forte valenza simbolica, sintesi di natura e cultura.

La stessa compenetrazione è ravvisata da Caroline Patey che invece pone l’accento sulla teatralità del giardino con una particolare attenzione alle residenze medicee, residenze cui Luigi Zangheri per i tipi di Olschki, dedica un’ampia ricognizione– frutto di un convegno del 2004 sui “paesaggi culturali” – dal titolo “Ville e giardini Medicei in Toscana e la loro influenza nell’arte dei giardini”. La “tendenza a inscenare la natura o naturalizzare la scena” si manifesta ad esempio nel panorama della festa cui spesso viene data una finalità politica di ostentazione di potere del Principe. Giardino come theatrum mundi, quindi, dove vige una logica analogica che trasforma l’oraziano “ut Pictura Poesisin “ut Pictura Hortus, rapporto sfaccettato recentemente indagato da “De la Peinture au Jardin” a cura di Hervè Brunon e Denis Ribouillault.

La riscoperta di Vitruvio, la nascita della scena teatrale prospettica, le urgenze archeologiche, portano ad esiti inaspettati come la connotazione mnemotecnica del giardino, aspetto di cui si occupa “L’architetto sapiente, giardino, teatro, città come schemi mnemonici tra il XVI e il XVII secolo, pubblicato nel 2011 sempre da Olschki.

L’autore, formatosi fra Giappone e Italia, si concentra sulla valenza mnemotecnica, valenza le cui potenzialità sfiorano problematiche connesse alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale, del giardino, sulla scorta degli ormai storici studi di Francis Yates, Paolo Rossi e Lina Bolzoni, con l’intenzione di ricostruire l’“architettura mentale”del tardo Cinquecento nel tentativo incessante di districarsi fra “sylva caoticae spazio enciclopedico, dando nel giardino pari dignità a naturalia e artificialia, ovvero ibridazioni culturali ispirate alla natura stessa, come avveniva negli studioli dei principi o nelle coeve wunderkammern. Sintesi di neoplatonismo, ermetismo, cabalismo e lullismo (una logica combinatoria ispirata al filosofo medievale Raimondo Lullo anch’essa imparentabile agli attuali calcolatori digitali), queste visioni si basavano sull’ analogia fra microcosmo (l’umano) e macrocosmo (l’universo), ricollegandosi all’antica pratica retorica dei loci mnemonici”. Nell’affascinante rievocazione di Kuwakino vediamo aggirarsi l’umanista patavino Giulio Camillo ideatore di un teatro della memoria, Agostino del Riccio, erudito frate domenicano appassionato di botanica, mineralogia, idraulica e progettista di un ideale giardino animato da piante e animali, Ulisse Aldovrandi, eclettico naturalista bolognese. Il giardino da locus amoenus si fa emblema, attribuisce cioè come nel trattato dell’Alciati “una forma visibile all’idea”.

Scrive Kuwakino: “anche il giardino si offre come uno spazio fisico mnemonicamente costruito. Da questo punto di vista sarebbe interessante riesaminare anche i meravigliosi e sontuosi giardini manieristici progettati da “sapienti architetti” quali Bernard Palissy, Pirro Ligorio, Bernardo Buontalenti, e Salomón de Caus oggi purtroppo perduti o profondamente modificati. In tali spazi riccamente ornati di minerali rari e popolati da piante ed animali esotici, venivano rappresentate, attraverso la combinazione di pitture, sculture, automi ed esempi di ars topiaria svariate conoscenze che vanno dalla mitologia antica all’archeologia, dalla storia naturale all’idraulica e alla meccanica”.

Siamo entrati nel regno della Terza Natura

Forti di un’impalcatura teorica sulla filosofia metamorfica che impronta il giardino manierista con tutte le sue connessioni che tangono la valenza trasformativa di un vivente esondante ed in incessante genesi,ci siamo imbattuti nel rinvenimento di uno statuto ibrido connesso ad una ricreazione artificiale della materia in un compenetrarsi di natura naturans e natura naturata dalle molte implicazioni.

Eugenio Battisti nel saggio “Dalla natura artificiosa alla natura artificialis”, trascrizione di una conferenza tenuta ad Harward nel 1971 e contenuta nel volume “Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio” (Olschki 2004), ci disegna una mappa cognitiva attraverso cui orientarci in quello che definisce un “complesso sistema concettuale”, creato al fine di attivare un prisma sensoriale finalizzato alla contemplazione estetica, sistema che ha come testo di riferimento l’ “Hypnerotomachia Poliphili”, sorta di racconto allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499, di un’iniziazione filosofica attraverso prove amorose, come nelle Metamorfosi di Apuleio, arricchito da 169 xilografie che hanno come scenario un paesaggio ideale. Da qui Battisti deriva le principali finalità del giardino, quella della meditazione privata, della festa e del luogo votato alle discussioni filosofiche, luogo in cui la botanica si incrocia con “tradizioni arcaiche ed esotiche”,modello enciclopedico dell’universo, esperimento di natura in vitro, connesso ad una rappresentazione idealizzata di una natura artificiosa volta ad un’imitazione simbolica del giardino dell’Eden.

Un filrouge connette i giardini francesi del Duecento e del Trecento, con il loro legame alla tradizione cavalleresca e alla poesia trobadorica in cui è penetrata l’estetica del Medio Oriente – impregnata di musica e matematica – con le sue fontane e i suoi labirinti, al “barco” estense, specie di riserva in cui vivono confinati animali selvaggi e fiori rari, al giardino del Decameron sorta di perenne primavera, fino alla trasformazione del rapporto fra giardino e paesaggio avvenuto nel Quattrocento fiorentino e l’irruzione della scena teatrale, alla ricerca di una natura artificiale in cui si fondono in un unico progetto iconografico forme zoomorfiche, sfoggi araldici, velleità archeologiche, emblemi e metamorfosi, condensate nelle immagini paradigmatica di Dafne che si trasforma in lauro e nella citazione da Columella del tronco abbattuto come dio rustico.

“L’integrazione visiva ed architettonica del giardino- scrive Eugenio Battisti- entro un ampio panorama naturale è solo una parte di un più vasto processo che fa coincidere gli elementi del paesaggio naturale (come laghi, fiumi, colline, valli e foreste) con il disegno del giardino…Vi riconosciamo l’influenza della poesia pastorale, dei poemi cavallereschi, del Platonismo e delle saghe nordiche”. Viene così delineata la morfologia del pittoresco rinascimentale che ha tre radici “l’amore per le rovine e il loro ambiente selvaggio, l’influenza della poesia pastorale, e il revival dei poemi d’avventura. In larga misura- ravvisa Battisti- la responsabilità risale alla cerchia degli umanisti che vivevano a Roma”. Un pittoresco che si nutre di grotte, ninfei abbandonati e rovine, un immaginario geologico in cui il naturale si compenetra con l’artificio illusionistico per ottenere effetti di meraviglia e piacere estetico altamente sofisticati, una trasformazione di elementi naturali in prodotti artificiali declinata in due concezioni trasmutate dalla filosofia antica : il giardino epicureo lussureggiante, cangiante, vibrante e casuale contrapposto a quello di ascendenza stoica ,geometrico ed architettonico.

Utili per entrare ancora meglio in questa filosofia del giardino anche le osservazioni che Marcello Fagiolo affida ai due volumi “Natura e artificio, l’ordine rustico, le fontane, gli automi nella cultura del manierismo europeoe “La città effimera e l’universo artificiale del giardino, in cui si dà particolare risalto all’aspetto effimero, teatrale, scenografico e festivo del giardino, finalizzato sempre a suscitare meraviglia. Uno stupore che nasconde un’inquietudine intellettuale, un gusto per l’investigazione di una natura sentita come segreta e misteriosa in cui si evocano i miti del demiurgo e le sfide di Caino e Prometeo attraverso un’imitazione dell’organico, esibito, paradossalmente, attraverso la sua denaturalizzazione, una Natura artificiata che compete con la creazione divina in un inesausto vitalismo generativo. Scrive Alessandro Rinaldi in “La ricerca della terza natura”: “tra una natura artificiosa che condivide gli stessi modelli metodologici dell’operare artistico e un artificio che , con le proprie virtuosistiche prestazioni, replica le piú ingegnose creazioni della natura si stabilisce un gioco incrociato di scambi ed equivoci, una mutua complicità di ribaltamenti e metamorfosi in cui finisce per cancellarsi ogni specificità disciplinare..questa vocazione alla reciproca osmosi troverà il proprio approdo e la propria verifica pseudosperimentale nel medium del giardino: qui l’artificiosa natura si compenetra con il naturale artificio, dando luogo alla vicendevole, inestricabile interazione di una Terza Natura”.

Dare una geografia e una diacronia a questa complessa temperie è il compito che si è prefissato Luigi Zangheri che in “Storia del giardino e del paesaggio”, con metodologia storica, si occupa di definire le coordinate dei giardini manieristi.

La prima area d’influenza è quella Medicea con le sue ville: Olschki ha da poco pubblicato l’opera in sei libri di Angiolo Pucci, epigono di una famiglia di giardinieri granducali già dalla seconda metà del 1700, su “I giardini di Firenze”, il cui terzo volume è proprio dedicato a Palazzi e ville medicee, accompagnato da un ricchissimo apparato documentario. A Cosimo il Vecchio vanno ascritte le progettualità di Cafaggiolo, Careggi e Fiesole, a Lorenzo quella di Poggio a Caiano, al nipote Giuliano, Papa Clemente VII, Villa Madama a Roma, al Duca Cosimo I i nuovi giardini di Castello, al saturnino Francesco I la residenza di Pratolino, mentre a Ferdinando I l’Ambrogiana , Artimino e Villa Medici.

Zangheri ci ricorda la valenza sociale per gli inurbati banchieri e mercanti Medici dell’abitare in ville non lontane dalla città rievocando il “doctum otiumaristocratico ispirato alla classicità umanistica. Un ruolo di primo piano hanno la villa di Careggi, cui Zangheri dedica un’accurata monografia, progettata da Michelozzo, sede dell’ Accademia Platonica di Marsilio Ficino, Poliziano e Pico della Mirandola e quella di Poggio a Caiano, progettata da Giuliano da Sangallo con il richiamo negli affreschi del Pontormo a Vertumno e Pomona, quello stesso Vertumno rievocato anche da Maurizio Bettini nel suo “Il dio elegante come emblema della metamorfosi e dell’indeterminatezza divina polimorfa e sfuggente. Zangheri -ricollegandosi alle osservazioni di André Chastel- sottolinea la novità creatasi nel rapporto fra villa e giardino, architettura e decoro, improntato ad un nitore geometrico dettato da un distacco quasi mentale, poi la Villa di Castello di cui il Tribolo è “architetto, scultore, ingegnere idraulico e artificiere” dal complesso programma iconologico ideato da Benedetto Varchi sotto la protezione del cardinale Bembo, un’iconografia che trasforma il giardino in “trattato geografico, simbolico e genealogico, fatto d’acqua, di marmo e di pietra”. Fa la sua comparsa il tema della caverna ma su quelli che Clément definisce i giardini della notte ci soffermeremo fra poco.

Basti sottolineare qui l’ambiguità semantica che da questo giardino in poi assumerà la nozione di artificio, al contempo ricreazione artificiale di una materia naturale attraverso lo stile rustico e stupore per il bizzarro traboccante horror vacui fra nicchie, congegni idraulici eroniani ovvero automi, giochi d’acqua, sculture.

Un medesimo intento scenografico anima i giardini della Villa di Pratolino, indagati da Hervé Brunon, ricercatore al Centre André Chastel alla Sorbona, con la contrapposizione fra i due settori a nord “Parco degli antichi” a sud dei “moderni”, il labirinto, il Colosso dell’Appennino del Giambologna, “connubio di materia inerte e sembianza umana, commistione di nature diverse e incompatibili”, figlie di quello che Zangheri definisce “universo concettoso delle allegorie”, la grotta di Cupido, le sculture alternate alle fontane, la peschiera della maschera e la grande voliera.

Artino, dove Ferdinando I si affida al Buontalenti nella ricerca di un paesaggio selvatico quasi anticipatore del giardino paesaggistico in una convivenza “rasserenata” con la Natura.

La cultura medicea avrà risonanza europea innestando un nuovo linguaggio “sintesi di Classicismo e soluzioni stilistiche fantastiche e culturali” nelle maggiori corti europee. L’imparentamento di Francesco I con la casa asburgica la commistione di cultura mediterranea con la sensibilità mitteleuropea porteranno esiti inaspettati: Innsbruck e Ambras, la Praga di Rodolfo II, residenze in cui il potere politico ingloba quello “nei confronti del mondo minerale, animale e vegetale” nel giardino, nella kunstkammer, nella grotta. Pratolino diviene il prototipo del giardino ideale, proteiforme, multimaterico, artificiale ed artificioso, labirintico, generatore di meraviglia come l’Hortus palatinus di Heidelberg, Saint Germain en Lage e Fointainbleu con gli automi di Tommaso Francini o quelli di Sommerset House in cui i congegni idraulici sono affidati a Salomón de Caus.

“Piuttosto che cercare di consolidare i confini che dividono l’umano dall’ inumano, il naturale dall’ artificiale, il vivente dal non vivente, è il momento che la scienza decida di stringere una nuova alleanza con i suoi mostri”. Protagonisti di quest’alleanza non sono le componenti del giardino manierista, ma i materiali, su cui si concentra Laura Tripaldi, chimica e studiosa di nanotecnologie, dotata di un solido bagaglio filosofico. Alla nozione di terza natura viene a sostituirsi quella di interfaccia, “in cui due sostanze possono mescolarsi producendo un corpo ibrido”, aggiungendo che “non possiamo più illuderci che la materia sia semplicemente un oggetto passivo su cui proiettiamo la nostra conoscenza”. Scrive Felice Cimatti “spostare l’intelligenza all’”interfaccia” significa smontare la stessa distinzione metafisica fra cose e noncose, cioè le menti in una sorta di animismo contemporaneo.” Senza la materia non ha più senso tracciare una distinzione assoluta fra vita e non-vita e quindi fra vita e morte perché “l’intelligenza – per Tripaldi – emerge dalle relazioni”.

Relazioni fra i materiali, materia intelligente, agentività di organico e non organico, interfaccia: come non pensare nella nostra prospettiva alle grotte rinascimentali, con il loro statuto ibrido, polimaterico, metamorfico, vitalistico indagato da Philip Morel ed Hervè Brunon. Grotte che possono definirsi sineddoche del giardino, “un omaggio all’immaginazione dei rifugi naturali” secondo Gaston Bachelard sempre attento alle rêveries che si nascondono negli elementi naturali. Un immaginario litico, che ci riconnette alle intuizioni di Laura Tripaldi, secondo cui “i minerali terrestri devono alla vita biologica buona parte della loro diversità e complessità; allo stesso modo, fin dalle sue origini più remote, la vita è dipesa dal regno minerale per emergere e sopravvivere”.

Vita che metaforicamente nel giardino è condensata dalla figura della nimpha loci, di warburgiana memoria nel suo riemergere periodicamente come icona di pathos e irrequietezza, protettrice dei misteri del sotterraneo come si legge nell’”Antro delle ninfe” di Porfirio, che il neoplatonismo fiorentino porta a nuova vita.

Con le grotte rustiche di Pratolino, Boboli, Castello e delle altre ville medicee assistiamo all’approntamento di wunderkammern a cielo aperto, ad un laboratorio di meraviglia artificiale e ad una teatralizzazione dell’alchimia, con un’ascendenza che da Aristotele va ad Avicenna con la sua vis mineralis ed Alberto Magno e alla filosofia araba medievale, per arrivare ad una letteratura rinascimentale dove componenti esoteriche, pseudoscientifiche e mitiche si miscelano in modo inestricabile. Analogia biologica e minerale, incrostazioni di conchiglie, corallo e madreperla, rappresentazioni di miti cosmogonici fra nettunismo e plutonismo, rappresentano il lato tellurico delle grotte, l’illusione dell’auto-creazione della natura naturans quello metamorfico, il microcosmo marino con la sua simbologia quello acquatico, esotismo, gusto per il collezionismo ed ostentazione di materiali quello meraviglioso, gli automi idraulici eroniani fondamentali per quest’arte e imparentati con il gusto teatrale rimandano a quello fantastico, le soglie che dividono mondi a quello ctonio, il mito di Deucalione e Pirra al Diluvio, montagne antropomorfe e animali di pietra alle rocce, il senso di smarrimento al labirinto.

Nell’inesausta ricerca di stupore abbiamo percorso uno strano tortuoso itinerario che spero possa rinnovare anche per un attimo la consapevolezza che la complessità è l’unica chiave che abbiamo per riconnetterci con ciò che ci chiede cura prima di tutto.

A chiusura vorrei richiamare il simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, riconfigurazione del segno di infinito, “fusione” fra il primo Paradiso “in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura” con il secondo “artificiale” e tecnologico, nell’ auspicio di una terza fase dell’umanità caratterizzata da “una connessione equilibrata fra l’artificio e la natura”, “mito finalizzato – si augura Pistoletto – che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità nella visione globale”.


Lavinia Mainardi, laureata in Filosofia a Bologna con una tesi in estetica sul sublime come dionisiaco nella filosofia del giovane Nietzsche, laureanda Dams. Mi interesso di iconografia, visual studies, storia dell’arte, antropologia ed ecologia politica. Vivo in una casa fra gli alberi e scrivere è il mio antidoto alla malattia del tempo.

1 comment on “Il giardino filosofico che ci circonda

  1. Elena Bongini

    Questo articolo ben organizzato , complesso, seppure reso fruibile è stato fonte di profonda riflessione e di recupero di visioni , quasi un risveglio dei sensi. Ogni giorno ho sotto gli occhi, vivo anche io in un giardino con una casa che nel tempo con successivi interventi, ho aperto al vetro più che al mattone per entrare in comunione con la natura fonte continua di rigenerazione.
    Lo scritto mi ha stimolato a vedere oltre a quello che, spesso , nel guardare considero scontato .
    Grazie Lavinia

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