Il margine del Cristallo

Agosto su Indiscreto è sinonimo di racconti: abbiamo deciso di affidare ogni anno a una persona diversa la curatela del nostro breve mese letterario. Quest’anno a curare la selezione per noi è lo scrittore Vanni Santoni. Il racconto che segue è di Omar Suboh, che ringraziamo.


IN COPERTINA, Flor Imperiale, Coral Snake and Spider, Brazil, Marianne North
(1873)

di Omar Suboh

(l’agosto letterario 2023 è curato da Vanni Santoni)

Gli dèi sono ovunque, qui, dove lo strano transita sulle rocce frastagliate, e il cielo luccicante è così immenso che pare cadere da un istante all’altro. Il sole illumina le striature del mio volto stanco, segnato da solchi irregolari in superficie, mentre mi affaccio dalle vette del paese dei Tarahumara, e aspetto che questa pianta cannibale mi restituisca le immagini intatte che ho di te. Ogni albero racchiude un simbolo, effigie che si ripete ossessivamente. Il volto di una donna dalla testa di animale, la cui ombra è proiettata sul suolo, nelle rare zone dove è possibile trovarla in questa fase dell’anno – o saranno secoli?, millenni?: da quanto mi trovo qui? Il tempo è un oltraggio –. Nelle sue fauci porta con sé l’immagine di sé stessa, una forma di misenabismo persecutorio: l’estorsione dell’inconscio naturale alla mia volontà di potenza. Mi affaccio sulla montagna sopra il villaggio, vedo enormi pietre scalfite da denti rappresentati con protuberanze falliche, incise con il sangue dei vinti: quattro fori sulla punta esterna di ognuna. Tocco con la mano destra il tronco di un pino, calpesto trifogli librati verso il firmamento, mentre un canale attraversa la valle accompagnando il suo passaggio con un rintocco leggero, la musica dei numeri, e mi riporta alla mente la nota che scandisce il suono originario, la sillaba primordiale che riconduce il caos materiale ai suoi principi. Alzo lo sguardo, stormi di merli tagliano in mille frammenti multicolori l’orizzonte degli eventi. Intorno solo alberi arsi che, a ogni mio passo, prendono la forma di triangoli. Decido di fermarmi, riprendo fiato, non ricordo più da quanto sto camminando. La forma delle cose intorno svanisce, generando nuova progenie, come questi alberi arsi che ora sono due triangoli opposti: le loro punte sono collegate da una sbarra orizzontale che le divide: solo ora, perché sento la tua mano guidarmi, e miei arti rispondere a un riflesso incondizionato, riconosco l’Albero della Vita, e io sono qui, nel Regno, il cui sentiero conduce al Centro della Realtà.

Ho ingerito questa pianta cannibale quando ero ancora in servizio, prima di abbandonare tutto, cioè niente. Avevo in tasca i bottoni essiccati, uno per uno, pesati come oro prima di macinarli e ridurli in polvere di stelle. Avevo letto del deserto di Chihuahua, dei Cora, degli Huichol, della stanza del mara’akame: le cui pareti sono dipinte con divinità raccapriccianti, e i suoi colori riproducono la danza macabra della decadenza: il giallo che tutto riveste, quando con gli occhi chiusi il trip cannibale ti legge i pensieri, rubandoteli, trapassandoti da parte a parte, e nell’iride c’è un vortice. Andai oltre l’Oltre. Ingerendo i bottoni di Dio accedevo al mondo dell’erotismo sconfinato, quando la carne è fiume metafisico che tutto travolge con sé, e gli opposti si dissolvono nell’Unità dell’aleph. La luce pulviscolare del peyote orienta i miei passi nella notte del mondo, quando tra calici ricolmi di angoscia vengono riversate su queste lande devastate il siero che tutto collega: il fiume della coscienza, ciò che unisce gli organismi vegetali con le piante insettivore, le rampicanti con le farfalle, e tutto concorre alla formazione di una immaginazione della natura stessa. Quando le forme si piegano per adattarsi al ciclo della evoluzione, e ogni corpuscolo impercettibile, così come ogni acaro invisibile al microscopio, è altrettanto imprescindibile quanto i corpi celesti rotanti: i dervisci dell’Universo.

Mi sono dato da fare, ingerendo tutto ciò che di commestibile incontravo lungo il sentiero per l’Hikuli, frutta maciullata dai piedi dei nativi, mais e acqua, zucca essiccata e salvia, sono rinato cenere e poi fuoco, girando in senso antiorario lungo il cerchio che conduce al Capo Peyote, impettito in piedi sul tappeto ricamato, e un tamburo persistente faceva da contrappunto jazzistico a ogni passo, e l’incenso spirava nell’atmosfera inghiottendo ogni pensiero, riducendolo a brandelli, e il Capo del Cedro sillabava metriche incomprensibili:                                                

                                                   !STOM–ALGIA! !STOM–ALGIA!

                                                     Questa è la musica della vita!,

Disse, roteando gli occhi all’interno e scorgendo l’Uomo Celeste irradiato da schegge abbacinanti, il cui nucleo centrale era un triangolo che gli cingeva il capo, e un fiore di Loto rimandava echi enstatici di riflesso… , e una statuina di puma faceva capolinea fluttuando al centro del perimetro tracciato dai Capi del Fuoco, del Tamburo, e del Viaggio: quello al termine di ogni dire filosofico, la soglia estrema dove tutto fluisce per ricominciare dall’origine: l’inizio del pensiero, quando gli dèi erano tuoni, fulmini che spaccavano in due il cielo.

Mi fermo, finalmente. Ingerisco questi bottoni macinati, ridotti in polvere, mentre salassi, clisteri, dissanguamenti indicibili avvengono davanti ai miei occhi stanchi, illuminati, e la Danza degli Spiriti prosegue il suo ritmo cardiano, che va e viene come un bilanciere epilettico, e versi improvvisati vengono intonati da spettri invisibili, accompagnati da profezie sull’ordine del discorso; preghiere che si tramutano in ponti scintillanti tesi verso questo mondo e l’altro – quello più autentico di tutti, l’unico: quello dove il segreto è finalmente svelato, e la Chiave è accessibile a chiunque abbia dischiuso le vertebre, partendo dalle ossa sacrali, salendo per i lombari, passando per dorsali, i cervicali e l’encefalo che per emanazione divina trasforma ogni mio gesto in contemplazione dell’Unità assoluta: perché ogni atto è filosofico, siamo tutti filosofi sin dalla nascita  –, e la luna, il sole, la terra piroettano sulle nuvole silenziose, come comparse sullo sfondo pirotecnico della cerimonia.

Sento una forza impetuosa assalirmi. Il mio corpo è un cataclisma, una sarabanda di terremoti e catastrofi sparse, e vedo con nitidezza la guerra eterna che tutto muove: l’estensione del dominio del conflitto, due Soli dove è racchiusa la storia del mondo, e gli stregoni entrano nel cerchio brandendo seicento campanelli che vengono fatti strimpellare all’unisono, in un coro orgiastico intermittente, e capisco che in un solo attimo sto entrando e uscendo dalla mia condizione, dalla malattia che tutto presiede, il procedere lungo la via lastricata dal dolore, quello della perdita, le mie Wounded Knee interiori. Stiamo ballando intorno al fuoco segreto dalle cinque dello scorso pomeriggio, e adesso?, che ore sono: le sei del mattino?, o è l’alba di un nuovo giorno? In un sistematico silenzio avverto la materia oscura delle cose, i concetti disvelati, ogni elemento nella sua nuda vita si fa eccentrico noumeno circoscritto ai miei sensi amplificati, il cui numero è raddoppiato: non più cinque, o sei: ma dieci, forse venti… E continuo a contemplare la volta dischiusa in una estasi serena, trincerato nella mia nebulosa psichica, privato di ogni giudizio estetico, trascinato nel vortice di immagini che, bucherellate come i fori di una pellicola, scorrono dentro la mia testa.

Quello che ho davanti, in questo momento, sono tre pannelli distinti. Il Giardino dell’Irreale spalancato sui balconi della mia mente, le cui dinamiche sono compromesse per sempre, dal giorno in cui te ne andassi per sempre. Te lo ricordi?, eravamo a Jaffa, annusavamo brandendo tra le mani i  bayyarat  appena raccolti nella valle, le cui distese infinite di verde – il colore della rinascita, della resurrezione… – abbracciavano miglia e miglia di chilometri non misurabili a nessun occhio umano. E piangevamo su quello che era stato, su quello che era, e sarà: perché tu, mia Esperanto, stella del mattino distante, vedevi quello che non c’era, sapevi già che te ne saresti andata in un mattino come tanti, con il vento che passava tra le foglie lasciate cadere, le case abbattute, i figli che non avevano avuto il tempo di aprire gli occhi per capire che erano vivi, e piangevi sulla mia spalla, scendevi nel mio petto, ma non ti rivelavi. Non parlavi, perché le tue visioni erano inaccessibili, scrigno sigillato il cui interno conteneva la lux æterna. Mangiavamo mansaf, makloubeh, knafeh, preparate dalle mani sapienti della anziana signora del villaggio, che portava avanti una famiglia di dieci figli, tutti disoccupati, ma ognuno, diceva, fondamentale: perché chi portava gli asini a pascolare, chi arava la terra, chi declamava versi dal Corano e dalla Torah, chi leggeva gli astri, chi faceva altri figli per rendere immortale la famiglia, chi combatteva nella guerra dei Sei Giorni, chi disegnava, chi imprecava, chi malediceva: ognuno aveva una sua missione, vocazione precisa, linee orizzontali da seguire nel disegno imperscrutabile che il destino aveva tracciato per noi. Ci svegliavamo all’alba, passeggiavamo intorno ai pascoli rigogliosi, ascoltavamo il rumore del cielo, mentre un asinello ragliava in continuazione alla ricerca della nostra attenzione. O Anna, tu che avevi le tue radici in questa terra desolata, dimenticata da tutti tranne che da Dio, credevi nella metempsicosi: dicevi che siamo tutti vagabondi in questo mondo, vagabondi che attraversano le regioni planetarie alla ricerca del principio perduto, sullo sfondo di una luce pulviscolare che ci penetra, e il simbolo che tutto racchiude sono due triangoli sovrapposti che si compenetrano, il mondo universale è la sintesi di una forma geometrica priva di volto: l’Idea radiosa posta al centro del cristallo della nostra mente, al margine di un testo implicito. Tornare all’origine, sfiorare il Ragpa, la base primordiale del pensiero, ricordare la nostra vera natura, come fa il sapiente alla guida dell’Auriga alata, mentre combatte contro il cavallo nero per mantenere il controllo della propria interiorità. Rompere la proiezione karmica che ci vuole ostaggi del Bardo, attraverso l’atto conoscitivo più importante, quello del ricordo: la reminiscenza della verità andata perduta, e dissolverci in luce, o in arcobaleno.      

E io per capirti dovevo studiare di più, leggere di più, consultare manuali della luce, per calcolare la traiettoria dei satelliti, per sintonizzarmi con il colore della tua psiche, la Via Lattea che viaggia a duecento chilometri al secondo, un intero Mahabharata di angoscia interplanetaria; il tuo girovita aveva lo stesso diametro dell’universo, trenta miliardi di anni luce compressa, e la tua mente che correva alla stessa velocità del quadrato della luce: trecento mila per trecento mila chilometri al secondo e oltre, al quadrato, tu che sei stata Giove che ce l’ha fatta e è divenuta stella, supernovae eterna e immutabile nel cielo delle mie stelle fisse; te ne sei andata lasciandomi con un falafel in mano, intinto nell’hummus fresco, e una Grande Macchia Nera nella circonferenza delle Galassie.

Quelli che ho davanti, lungo la valle del Giordano, sono tre pannelli distinti – ma non mi trovavo nello stato di Chihuahua?, e poi a Jaffa?; sono forse in tutti e in nessun luogo, contemporaneamente;  ho attraversato il punto esatto in cui è possibile osservare, senza confondersi, tutti i luoghi della tera in unico attimo, istantaneo ma dilatato, da ogni angolo; e lo spazio tra cielo e terra è un campo di fiori, il cui centro spezzato è irradiato da una sfera cangiante di quasi intollerabile fulgore, la stessa insopportabile sofferenza che accompagna il fedele maomettano con lo sguardo fisso nel mihrab, implorante la qibla, che gli indichi la direzione verso la Mecca; ma, una volta distolti gli occhi dal mezzo, raggiunge la consapevolezza che lo spazio tra cielo e terra è una visione che si espande dal Centro: perché la vita non finirà mai più e tutto ricomincia ancora, ancora, e ancora…  –.

Gli stessi pannelli del Giardino delle delizie: distese infinite intorno, la tua voce sullo sfondo, Anna, che tutto permea e ricopre di un colore nuovo, mai visto prima, i campi di iris selvatico; nel primo pannello rivedo Adamo e Eva, in Paradiso, con il Figlio di Dio posto al centro, e sullo sfondo l’Albero della Conoscenza; nel secondo il Giardino dell’Eden, i cui esseri bizzarri che popolano la scena proliferano da ogni parte in un carnevale dionisiaco sfrenato: Tutto è dentro tutto, non ci sono pause tra le azioni che avvengono, ogni cosa accade simultaneamente attraverso le tre dimensioni del tempo, penetrandosi a vicenda e facendo il suo ingresso nel tempo puro; e, infine, l’inferno: una pioggia di zolfo, il caldo dei tristi tropici, torture perpetrate in ogni angolo da un Genio maligno, il cui ghigno beffardo, mi accorgo soltanto ora, è lo stesso del mio volto contraffatto – in questo momento che, mentre inalo polveri di cactus, per ripararmi dai morsi del serpente, l’Uroboro destato dal suo sonno, mi sorprende sul fianco destro nel tentativo di strapparmi le carni con un morso, e, per scansarlo, recito i versi sacri appresi nella mia residenza qui, nel paese dei Tarahumara:

na  he ne ne ya no wits nai ya

E, in pochi istanti, mi salvo da un destino che immaginavo già segnato, irreversibilmente –.

Fisso il mio ritratto: un viso ovoidale, inciso su di una scultura priva di colore, anonima. Le urla dei dannati intorno mi tormentano, sento soffocarmi, mancare l’aria dalle narici che aspirano il sentore della morte che vorrebbe ricondurmi a te, Anna. L’amore della mia vita inutile, il volto della Storia, privato di punti fermi, come Jean–Paul Sartre quando si inietta la mescalina in vena. E vedevo, come ora, soltanto crostacei dalle dimensioni gigantesche, mostruose, e cefalopodi minacciosi che mi divorano. Mi strappano via gli occhi e ne fanno poltiglia. Poi li risputano, ma, inavvertitamente, gli schiaccio. E devo attendere che rinascano sotto nuova forma all’interno delle mie orbite vuote, il cui fondo è illuminato da una lucina proveniente da un faro nascosto, microscopico – posto all’interno di microfessure del mio organismo, accessibili solamente al Terzo Occhio (l‘unico rimasto) –, e un carnevale di statue percorre la strada che conduce al mio cervello, i cui emisferi non presentano più divisione alcuna, ma sono una unica compatta forma scintillante della stessa caratura di un cristallo striato che tutto rischiara, e, soltanto in questo modo, posso convincermi che sto per slegarmi e compiere il folle volo verso di te.

Ci siamo conosciuti a scuola. Quando ancora insegnavo filosofia ai banchi vuoti, perché i figli degli industriali erano già altrove, il posto assicurato, lo stipendio, la moto, le droghe e tutto il resto. Parlavo di Platone, del suo libro dei morti, quello che insegna la dottrina dell’immortalità dell’anima: e tu ci credevi, vedevi sempre al di là. Parlavo di Hannah Harendt e degli ebrei, di Adolf Eichmann, del processo di Gerusalemme e della sua cupola splendente, e tuo figlio, con gli occhi rivolti al soffitto – come se ricercasse la presenza del divino nel reale –, alzava la mano e mi chiedeva: Come è possibile rinascere, se in vita, abbiamo compiuto il male?, e, incapace di risposte precise, fissavo il cortile fuori dalla finestra, incorniciato come un dipinto piazzato in mezzo al mare che, in un gioco di specchi e incastri, si moltiplicava al suo interno aprendosi in altrettante stilizzazioni di quel cortile incorniciato, e ancora, in scala sempre più piccoli. Il male è ovunque, Amish, ma non piangere, non avere paura. E tingiti quei primi capelli bianchi. La via verso la sapienza è lastricata di dubbi e domande irrisolte, ma tu non devi avere paura, c’è Anna con te, lei saprà inoltrarti in boschi senza luce, e solo allora saprai perché ti ha scelto, tua madre…, dissi, e Amish ricambiò il mio sguardo con occhi lucidi e trasparenti.

Royal Botanic Gardens, Kew; (c) Royal Botanic Gardens, Kew (book); Supplied by The Public Catalogue Foundation

Sì, così come noi siamo stati scelti per innamorarci, in un pomeriggio di luglio, con il caldo torrido fuori e le tempeste dentro. Mentre dissertavamo sulle angolazioni delle costellazioni, Cassiopea e Andromeda, noi prometei falliti, tesi eroicamente verso la luce di un fuoco invisibile che rischiarava i nostri corpi stesi sulla spiaggia, tra parole morte prima di essere pronunciate e attese tradite, albe e tramonti mai visti. Mi parlasti con parole potenti, verghe acuminate, mentre dai tuoi occhi zampillavano lacrime madreperlacee su cui mi riflettevo scindendomi in mille pezzi, frantumando il mio passato nel tuo presente, dissolvendo il futuro nel fumo delle nostre incertezze condivise. Non possiamo farcela, non durerà!, dissi, mentre ti stringevo i fianchi, il girovita dell’universo, e indicavo una stella qualsiasi nel firmamento infinito, tra schiocchi di baci rubati e bottiglie vuote intorno. Partimmo, il mese successivo. Visitammo la tua terra. Jaffa, la cui radura vastissima era il corrispettivo della valle dell’essere, uno spazio così accecante da estinguere ogni senso e ridare speranza a tutti i sogni infranti. Danzammo la dabke, brindammo con cardamomo e vino rosso, mangiammo seduti sulla spianata delle moschee, sbattendo le nostre teste ciondolanti lungo i muri del pianto interiori. Ci promettemmo amore eterno, mentre Amish preparava la sua tesina sul processo di Norimberga. Mai avrei pensato che, per una emorragia della mente, te ne saresti andata lasciandomi sul più bello: proprio quando per te, avrei comprato la luna. La stessa luna che, adesso, mi intima di non fermarmi, di seguire il dio che danza nella densa notte di tenebre del mondo, quando gli occhi di tutti gli organismi esistenti piangeranno lacrime di incredibile compattezza, e stenderemo un ponte sospeso per annullare ogni distanza, e finalmente ritornare da te. La vita esiste solo quando svanisce ogni formula che riconduca la realtà a un teorema, quello del delirio, e tutto ciò che viene dopo è artificio, l’inganno di un dio pantocratore.

La notte ti chiamo forte, ma è un incubo. Mi sveglio di soprassalto. Conto le macchie sul soffitto e piango sul cuore schiacciato da un rullo compressore immaginario, dopo mi affaccio alla finestra, come facevo a scuola, e penso a Amish: chi si prenderà cura di lui?, come faccio a farlo io, che non riesco più a guardarmi allo specchio, e sono tornato in Messico, come avevo già fatto quando persi mio padre, per ritrovarlo nell’oblio sonoro di queste danze mistiche, ma mentre fisso la mia attenzione su un punto indefinito di ciò che mi circonda, riaffiorano le immagini di demoni che mi perseguitano: un mostro invisibile mi afferra dalle spalle e mi sbatte da una parte all’altra, un nativo si gratta ossessivamente sul petto, battendoselo a intermittenza, e digrigna i denti esplodendo in una risata abissale, come me durante il sonno – ma sono sveglio?, in questo momento?, sto ancora dormendo? Che ore sono: ti prego: FALLO FINIRE ADESSO! -.

La tua immagine emerge da uno sciame di fiamme incandescenti – Stephen, è ora: SVEGLIATI!, disse, quel geode dischiuso dai mille prismi –, mentre rughe striate ti solcano il vinile del tuo volto scolpito. Una bocca spalancata, il cui rictus rimanda echi distorti di un disco suonato all’incontrario, e i piedi dei Tarahumara battono all’unisono sul campo, e bonghi, tamburi, continuano imperterriti a essere colpiti:               

                                                  Ya A Ya Ya A Ya A! Ya A Ya Ya A Ya A!

Qualcuno mi picchietta, sulla spalla. Quando riapro gli occhi alberi arsi e trifogli intorno, odore di pino selvatico, foglie sparse ovunque e rumore di canali che fluiscono. Mi trascinano issandomi sopra un lettino di paglia, mentre con le mani protese accarezzo la vegetazione più fitta. Altri cantano ancora, recitano inni incomprensibili, depositi di una tradizione millenaria lungo la Via del Peyote. Quello che rimane è un residuo psichedelico ingombrante, come i sogni, di cui avrei fatto a meno se non avessi avuto la certezza che ti avrei rincontrato, Anna. Mi sto per slegare.

E ora, torno a vagare nei deserti di orrore e di nevi, e sprofondo nella contemplazione.        

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