Il mito del successo individuale

La scienza economica ha lavorato molto per legittimare l’idea che l’individuo sia l’unico responsabile del proprio destino. Ma non è stato sempre così; questa scelta è frutto di lunghi scontri nell’arco di oltre due secoli tra diverse correnti di pensiero.


IN COPERTINA: Sandro Chia, Senza Titolo, 2006, oggi all’Asta alla galleria pananti

Questo testo è un’anticipazione da “Trattato di economia eretica”, di Thomas Porcher, in uscita il 16 luglio. Ringraziamo Meltemi per la gentile concessione.


di Thomas Porcher

L’esigua percentuale di individui che si accaparra la maggior parte delle ricchezze ha tutto l’interesse a far credere di meritarlo. Non c’è modo migliore, per prevalere sugli altri, che far passare come verità inconfutabile l’idea che sia l’individuo il solo artefice del proprio destino e che soltanto dal suo comportamento dipendano il successo o il fallimento. Questa narrazione si ritrova in tutte le biografie o nei programmi dedicati a uomini politici, boss, artisti o sportivi. Tutti pongono alla base del successo ottenuto la propria personalità anziché le istituzioni che hanno permesso di conseguirlo; con politiche fiscali agevolate per i grandi redditi, legittimate dal considerare l’accumulo di immense ricchezze come derivante esclusivamente dal proprio talento e la cui tassazione risulterebbe quindi un furto; con politiche umilianti nei confronti dei disoccupati che, giudicati dei parassiti, devono accettare di essere sistematicamente controllati se vogliono evitare una diminuzione del sussidio di disoccupazione. Ecco come si manifesta concretamente la parabola dell’uomo artefice del proprio destino. Eppure la realtà è molto diversa e i fatti dimostrano che la volontà individuale non può molto contro la “riproduzione sociale”.

La scienza economica e l’individuo

La scienza economica ha lavorato molto per legittimare l’idea che l’individuo sia l’unico responsabile del proprio destino. Ma non è stato sempre così; questa scelta è frutto di lunghi scontri nell’arco di oltre due secoli tra diverse correnti di pensiero. Nel XVIII secolo l’economista Adam Smith, considerato il fondatore dell’economia politica, pubblica il suo libro intitolato Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni . Nella sua opera, Smith compie una vera e propria inchiesta sulla genesi della ricchezza delle nazioni. La sua idea si sviluppa dalle premesse della rivoluzione industriale in Inghilterra ma anche dal fatto che legittimi ideologicamente l’ordine economico esistente. Smith poneva al centro della propria analisi i problemi della ripartizione delle ricchezze prodotte dalle tre classi sociali: capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. All’epoca non si parlava dell’individuo in quanto tale, quanto piuttosto della classe alla quale faceva riferimento. Per Adam Smith, il profitto è il motore dell’economia. O meglio, i capitalisti avevano un ruolo di primo piano: comprimere il più possibile i salari dei lavoratori. Comparve allora il concetto di salario di sussistenza, l’antenato del salario minimo, che permetteva all’operaio di nutrirsi, lui e la sua famiglia (affinché i bambini potessero diventare i futuri operai), e di essere in condizione di lavorare in fabbrica. Fondamentalmente però, la retribuzione non doveva permettere al lavoratore di risparmiare, per non lasciargli alcuna possibilità di diventare lui stesso, un giorno, un capitalista. Nella visione di Smith c’era dunque una chiara opposizione tra due classi sociali: i lavoratori e i capitalisti. D’altronde egli riconosceva il carattere non egualitario dell’economia, ma lo riteneva necessario e sosteneva che alla fine, grazie all’accumulo delle ricchezze – e ciò che alcuni più tardi chiameranno trinkle down –, “L’operaio inglese più povero sarà comunque più ricco di un principe indiano”. La dinamica dell’economia capitalista difesa da Smith è quindi basata sulla disuguaglianza tra le classi sociali, ma in maniera tale che, in fin dei conti, la creazione della ricchezza andrà a beneficio di tutti.

È partendo da questa presumibile visione di scontro “vincitore contro vincitore” tra le classi sociali che nel XIX secolo Karl Marx svilupperà, nel suo libro Il capitale, la teoria dello sfruttamento, punto di partenza per la lotta di classe. Per Marx, i capitalisti possono esercitare il loro potere sui lavoratori perché detengono i mezzi di produzione mentre i lavoratori non possono che vendere il proprio lavoro e sono quindi obbligati ad affidarsi ai capitalisti. Questa asimmetria, generata dal possesso di capitale, permette al capitalista di sfruttare i suoi operai soprattutto facendoli lavorare più a lungo di quanto giustifichi la remunerazione. Marx evidenzia un punto importante: se i lavoratori fossero pagati per ciò che producono, il capitalista non otterrebbe alcun profitto, quindi pagare il salariato meno di quello che rende è la logica del capitalismo. Ne Il capitale, rivela la violenza dell’ostilità tra classi sociali e la prevalenza di una sull’altra. Allo stesso tempo spiega che più i lavoratori saranno sfruttati, più aumenterà la loro opposizione al capitalismo. La logica economica di Adam Smith e degli economisti classici è così smascherata.

Di fronte a queste rivelazioni e al successo che ottennero, l’economia classica era necessariamente costretta a controbattere. L’onere spetterà a una corrente di pensiero nata alla fine del XIX secolo: quella dei cosiddetti “neoclassici”, che si sforzarono di screditare l’influenza degli equilibri di potere tra classi sociali, focalizzando piuttosto l’analisi sull’individuo e sul funzionamento del mercato. Gli esponenti di questa teoria cercheranno oltretutto di far assumere all’economia le sembianze di una scienza neutra, formulando modelli sempre più sofisticati sulla base di ipotesi sempre meno realistiche. John Bates Clark, un pioniere della corrente neoclassica, spiegherà che gli agenti economici sono remunerati in funzione della loro produttività marginale, vale a dire che ciascuno riceve in funzione di ciò che ha prodotto. Il salario per i pensatori neoclassici non dipende dunque più dal rapporto di forza tra capitalisti e salariati, ma dalle capacità del lavoratore; se è dotato, allora sarà ben pagato e viceversa. Per Marx i teorici classici avevano omesso di descrivere la base della logica capitalista dell’accumulazione della ricchezza, ossia lo sfruttamento della classe lavoratrice da parte dei capitalisti. Gli appartenenti alla corrente neoclassica sminuiscono la questione dello sfruttamento gettando le basi della microeconomia, ossia focalizzando lo studio dell’economia sull’individuo. Da quel momento in poi i salari non dipenderanno più dai rapporti di forza o dallo sfruttamento, ma saranno in funzione del valore del lavoratore (ovvero della sua produttività). Ragionare in questo modo permetterà di scostarsi dall’idea di relazione sfruttatore-sfruttato evidenziata nell’analisi di Marx.

L’individuo, definito talvolta Homo œconomicus o agente rappresentativo, assume dunque progressivamente un ruolo cruciale nell’analisi economica. Gli economisti della corrente neoclassica hanno fornito validità teorica all’ordine economico esistente e molte delle loro teorie sono state utilizzate dalla borghesia contro le rivendicazioni operaie derivanti dall’analisi marxista. In questo modo, il loro successo dal 1900 in poi si spiega anche alla luce del timore di una rivoluzione imminente. Gli economisti ci illustrano, quindi, che un individuo è un essere “razionale”, privo di condizionamento sociale e motivato dagli obiettivi che si prefigge. Nel corso della sua esistenza, l’agente economico dovrà quindi scendere ai giusti compromessi per raggiungere i propri obiettivi: tempo dedicato a lavoro e studio, per aumentare il valore del proprio capitale umano e quindi il suo salario futuro sul mercato; scelta tra lavoro e tempo libero, per potersi permettere di consumare, ecc. In questa visione del mondo, il destino di un individuo non dipende altro che dalle proprie scelte e sta dunque a lui decidere con oculatezza. Se azzecca il suo piano di studi, avrà un lavoro ben pagato. Se preferisce il lavoro al tempo libero, potrà consumare di più. Alla fine, se sarà produttivo, il suo stipendio aumenterà. Certo, c’è del buon senso in queste affermazioni, ma le scelte individuali sono spesso influenzate dall’estrazione sociale, la grande assente dell’analisi economica.

Sandro Chia, Senza Titolo, 2006, Asta Pananti online

Elon Musk, Steve Jobs o Mark Zuckerberg, perché sono (sempre!) gli americani ad avere successo?

Tutte le biografie di questi giovani imprenditori miliardari raccontano la stessa favola: l’ascesa fulminea di una personalità straordinaria. I segni precoci di un carattere eccezionale si notano fin dall’infanzia; un vecchio professore si ricorda di uno studente turbolento che ha urgenza di fare; in seguito il gruppo dei compagni universitari testimonia le qualità di leadership del futuro miliardario che già si affermavano durante gli anni di studio; e infine la compagna racconta l’amore e il supporto indispensabile che gli ha dedicato, fattori essenziali per qualsiasi ascesa. Questa è, nella maggior parte dei casi, la presentazione all’acqua di rose del percorso di questi giovani imprenditori, che difficilmente si estende oltre l’ambito personale e quello dei suoi cari. Le ragioni del successo risiederebbero nelle caratteristiche dell’individuo – in particolare il famoso spirito imprenditoriale – più che nelle circostanze che gli hanno permesso di raggiungerlo.

Se lo spirito imprenditoriale fosse l’unica caratteristica necessaria al successo, i paesi in via di sviluppo sarebbero i più ricchi del mondo. Gli abitanti di questi paesi non dispongono di grandi imprese nazionali che possano impiegarli (spesso lavorano per multinazionali con ruoli qualificati e poco retribuiti). Non hanno accesso a finanziamenti per avviare la propria attività (a eccezione del microcredito con tassi di interesse molto elevati, che consentono di realizzare solo micro-progetti). Nel caso siano dipendenti pubblici, spesso i salari sono bassi e pagati in ritardo. Quindi, per colmare le carenze istituzionali, sviluppano parallelamente un’imprenditoria di sopravvivenza con un’ingegnosità impressionante. Gestione dei parcheggi e sorveglianza dei veicoli, riparazione degli oggetti più disparati, ogni tipo di servizio alla persona… Non essendoci più spazio nell’economia, tutto ciò che può fruttare qualche dollaro è subordinato alla creazione di un servizio. Lo spirito imprenditoriale è portato all’esasperazione, ma sfortunatamente nessuno degli imprenditori di questi paesi diventerà il nuovo Elon Musk. E come mai? Non perché sia meno intelligente, ma per il semplice fatto che non dispone delle stesse organizzazioni e istituzioni che gli permetterebbero di avere accesso alla formazione, alle risorse finanziarie necessarie e a un ambiente economico adeguato. Warren Buffett, un uomo d’affari miliardario americano, ha opportunamente puntualizzato a tal proposito: “Personalmente, penso che la società sia responsabile di una percentuale significativa di ciò che ho guadagnato. Piazzatemi nel bel mezzo del Bangladesh, del Perù o in qualsiasi altro posto, e vedrete cosa è davvero in grado di produrre il mio talento quando si ritrova in un territorio non favorevole! Fra trent’anni starei ancora lottando!”.

Il successo individuale è anzitutto collettivo perché dipende dalle politiche messe in atto dalle istituzioni e dal capitale produttivo, umano e sociale di un paese. Prendiamo il caso di Steve Jobs. Oltre alle innegabili qualità dell’uomo, il successo dell’iPhone non sarebbe stato possibile senza Internet, senza il touchscreen, senza GPS o senza il riconoscimento vocale. Tuttavia, tutte queste innovazioni provengono dal settore pubblico americano: Internet, GPS e riconoscimento vocale sono stati sviluppati nell’ambito dei programmi di ricerca del Dipartimento della Difesa e il touchscreen è stato inventato da un professore universitario e da un suo dottorando grazie ai finanziamenti pubblici.

Dunque il successo dell’iPhone non si spiega soltanto con il talento di Steve Jobs, ma grazie agli anni di ricerca e agli investimenti pubblici effettuati a monte. Una versione della storia di Apple troppo poco raccontata, troppo spesso sostituita dal favoloso destino e dalle straordinarie qualità del suo fondatore. Questo tipo di narrazione, che astrae i patrimoni accumulati dal loro contesto, è un pilastro importante per legittimare politiche fiscali accomodanti con i più abbienti o addirittura per una certa dose di lassismo, che arriva a giustificare l’evasione fiscale. Ma la realtà è che, anche individuando manager altrettanto brillanti come Steve Jobs, il successo di Apple non è riproducibile in nessun altro paese al di fuori degli Stati Uniti. Il fatto di avere successo non è una mera questione legata alle qualità individuali. Se gli americani primeggiano nel campo delle nuove tecnologie, è perché ci sono stati investimenti pubblici ai vertici della catena dell’innovazione e uno Stato che ha creato e plasmato questi mercati del futuro, lasciando agli imprenditori il compito di intercettare le innovazioni e commercializzarle. Le imposte, tanto odiate dalla classe imprenditoriale, sono preziose perché alimentano a tutti gli effetti la loro stessa prosperità. È lo Stato, attraverso interventi oculati, che crea il contesto necessario per il loro successo.

Come abbiamo reso il disoccupato responsabile della propria situazione

All’estremo opposto del successo, allo stesso modo il fallimento è considerato un processo individuale. L’origine della disoccupazione andrebbe ricercata nel comportamento dell’individuo, che dovrebbe essere maggiormente stimolato (per esempio riducendo le indennità di disoccupazione), quindi meglio incanalato (vietandogli di rifiutare più di due offerte di lavoro) e, infine, più formato (per soddisfare i settori in crescita, poco importa che il disoccupato abbia altre aspirazioni). Inoltre, bisognerebbe indagare questa individualizzazione del problema della disoccupazione nella rappresentazione teorica fornita dall’economia. La corrente di pensiero dominante (quella dei neoclassici) ci spiega che un individuo sceglie tra lavoro e tempo libero in funzione della remunerazione proposta dal mercato del lavoro. Se considera lo stipendio soddisfacente, allora accetta di sacrificare il suo tempo libero per lavorare. Al contrario, se reputa che il salario non sia adeguato, sceglie il tempo libero e diventa un “disoccupato volontario”. In quest’ottica, la disoccupazione sarebbe dunque il risultato di una scelta individuale e voluta tra il tempo libero e il lavoro.

La teoria, in realtà, nasconde il desiderio di veicolare valori di natura morale. Da un lato ci sarebbero i “lavoratori coraggiosi” che accettano un salario basso e dall’altro i “fannulloni” che, a parità di salario, preferiscono il tempo libero. La legittimazione dell’individuo come responsabile del proprio destino e la stigmatizzazione dei disoccupati che ne deriva trovano fondamento in questa rappresentazione della dottrina economica. Nell’economia tradizionale la questione della disoccupazione in sostanza nasconde un pregiudizio morale che incolpa i disoccupati di essere degli scansafatiche. Andrebbero spronati con punizioni e obblighi.

Questo modo di dipingere i disoccupati trova un’eco clamorosa nei nostri pregiudizi più elementari: dopotutto, il tasso di disoccupazione della Grecia pari al 21% non si spiega soltanto con il fatto che il popolo greco sia considerato ozioso (e imbroglione, dal momento che ha falsificato i propri bilanci per poter entrare nella zona euro)? Sole e mare non lo tenterebbe a propendere per il tempo libero anziché per il lavoro? Al contrario, il basso tasso di disoccupazione tedesco non potrebbe essere giustificato dalla rigorosa natura teutonica e dalla preoccupazione di fare sempre un buon lavoro? Non è forse questa, in un modo decisamente più tecnocratico, la rappresentazione fornita dalla Commissione europea, che costringe i greci a lavorare più a lungo e riduce le indennità di disoccupazione e le pensioni di anzianità? Non è quello che fanno le nostre élite tessendo le lodi del modello tedesco, che tutti dovremmo copiare da cima a fondo? Vietando, di fatto, qualsiasi critica? Il pregiudizio e la volontà di colpevolizzare sono reali, dissimulati a stento da un gergo teorico.

Tuttavia, questa rappresentazione dei disoccupati non regge. Salvo pensare che ci possano essere periodi in cui si sono abbattute, quasi per caso, “epidemie di pigrizia”, come nel 1929 e nel 2008, gli anni delle due crisi economiche più importanti. Perché proprio in questi due anni milioni di persone hanno preferito il tempo libero al lavoro? Perché dal 2008 in Francia un milione e mezzo di persone ha preferito la disoccupazione all’impiego? Perché, nello stesso momento, 3,3 milioni di spagnoli hanno fatto la stessa scelta dei francesi, per divertirsi? Cosa giustifica la scelta di questi individui? Coloro che conoscono o hanno vissuto la disoccupazione nella loro vita sanno che queste sono teorie allucinanti e che la disoccupazione non è il risultato di una scelta individuale, ma il più delle volte di una tragedia subita. E la politica economica ne è spesso la principale responsabile.

Scegliendo così di ridurre rapidamente i disavanzi a partire dal 2011, i paesi della zona euro hanno chiaramente preso decisioni sfavorevoli all’occupazione. Con l’attuazione delle politiche di austerity, i leader europei hanno dato origine a una contrazione dell’attività economica che ha aggravato la disoccupazione. Nello stesso periodo, gli Stati Uniti stavano facendo esattamente il contrario, aumentando i loro deficit per sostenere la crescita economica. La cosa peggiore è che nel 2011, prima di queste assurde scelte di politica economica, il PIL era quasi tornato al livello pre-crisi (nel 2007). I leader europei hanno praticamente stroncato la ripresa e prodotto una crisi dell’eurozona ad hoc. Bisognerà aspettare il 2016 affinché l’eurozona torni al livello pre-crisi del PIL. Sono in primo luogo queste catastrofiche decisioni di politica economica a spiegare l’aumento della disoccupazione, sicuramente non la mancanza di motivazione o di formazione dei disoccupati. Il problema è macroeconomico (a livello di politiche economiche), non microeconomico (a livello dei disoccupati). I leader dell’eurozona sono i responsabili e i disoccupati le vittime di queste politiche.

Le politiche macroeconomiche appaiono astratte agli occhi del cittadino, così astruse che i corresponsabili di questi fallimenti, i politici al potere (Angela Merkel e Nicolas Sarkozy in primis, poi tutti gli altri che seguirono senza mai mettere in discussione questi trattati), non hanno mai dovuto giustificarsi. Interrogare i responsabili rispetto a uno dei maggiori disastri economici – la gestione catastrofica della zona euro – sembra anomalo. Al contrario, dire a un disoccupato che deve farsi carico della propria vita, dimostrare buona fede, accettare offerte di lavoro che non corrispondono alle sue qualifiche, non fare il difficile, acconsentire alla formazione anche se non è interessato, accettare diversi lavori precari, sembra essere puro buonsenso. L’economia dispone degli strumenti per attuare buone politiche economiche che potrebbero creare posti di lavoro, avviare la transizione energetica o ridurre il debito. I politici che rifiutano di usare questi strumenti o che li hanno usati in modo errato sono molto felici di non doversi giustificare.

Nessuno sceglie la disoccupazione. Chi sostiene queste politiche umilianti probabilmente non l’ha mai sperimentata. Altrimenti saprebbe che spezza vite intere; che spesso è vissuta come un fallimento personale; che destabilizza l’unità familiare e porta al divorzio; che provoca isolamento e spinge frequentemente al suicidio; e che ogni giorno la vergogna cresce perché il pensiero imperante tende a dipingere il disoccupato come responsabile del suo status.

Tuttavia, attribuire la responsabilità di questa situazione a un singolo individuo è un non-sense economico. Un disoccupato, per quanto coraggioso, troverà difficilmente lavoro in una congiuntura economica negativa e, al contrario, un “fannullone” ne otterrà rapidamente uno in una fase di crescita. Pertanto, un individuo non ha alcuna influenza (o assolutamente minima) sull’economia, per definizione instabile e ciclica, ma ne sopporta i capricci congiunturali. Spetta ai nostri rappresentanti eletti utilizzare gli strumenti di politica economica per cercare di stabilizzare l’economia. Quando effettuano scelte sbagliate – come spesso accade da più di trent’anni – sono i disoccupati a pagarne le conseguenze. È necessario invertire il nesso di causalità; i disoccupati sono vittime, patiscono la crisi, martiri delle aberrazioni economiche dei politici.

L’individualizzazione di successi e fallimenti è un’illusione. A ben vedere, il 75% dello stato socio-economico di un individuo deriva dall’estrazione sociale. Certamente ci sono eccezioni, esistono percorsi personali impressionanti, sempre messi in evidenza dai ceti sociali più elevati per tener vivo il mito del supereroe, artefice del proprio destino. Ma, di fatto, la forza di volontà non ha molto peso rispetto alla riproduzione sociale e far credere alle persone che “volere è potere” è principalmente una sottile manovra di dominio, che consente alle classi sociali agiate di giustificare il loro status. E poter così contribuire il meno possibile al funzionamento del resto della società. Perché pagare le imposte, quando si deve tutto a sé stessi? D’altra parte si rendono i disoccupati responsabili della loro condizione per evitare di designare altri colpevoli, come la politica di bilancio europea, l’euro, la finanziarizzazione dell’economia o il libero scambio. Tanti dogmi ai quali sono assoggettati i nostri leader, che scelgono di sacrificare delle vite in nome di un catechismo economico appreso sui banchi delle Grandes Écoles.


Thomas Porcher economista, è professore associato alla Paris School of Business. Membro dal 2016 del collettivo Les Économistes atterrés, è autore di varie opere critiche, tra cui Introduction inquiète à la Macron-économie, e di diverse pubblicazioni in riviste accademiche internazionali.

2 comments on “Il mito del successo individuale

  1. Massimo

    Analisi puntuale, sia da un punto di vista storico che economico.

  2. Analisi lucida e pregnante delle falsità dell’ideologia capitalista.

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