La bramosia avvampa ed è lo Spirito della volontà,
un tessuto che crea immagini spirituali
nell’infinito del mistero.
– Jakob Böhme

Nonostante sia un fenomeno da ogni punto di vista tra i più pervasivi della cultura contemporanea, la pornografia è divenuta oggetto di studio solo negli ultimi anni; un dato ancor più curioso se si considera che, al di là dei pur numerosissimi utenti, influenza, come vedremo, anche le vite di quei pochi che non ne fruiscono direttamente. La recente bibliografia sul tema ha posto delle buone basi per un’indagine dei suoi vari aspetti psicologici, sociali, relazionali e ovviamente sessuali, senza però approfondire o ricollegare l’argomento a uno studio filosofico in materia erotica. Per questo motivo nelle pagine che seguono cercheremo di parlare più attraverso che sulla pornografia, nel tentativo di cogliere la categoria su cui questa si fonda, il desiderio. In seguito, una volta presa in analisi la relazione tra desiderio e sessualità, torneremo sulla pornografia per osservare i modi in cui si declina questo delicato rapporto. Una meta tanto ambiziosa non potrà essere raggiunta in così poche pagine, motivo in più per cui non ci dilungheremo ancora sull’importanza dell’argomento o sui motivi della summenzionata pruderie intellettuale che ne ha ritardato lo studio.
Per questo motivo nelle pagine che seguono cercheremo di parlare più attraverso che sulla pornografia, nel tentativo di cogliere la categoria su cui questa si fonda, il desiderio.
I – Dalla pornografia al desiderio.
Il nostro punto di partenza sarà l’assunto di Linda Williams (Porn Studies, 2004) che ben sintetizza il delicato passaggio della pornografia da obscenity a on/scenity. Scrive l’autrice (nostra la traduzione):
… Il termine che ho coniato per descrivere questo stato paradossale è on/scenity: il modo in cui una cultura esibisce gli organi, gli atti, i corpi e i piaceri che prima erano considerati ob/scene e tenuti letteralmente fuori scena. […] On/scene è un modo di indicare non solo il proliferare della pornografia, ma che gli scenari sessuali una volta off (ob) scene sono stati portati alla ribalta.
La Williams individua una delle più grandi rivoluzioni della pornografia: portare il sesso, abitualmente obscene (nel senso di privato), sulla scena pubblica, nonostante resti obscene per la maggior parte di coloro che assistono allo spettacolo. Si tratta di un fenomeno che non si limita ai filmati pornografici in sé e per sé, né ai più o meno celebri sex tapes destinati a fomentare qualche scandalo o ravvivare l’attenzione su un vip il cui splendore andava opacizzandosi; la ribalta nel pubblico di ciò che abitava il privato invade anche la sfera della politica – e dunque della storia.
Posto che la pornografia metta in scena l’oscenità erotica, sarà necessario, per proseguire la nostra indagine, fare un ulteriore passo indietro, allontanandoci una volta di più – ma solo per il momento – dal tema centrale. Non possiamo comprendere l’effetto dello spettacolo pornografico senza capire la materia di cui tratta; così, dopo essere brevemente passati dalla pornografia alla sessualità, salteremo per un istante dalla sessualità al desiderio, di cui quest’ultima è un cospicuo sottoinsieme. Il desiderio, in una sua definizione (Treccani, 2015), è:
[…] Sentimento intenso che spinge a cercare il possesso, il conseguimento o l’attuazione di quanto possa appagare un proprio bisogno fisico o spirituale […] 2. Sentimento della mancanza di cosa necessaria al nostro interesse fisico o spirituale.
-->È noto che il desiderio sessuale o libido sia un concetto cardine della teoria psicoanalitica; nella teoria freudiana la libido rappresenta una pulsione principale dell’uomo, mentre secondo la teoria junghiana è una forma di energia psichica che costituisce una vera e propria “spinta vitale”, che non si limita solo all’ambito sessuale. Il desiderio (e con lui la libido) è una pulsione verso qualcosa che è per definizione diverso da sè: l’oggetto del desiderio, per l’appunto dal latino “ob–iectum”, “gettato davanti”. Ma porre un oggetto del desiderio significa anche porre un soggetto desiderante – e viceversa: è difficile pronunciarsi sulla genesi di questa corrispondenza, pericolosamente simile al celebre paradosso dell’uovo e della gallina. D’altra parte che l’identità sia indissolubilmente legata ad una relazione non è un concetto nuovo; già Leibniz definì l’individualità della sostanza come la totalità dei suoi rapporti con tutte le altre sostanze (ovvero la totalità dei suoi predicati), esattamente come l’individualità di un punto geometrico viene definita dalla sua posizione rispetto a tutti gli altri punti. Egli scrive che
[…] ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio o di tutto l’ universo che essa esprime a suo modo, press’a poco come una medesima città è rappresentata diversamente a seconda delle differenti posizioni in cui si trova colui che la guarda.

È proprio su una primigena e forse irrintracciabile relazione che si costruisce il codice di qualunque linguaggio possibile e di converso di ogni forma di conoscenza. Il primo sì/no, lo voglio/non lo voglio: da questa iniziale relazione tra un soggetto e un oggetto si muove la definizione di entrambi. Se ogni linguaggio si fonda su (almeno una) differenza di segni e di significati, la prima divisione è la madre della conoscenza linguistica del mondo e della sua conseguente definizione attraverso una griglia di simboli. Nulla di nuovo; uno dei testi più antichi di qualunque lingua indoeuropea, il Rigveda, diceva già tra il 1700 e il 1100 a.C. (nostro il corsivo):
Allora non c’era il non essere, non c’era l’essere; non c’era l’atmosfera, ne il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l’acqua inscandagliabile, profonda? […] Tenebra, ricoperta da tenebra, era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. […] 4. Il desiderio (Kama) nel principio sopravvenne a lui, il che fu il primo seme della mente. (Inni del Rig-Veda, a cura di V. Papesso, Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma).
Ma non è necessario spostarsi tanto lontano nel tempo e nello spazio; il desiderio, in particolare quello sessuale, ci riporta all’idea di peccato originale della tradizione ebraica; un peccato associato, per l’appunto, alla nascita della conoscenza mediante la distinzione del bene dal male (potremmo dire del desiderato dall’indesiderato), a cui segue lo sviluppo della sessualità e la conseguente punizione: la perdita dell’assoluto.
L’eros è una forza pervasiva della vita umana e la attraversa come un primitivo alfabeto basato sul desiderio. Eppure questo circolo di definire ed essere definiti è appena alla metà del lungo giro di ruota avviatosi col “peccato originale”; la volontà di possedere l’oggetto del desiderio, infatti, nel suo aprire (meglio: spalancare) le porte dell’identità a qualcosa di estraneo, porta con sé non solo una forza assertoria, ma anche quella opposta, di perdita del sé. In questo senso il desiderio – e di conseguenza il sesso – è una forza che non appena pone l’io già ne prevede la disgregazione, e nella sua manifestazione più estrema diventa una tensione panica o mortale. La suprema conoscenza dell’altro, del mondo; perdersi in esso fino a fondersi col tutto, morire. Si tratta di un passaggio perlopiù quantitativo e implica che la connaturata e perenne insoddisfazione del desiderio sposti l’oggetto desiderato sempre oltre, fino a porre come meta il desiderio più estremo: possedere tutto, essere tutto. Questa tensione trascendente ha una portata doppia; a una lettura risulta negativa, in quanto rappresenta una forza distruttrice di un soggetto appena costruitosi, che, di fronte al vuoto cui fa riferimento il desiderio – per sua natura incolmabile – non può che sparire, perdersi, morire. D’altra parte l’idea di una fusione panica, per quanto traumatica per il soggetto, rimanda a un’idea di comunione col divino; si impone quindi una scelta all’interno di quella che fondamentalmente ha l’aspetto di un’equazione: possedere tutto e/o essere niente. Se il desiderio è una tensione individuatrice e disgregatrice, il sesso somiglia a una metafora del rapporto dell’uomo col mondo, o, per meglio dire, ogni rapporto di un soggetto con un oggetto è un rapporto sessuale. Esso si manifesta, grazie al desiderio, come una forza che genera il particolare per poi spingerlo a distruggersi e tornare nell’assoluto; un ciclo esistenziale in miniatura che invece della morte trova come sua conclusione – o punto di passaggio – l’orgasmo. Non a caso Georges Bataille (1957) descrive l’erotismo come «l’approvazione della vita fin dentro la morte». La petite mort, (la piccola morte), così è soprannominato l’orgasmo; con l’atto sessuale (come con la morte) l’identità si diluisce e si perde, in questo caso attraverso il piacere. L’estasi di uscire dai propri limiti senza perderli completamente è, non a caso, un’esperienza vicina a quella che descrivono santi e mistici: «…era così grande la dolcezza che m’infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio» scrive S. Teresa (Odifreddi, 2007). Nell’atto sessuale i limiti dell’io scompaiono assieme ai vestiti e pelle contro pelle anche i confini dei corpi diventano labili, uniti nel godimento comune. Un corpo si fonde con l’altro come nei contorsionismi erotici ritratti da Hans Bellmer e le identità si toccano fin quasi a scomparire. La libertà da se stessi che si ottiene con l’atto sessuale è certamente breve e parziale rispetto a quella che si raggiunge con la morte, eppure le assomiglia; si potrebbe quasi azzardare che il sesso sta ai santi come la morte a Dio.
L’eros è una forza pervasiva della vita umana e la attraversa come un primitivo alfabeto basato sul desiderio. Eppure questo circolo di definire ed essere definiti è appena alla metà del lungo giro di ruota avviatosi col “peccato originale”

Dopotutto che vi sia un legame tra sesso e religione è fuor di dubbio, sebbene presenti una sconcertante asimmetria interpretativa in base al luogo, all’epoca e alla cultura in cui si situa. Alcune religioni, tra cui il cristianesimo, sono persuase che la strada verso il divino prediliga la privazione e la rinuncia; altre invece, perlopiù a oriente, vedono nel sesso una via verso il sacro. Il caso più eclatante è il tantrismo, che, pur riconoscendo che sia indispensabile sciogliersi dal vincolo del desiderio, sostiene che
[…] il modo migliore per eliminare alla radice il desiderio non è quello di reprimerlo, ma di soddisfarlo fino ad esaurirlo, oppure di servirsene come potente forza per abbattere le barriere dell’io […] Il desiderio è parte essenziale dell’uomo: è il suo motore principale; nemmeno con la morte si ha la sua definitiva estinzione, se è vero che permane la brama di vivere ancora, di reincarnarsi, di fare quelle esperienze che non si sono potute fare. Ebbene, c’è un unico sistema per estirparlo: soddisfarlo. È inutile consigliare ad un affamato di non pensare al cibo; se vogliamo che non ci pensi, sfamiamolo. (Lamparelli, 1985)
Ma non è necessario spingersi fino alle porte di un tempio Tantra per cogliere i lampi dell’eros divino, ci sono anche casi più vicini – nello spazio se non nel tempo – come ad esempio la “prostituzione sacra”; una pratica assai in voga presso alcune civiltà antiche, soprattutto tra babilonesi, fenici, assiri e greci, che consisteva nell’unione carnale di un sacerdote con una sacerdotessa dietro versamento di un obolo. Anche un uomo come il barone Julius Evola (1957), certo più libertino che democratico, si scagliò contro l’“ipocrita fobia teologica” del sesso propugnata dal cristianesimo. Egli scrisse che
[…] l’Islam contempla invocazioni divine durante l’atto sessuale, l’antico Iran giunse a promettere grazie divine a chi desse il massimo ardore nell’amplesso, note formule indù nell’unione dei sessi fanno intervenire simboli cosmici e sacri, e via dicendo. E ciò, a tacere di correnti, come il dionisismo, che all’estasi del sesso riconobbero possibilità mistiche.
In questo senso il desiderio – e di conseguenza il sesso – è una forza che non appena pone l’io già ne prevede la disgregazione, e nella sua manifestazione più estrema diventa una tensione panica o mortale. La suprema conoscenza dell’altro, del mondo; perdersi in esso fino a fondersi col tutto, morire.
Ma neanche le implacabili tendenze repressive del cristianesimo sono riuscite a fermare l’esplosione erotica del divino, o perlomeno non in alcune celebri raffigurazioni artistiche (potremmo dire: “pornografiche”) dei santi. Jaques Lacan parlò in questi termini dell’orgasmo di marmo che Bernini dedicò a S. Teresa: «Elle jouit, ça ne fait pas de doute» (Godeva, non c’è dubbio), ma non basta: uno sguardo attento – o per alcuni malizioso – non può lasciarsi sfuggire l’appeal masochista e omoerotico di molte rappresentazioni di S. Sebastiano (Guido Reni tra tutti), o l’evidente masturbazione di un plotone di “Veneri pudende” (quella di Tiziano è il caso più evidente), che, per quanto non siano delle sante, restano pur sempre divinità, e come tali danno il filo da torcere a teologi e storici dell’arte.

Ricapitolando, se il desiderio è una funzione che da un lato crea l’identità (in quanto pone una differenza e una relazione: soggetto desiderante/oggetto del desiderio) e dall’altro la distrugge (in quanto tensione verso l’assoluto, il “volere tutto” che porta a identificarsi con l’universo a prezzo della propria identità) non è difficile trovare nell’orgasmo, il piacere con cui culmina e si estingue il desiderio, una connotazione teologica: esso ricorda l’unione con dio che ebbero in dono alcuni santi – o perlomeno è il suo analogo carnale. È dunque una metafora della congiunzione con dio (inteso come principio trascendente) o, se si preferisce, l’opposto: dio come assolutizzazione dell’orgasmo.
II – Dal desiderio alla pornografia.
Una volta placata la vertigine che dal sesso ci ha portato fino all’assoluto, sarà possibile ritornare al nostro (apparentemente) prosaico argomento; la pornografia. Concediamoci di partire dalla sua definizione (The Oxford English Dictionary, 1989):
pornography
printed or visual material containing the explicit description or display of sexual organs or activity, intended to stimulate erotic rather than aesthetic or emotional feelings.
La prima parte della definizione, printed or visual material containing the explicit description or display of sexual organs or activity, (ovvero materiale che raffigura organi o attività sessuale) è a nostro parere limitante, o perlomeno vaga. Se si osserva la storia della pornografia infatti, si noterà come per ottenere erotic rather than aesthetic or emotional feelings (stimoli erotici più che estetici) si siano utilizzate le rappresentazioni più svariate, in base all’epoca, al media e al genere cui sono dirette. Una decorazione erotica di un antico vaso greco difficilmente riuscirà ad appagare le smanie di un contemporaneo, così come gli affreschi nei lupanari di Pompei o la “Maya Desnuda” di Goya. Eppure, per restare su quest’ultimo esempio, vi è chi come Joaquín Ezquerra del Bayo, sostiene che in passato la Maya Vestida e la Desnuda facessero parte di un un gioco erotico nell’alcova più segreta di Manuel Godoy, il committente del quadro (R. M. e R. Hagen, 2003). Non solo; spostando l’attenzione sui media su cui si basa gran parte della pornografia moderna, la fotografia e il video, noteremo che le fotografie pornografiche dei primi del novecento a un movimento nel tempo di qualche decennio accompagnano anche un piccolo ma significativo spostamento spaziale: dai cassetti (ben chiusi) degli studi di più di un buon borghese alle cornici che ornano i muri dei salotti contemporanei. Un passaggio che segna una conquista e una perdita: non più erotic ma aesthetic or emotional feelings.
Il friabile muro che divide pornografia ed erotismo non si limita ad attraversare i media visivi, perché la pornografia estende la sua rete su tutti i linguaggi simbolici, dall’immagine al video, dall’audio al testo; la domanda che si porta rimane però analoga: in quale caso si parla di erotismo e in quale di pornografia? Sono state proposte molteplici soluzioni, ma il confine è a tal punto suscettibile ai casi particolari e al fluire della storia che risulta molto difficile tirare una linea di demarcazione netta, o stabilire dei principi che fungano in qualche modo da paletto. La definizione che a nostro parere subisce meno i colpi della critica è quella di un oggetto che mira a suscitare e appagare un desiderio sessuale (e qua torna il desiderio), che in sostanza è il contenuto della seconda parte della definizione riportata in precedenza. Si potrebbe controbattere che vi sono opere che suscitano e/o appagano un desiderio sessuale senza essere per questo meramente pornografiche, ma per ovviare questo scoglio è sufficiente correggersi limitando il campo. Diremo dunque: un oggetto che mira principalmente a suscitare e appagare un desiderio sessuale. Questo spiegherebbe la relativa fluidità della definizione; una riproduzione che un tempo era considerata pornografica può diventare in seguito erotica, o addirittura neutra, proprio in virtù del venir meno dello scopo precedente, soppiantato da oggetti più adatti. Così come una macchina d’epoca non verrà più utilizzata per un viaggio ma sarà ammirata in qualche museo o collezione, un oggetto pornografico d’epoca, ormai “superato” nel suo modo d’uso, diverrà un oggetto di contemplazione. È pur vero che da questa definizione restano fuori tutti i casi “ambigui”, come le fotografie erotiche o anche i “porno d’autore”, ma proprio questi oggetti “misti” faranno da spartiacque tra i due concetti: se il tempo influisce su queste rappresentazioni come ha fatto fino a oggi, saranno i primi a scivolare dal calderone della pornografia a quello dell’erotismo, o, in casi particolarmente pregevoli, dell’arte.
Il friabile muro che divide pornografia ed erotismo non si limita ad attraversare i media visivi, perché la pornografia estende la sua rete su tutti i linguaggi simbolici, dall’immagine al video, dall’audio al testo; la domanda che si porta rimane però analoga: in quale caso si parla di erotismo e in quale di pornografia?
Potrebbe trattarsi di una definizione soddisfacente, ma non si deve scordare che la pornografia è molto di più; un oggetto che suscita e appaga un desiderio sessuale, in virtù della lettura che abbiamo dato precedentemente del sesso e del desiderio, non può limitarsi a una mera funzione fisiologica. Il suo ruolo è tutt’altro che marginale e influenza largamente la società; scrive Despina Kakoudaki nella sua analisi sul ruolo delle pinup durante la seconda guerra mondiale (Porn Studies, 2004. Il corsivo è nostro)
[…] la pinup è un prodotto culturale versatile, che può adempiere a vari scopi in questo difficile periodo [la seconda guerra mondiale]. […] Stimola l’attrazione per le macchine belliche attraverso il sex appeal (la ragazza-come-aereo). Sostituisce metonimicamente il processo della guerra e del combattimento reale (la bomba e la pinup in “Blitz Wolf”). Facilita l’identificazione patriottica con “i ragazzi” che si preparano per la guerra. Infine, crea una rappresentazione normativa del soldato come un innocente, starstruck, eterosessuale, non violento, un ragazzotto di provincia, la cui immaginazione sessuale è limitata ai rapporti immaginari con delle “all–American girls” illustrate.
Ancora una volta grazie alla definizione dell’oggetto del desiderio (la pinup) si definisce il soggetto desiderante (il soldato). Proporre (o imporre) un oggetto del desiderio non è un gesto che si esaurisce nell’offrire una scelta a possibili soggetti desideranti: è un metodo per plasmare o modificare il soggetto. In questo il ruolo della pornografia è simile a quello della pubblicità, che non a caso sfrutta spesso degli elementi erotici per accentuare il proprio effetto.
Se, come dicevamo, la libido ci situa in una relazione di definizione ed esplorazione del mondo, resta però da vedere come la pornografia “suscita e appaga” il desiderio. È nostra opinione che questo avvenga mediante la creazione di alcuni sottoinsiemi nell’orizzonte del desiderio (in parte assimilabili ai numerosissimi generi pornografici) e attraverso delle tecniche illusorie atte a far sì che lo spettatore entri nel “gioco” e scambi il più possibile una rappresentazione erotica per realtà. Se questa illusione funziona, il fruitore si situa in un rapporto privilegiato con l’oggetto del desiderio, che si piega al suo servizio e riesce sia a farsi desiderare che a soddisfare la volizione che suscita. Il meccanismo che mette in atto la pornografia è dunque simile a quello dei giochi, che con regole più o meno complesse creano un sottoinsieme del mondo di cui l’uomo è, se non il padrone assoluto, perlomeno il demiurgo. Si pensi alla sicurezza con cui i bambini cedono ai mondi fantastici evocati nei loro giochi, o all’immedesimazione a cui arrivano alcuni adulti alle prese con svaghi più elaborati (quali ad esempio i giochi di ruolo o certi complessi videogames).
Cedere all’illusione di un “sotto–mondo” porta con sé un vantaggio non indifferente: una relativa onnipotenza, dovuta al fatto che si tratta di un mondo “sotto controllo” che nasce proprio allo scopo di soddisfare i desideri di chi lo abita. Sia nel gioco che nella pornografia, abitare un universo di cui si conosce e in parte si dominano le regole ha un effetto tranquillizzante, in quanto il desiderio non viene più rivolto verso un oggetto esterno – o perlomeno non completamente. L’oggetto esterno infatti rimane, ma è in qualche modo falsificato e addomesticato; il diverso da sé segue delle regole dettate dal sé (non più imposte dall’esterno) e di conseguenza diventa meno diverso; più che un vero e proprio oggetto del desiderio si ha la messa in scena dei suoi meccanisimi, una sorta di coazione a ripetere che consente di interiorizzare e neutralizzare la portata traumatica del desiderio. Sebbene questi sotto–mondi (pornografici e non solo) siano spesso figli di terzi e dunque non precipuamente opera di chi vi si abbandona, sono creati per essere “regnati” piuttosto che “abitati” dallo spettatore. Tanto basta ad attutire ogni possibile colpo del diverso attraverso una mimesi del soggetto con dio: egli non vive più un mondo privo di comprensione e controllo ma uno su cui detiene il potere assoluto – per quanto in parte illusorio. Quel che non si può ottenere nel mondo “reale” diventa così raggiungibile in un sottoinsieme ben addomesticato, a prezzo di cedere all’illusione e dimenticare tutto quel che sta oltre questo neonato, piccolo mondo.
Il meccanismo che mette in atto la pornografia è dunque simile a quello dei giochi, che con regole più o meno complesse creano un sottoinsieme del mondo di cui l’uomo è, se non il padrone assoluto, perlomeno il demiurgo.
Credere diventa dunque di fondamentale importanza, ma perchè questo accada l’illusione deve riuscire ad assorbire e riorganizzare la forza intrinseca al desiderio, che lo porta a cercare qualcosa che va sempre oltre: da sè, dagli altri, dal mondo nel suo complesso. La pornografia d’altra parte è sempre stata all’avanguardia nel campo dell’illusione pur di ottenere i suoi scopi e sembra aver da sempre accompagnato l’uomo nello sviluppo di ogni tecnica rappresentativa della “realtà”. Le figure nude e le attività sessuali infatti, sono descritte in maniera minuziosa sin dall’arte paleolitica (basti pensare alla Venere di Willendorf), e sebbene non sia certo che lo scopo di tali opere fosse suscitare e appagare un desiderio sessuale, il sospetto è lecito nel caso dell’ “Adonis von Zschernitz”, una statua di circa 7.000 anni fa raffigurante un uomo che si piega sopra una donna nel tentativo di veder soddisfatte le proprie richieste sessuali (Wikipedia, 2008). Ma non è che l’inizio; dalle raffigurazioni pornografiche di epoca romana ai quadri e alle illustrazioni più moderne, è pacifico notare che la storia della pornografia nasce ben prima dell’utilizzo “ufficiale” del termine (nel XIX secolo) e accompagna sin dagli albori ogni rappresentazione simbolica.
L’avvento della fotografia poi, così come ha rivoluzionato l’idea di “raffigurazione della realtà”, ha investito anche la pornografia, affamata come e più dell’arte di “verità”. Ogni approssimazione al “reale” infatti, non fa che potenziare la riuscita dell’illusione pornografica, avvicinandola al suo fine ultimo: la creazione di un sottoinsieme del mondo dove l’osservatore ha il potere assoluto sul desiderio (sessuale). Così, tutti i progressi della fotografia vengono seguiti dalla nostra fedele ancella, mai sazia di una maggiore (illusione di) realismo. Dai dagherrotipi alle foto in bianco e nero, da queste a quelle a colori, fino al video e alle sue varie evoluzioni, dalla pellicola al digitale… ogniqualvolta la tecnologia promette una rappresentazione più realistica, la pornografia ne assimila mezzi e tecniche per potenziare la portata illusoria del suo mondo. L’oggetto pornografico, pur di avviluppare lo spettatore in un’illusione più potente, accetta di espandersi e allargare i suoi limiti, includendo al proprio interno sempre “più mondo”.

Questa tensione verso un realismo sempre maggiore ricorda il mito di Pigmalione, che sembra calzare più alla pornografia che all’arte. Fu Ovidio (Le metamorfosi, X, 243–297), a raccontare la storia dello scultore, che dopo aver modellato una statua femminile (nuda) se ne innamorò, tanto da dormire accanto ad essa nella speranza che un giorno si animasse. Al colmo del desiderio, l’uomo pregò Afrodite di dar vita all’essere creato dalle sue mani e la dea acconsentì; vedere la statua animarsi, respirare e aprire gli occhi non è solo il sogno di Pigmalione che si avvera: è quel che vive chiunque, anche se per poco, quando cede all’illusione e crede che in un sistema chiuso risieda tutta la complessità del cosmo.
Sfruttare e talvolta anticipare l’evoluzione dei media tecnologici non è certo l’unico metodo che la pornografia mette in atto; anche lo stile è un importantissimo veicolo d’illusione. Basti pensare, tra i molti, al genere pornografico denominato “amateurs” o al “casting”. Questi due sotto–insiemi del desiderio sono un buon esempio di come l’illusione faccia parte delle stesse rappresentazioni pornografiche: nel primo caso la “realtà” irrompe attraverso la pretesa “verità” del filmato, che nasce dal (falso) presupposto di offrire qualcosa più genuinamente obscene, o perlomeno destinato a rimanere tale. Nel secondo caso il meccanismo è più raffinato: invece dell’oggetto compiuto, si propone il materiale che lo precede, il dietro le quinte dell’on/scene, dunque l’obscene per eccellenza.
È proprio qui, nel più profondo fuoco dell’illusione (dove questa trascende le proprie regole), che la pornografia tocca il desiderio, riproponendone l’irraggiungibilità.
Non appena viene messo in scena tutto diventa automaticamente on/scene, ma proprio nell’accorciare lo scarto tra realtà e finzione si basa la potenza della tecnica illusoria; la tensione verso la “realtà” (che potremmo definire un’illusione più grande) ricorda al desiderio la sua natura obscene e dunque non pornografica. A soddisfare la fame di verità che fa sì che un oggetto del desiderio fantasmatico coincida con uno in “carne e ossa” è proprio il tentativo dell’illusione di sfuggire a sè stessa; si tratta, potremmo dire, dell’irrompere della realtà in un sotto–mondo, che riesce a inglobare un brano di verità poco prima di sfaldarsi. Vladimir Nabokov (1982) scrive a proposito di Madame Bovary (ma potremmo estendere la nota al nostro argomento):
In realtà, la finzione è sempre finzione. L’arte è sempre inganno. Il mondo di Flaubert, come quello di tutti i grandi scrittori, è un mondo fantastico con una propria logica, proprie convenzioni e proprie coincidenze. […] La realtà è sempre relativa, perché ogni realtà data, la finestra che vedete, gli odori che percepite, i suoni che udite, dipende non soltanto dal rozzo compromesso dei sensi, ma anche da differenti livelli d’informazione.
Nabokov definisce il realismo e l’arte una finzione, che varia nel tempo e nei modi; noi aggiungiamo che, al pari dell’arte, anche la pornografia è finzione. Eppure vi è un caso in cui l’illusione sembra vacillare: quando viene messa alla prova dall’improvvisa intrusione della “realtà” – che, di fatto, si rivela una finzione in cui l’altra era inclusa. Non è tanto la scoperta di una verità nascosta a smascherare la finzione, quanto il breve passaggio da un’illusione all’altra, in cui è possibile scoprire quanto il limite sia invalicabile, congenito com’è all’esistenza di qualunque soggetto. Come bambini davanti a un gioco di prestigio, possiamo arrivare a svelare – e talvolta ripetere – i trucchi del mondo, non a toccarne la magia; il più grande traguardo è conoscere le leggi che regolano l’illusione in cui viviamo.
È proprio qui, nel più profondo fuoco dell’illusione (dove questa trascende le proprie regole), che la pornografia tocca il desiderio, riproponendone l’irraggiungibilità. Anche nell’on/scene si cerca l’obscene, il nascosto, un elemento fuori dal nostro mondo in grado di alleviare l’inesausta sete del desiderio; il risultato, apparentemente paradossale, è piuttosto logico: un prodotto che si sforza di offrire un “perfetto” oggetto del desiderio non può che spostarne i limiti altrove, in spazi talvolta inusuali, perché il desiderio, come abbiamo scritto, definisce il desiderato per poi oltrepassarlo e perdersi assieme ad esso nell’indistinto. Così, più il corpo viene sdoganato sul mondo, più la sua portata erotica si diluisce e si sposta, in un gioco di vasi comunicanti in cui il desiderio non può mai diminuire. La pornografia si delinea così come una una messa in scena del desiderio, più che uno strumento per soddisfarlo. Attraverso tecniche analoghe a quelle delle arti crea un sottoinsieme del mondo al servizio di chi lo ha generato, ma destinato all’incompletezza, a meno che i suoi argini non cedano a qualcosa di esterno. Si tratta di una messa in scena del desiderio (on/scene, appunto) non di una sublimazione né di una catarsi; solo il ritorno all’assoluto potrà alleviare questa sete: possedere tutto o essere niente.
di Francesco D’Isa e Vincenzo Marasco
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