il mito della bellezza

Analizzando ed elaborando il concetto di bellezza, Wolf compie un percorso provocatorio e appassionato attraverso le varie fasi della vita di una donna: dal lavoro al sesso, dalla cultura all’alimentazione, dal rapporto con gli uomini a quello con le altre donne.


IN COPERTINA e nel testo, The beautiful butcher, di Francis Picabia

Questo testo è un estratto da Il mito della bellezza, di Naomi Wolf, ringraziamo Edizioni Tlon per la gentile concessione.


di Naomi Wolf

Finalmente, dopo un lungo silenzio, le donne sono scese per le strade. Nei due decenni di azione radicale seguiti alla rinascita del femminismo nei primi anni Settanta, le donne occidentali hanno conquistato diritti legali e riproduttivi, hanno cercato di raggiungere livelli più alti di istruzione, hanno avuto accesso a mestieri e professioni, e hanno sovvertito le antiche e venerate convinzioni sul loro ruolo sociale. A una generazione di distanza, le donne si sentono libere?

Le donne ricche, istruite e liberate del “Primo mondo”, che possono godere di libertà di cui nessuna di loro aveva mai potuto beneficiare in passato, non si sentono libere come vorrebbero. E non possono più relegare nel subconscio la sensazione che questa mancanza di libertà ha qualcosa a che vedere con… problemi frivoli, cose che non dovrebbero avere nessuna importanza. Molte si vergognano di ammettere che queste futilità, che riguardano l’aspetto fisico, il corpo, il viso, i capelli, i vestiti, abbiano un peso così grande. Ma nonostante la vergogna, il senso di colpa e il rifiuto, cresce sempre più il numero delle donne che si chiedono se non siano totalmente nevrotiche e sole; e anche se non ci sia in gioco qualcosa di importante, che ha a che fare con il rapporto tra la liberazione delle donne e la bellezza femminile.

Quanto più numerosi sono gli ostacoli legali e materiali che le donne hanno abbattuto, tanto più le immagini della bellezza femminile sono arrivate a gravare su di loro in modo rigido, pesante e crudele. Molte donne hanno la sensazione che il progresso femminile sia giunto a un punto morto. Si è diffuso un clima deprimente di confusione, di divisione, di cinismo e soprattutto di svuotamento. Dopo anni di lotte e scarsi riconoscimenti, le donne più anziane si sono spente, e le più giovani mostrano di non essere molto interessate a raccogliere il testimone.

Nell’ultimo decennio le donne hanno infranto le strutture del potere; contemporaneamente i disturbi legati all’alimentazione sono cresciuti in maniera esponenziale, e la chirurgia estetica è diventata la specialità medica che si è sviluppata più rapidamente. Negli ultimi cinque anni le spese consumistiche sono raddoppiate, la pornografia è diventata la principale fonte di guadagno nell’ambito dei mass media, e trentatremila donne americane hanno fatto sapere ai ricercatori che preferirebbero perdere da cinque a sette chili piuttosto che raggiungere un qualsiasi altro obiettivo. C’è un numero sempre crescente di donne che hanno più denaro, più potere, più opportunità, più riconoscimenti legali; ma per come si giudicano dal punto di vista fisico, probabilmente stanno peggio delle loro nonne non ancora emancipate. Recenti ricerche dimostrano chiaramente che nell’intimo della maggioranza delle donne occidentali autocontrollate, attraenti e di successo c’è una corrente segreta che avvelena la loro libertà: una vena oscura, pervasa da nozioni di bellezza, che suscita odio di sé, ossessioni fisiche, terrore di invecchiare, paura di perdere il controllo.

Non è un caso che tante donne potenzialmente influenti provino queste sensazioni. Siamo nel bel mezzo di una violenta reazione al femminismo, che usa le immagini della bellezza femminile come arma politica contro il progresso delle donne: il mito della bellezza. È la versione moderna di un riflesso sociale in vigore fin dai tempi della Rivoluzione industriale.

Quando le donne si sono liberate della Mistica della femminilità della vita domestica, il mito della bellezza si è sostituito a essa, espandendosi per portare avanti la sua opera di controllo sociale. La reazione contemporanea è così violenta perché l’ideologia della bellezza è l’ultima rimasta delle vecchie ideologie femminili che ha ancora il potere di controllare quelle donne, che il femminismo della seconda ondata avrebbe altrimenti reso incontrollabili. Si è rafforzata per assumere l’opera di coercizione sociale che i miti sulla maternità, la domesticità, la castità e la passività non riescono più a gestire. Sta cercando in questo momento di annullare tacitamente, e a livello psicologico, tutto ciò che di buono il femminismo ha fatto per le donne sul piano materiale.

Questa reazione sta operando per mettere in scacco l’eredità del femminismo a tutti i livelli della vita delle donne occidentali. Il femminismo ci ha offerto leggi contro la discriminazione sul lavoro basata sul genere; immediatamente si è sviluppata una giurisprudenza in Gran Bretagna e negli Stati Uniti che ha istituzionalizzato la discriminazione sul lavoro basata sull’aspetto delle donne. La religione patriarcale è decaduta; sono sorti nuovi dogmi religiosi intorno all’età e al peso per soppiantare il rituale tradizionale, utilizzando alcune delle tecniche di alterazione della mente tipiche dei culti e delle sette più antiche. Le femministe, ispirate da Friedan, ruppero la morsa sulla stampa popolare femminile degli inserzionisti di prodotti per la casa, che promuovevano la Mistica della femminilità; in un colpo solo, le industrie della dieta e della cura della pelle divennero i nuovi censori culturali dello spazio intellettuale delle donne e, a causa della loro pressione, la modella giovane e magra soppiantò la casalinga felice come arbitro della femminilità di successo. La rivoluzione sessuale ha promosso la scoperta della sessualità femminile; la “pornografia della bellezza” che per la prima volta nella storia delle donne collega artificialmente una “bellezza” mercificata alla sessualità in modo diretto ed esplicito ha invaso il mainstream per minare il nuovo e vulnerabile senso di autostima sessuale delle donne. I diritti riproduttivi hanno dato alle donne occidentali il controllo sul proprio corpo; il peso delle modelle è crollato al 23% in meno rispetto a quello delle donne comuni, i disturbi alimentari sono aumentati in modo esponenziale ed è stata promossa una nevrosi di massa che ha usato il cibo e il peso per privare le donne di quel senso di controllo. Le donne hanno insistito sulla politicizzazione della salute; le nuove tecnologie di chirurgia “estetica”, invasive e potenzialmente mortali, si sono sviluppate rapidamente per riesercitare le vecchie forme di controllo medico sulle donne.

Ogni generazione dagli anni Trenta dell’Ottocento ha dovuto combattere la sua versione del mito della bellezza. «È molto poco per me», diceva la suffragista Lucy Stone nel 1855, «avere il diritto di votare, di possedere delle proprietà e così via se non posso avere diritto assoluto sul mio corpo e sul suo uso». Ottant’anni più tardi, dopo che le donne si erano conquistate il diritto di voto e si era sopita la prima ondata del movimento femminista, Virginia Woolf scrisse: «Ci vorranno sessant’anni prima che le donne possano dire la verità sul loro corpo». Nel 1962 Betty Friedan citò una giovane donna intrappolata nella Mistica della femminilità: «Ultimamente, quando mi guardo allo specchio, ho molta paura di finire per assomigliare a mia madre». Otto anni dopo, annunciando la seconda sconvolgente ondata del femminismo, Germaine Greer avrebbe descritto così “lo Stereotipo”: «Possiede tutto ciò che è bello, perfino il termine stesso di bellezza… è una bambola… sono stufa dei camuffamenti». Le donne non ne sono al riparo, nonostante la grande rivoluzione della seconda ondata. Ora possiamo guardarci attorno, sopra le barricate in rovina: una rivoluzione ci è piombata addosso cambiando tutto lungo il suo cammino; da allora le bambine hanno avuto il tempo necessario per diventare donne, eppure c’è ancora un diritto non rivendicato e privo perfino di un nome.

Il mito della bellezza ha una storia da raccontare: la qualità chiamata “bellezza” esiste oggettivamente e universalmente. Le donne devono volerla incarnare, e gli uomini devono voler possedere le donne che la incarnano. Questa forma di realizzazione è un imperativo per le donne e non per gli uomini, necessario e naturale perché biologico, sessuale ed evolutivo: gli uomini forti combattono per le belle donne, e le belle donne hanno più successo dal punto di vista della riproduzione. La bellezza femminile deve essere messa in relazione con la fertilità, e questo sistema, essendo basato sulla selezione sessuale, è inevitabile e immutabile.

Niente di tutto questo è vero. La “bellezza” è un sistema monetario simile a quello del gold standard. Come qualsiasi altra economia è determinata dalla politica, e nell’età moderna del mondo occidentale è l’ultimo valido sistema di credenze che mantiene intatta l’egemonia maschile. Il fatto di assegnare valore alle donne in una gerarchia verticale basata su criteri fisici imposti culturalmente, è espressione di rapporti di potere in cui le donne devono competere in maniera innaturale per appropriarsi di risorse di cui gli uomini si sono impadroniti.

La “bellezza” non è universale o immutabile, anche se gli occidentali pretendono che tutti gli ideali di bellezza femminile derivino dall’unica Donna Ideale Platonica: i Maori ammirano la vulva carnosa e i Padung il seno cascante. E la “bellezza” non è neppure una funzione evolutiva: i suoi ideali cambiano a un ritmo molto più veloce dell’evoluzione, e lo stesso Charles Darwin non era pienamente convinto della sua spiegazione secondo cui la “bellezza” derivava da una «selezione sessuale» che si scostava dalle regole della selezione naturale. La competizione delle donne con altre donne attraverso la “bellezza” è l’inverso di come la selezione naturale agisce su tutti gli altri mammiferi. L’antropologia ha dimostrato l’infondatezza del concetto per cui le donne dovrebbero essere “belle” per essere scelte per l’accoppiamento: Evelyn Reed, Elaine Morgan e altre hanno liquidato le affermazioni sociobiologiche di una congenita poligamia maschile e di una altrettanto congenita monogamia femminile. Tra i primati sono le femmine ad approcciare sessualmente i maschi: non solo cercano e apprezzano il sesso con molti partner, ma «ogni femmina non incinta si avvicenda per essere a turno la più desiderabile di tutto il branco. Ed è un ciclo che si ripete per tutta la vita». Gli organi sessuali rosa infiammati dei primati sono spesso citati dai sociobiologi maschi come analoghi alle disposizioni umane relative alla “bellezza” femminile, quando in realtà si tratta di una caratteristica femminile universale e non gerarchica dei primati.

Inoltre il mito della bellezza non è stato sempre in questo modo. Sebbene la coppia formata da uomini ricchi più anziani con donne giovani e “belle” sia considerata in qualche modo inevitabile, nelle religioni matriarcali della Dea, che dominarono il Mediterraneo dal xxv millennio a.C. fino all’viii secolo a.C., la situazione era capovolta: «In ogni cultura la Dea ha avuto molti amanti. […] Il modello è quello di una donna più anziana con un giovane attraente da usare: Ishtar e Tammuz, Venere e Adone, Cibele e Attis, Iside e Osiride […]. La loro unica funzione è quella di mettersi al servizio del “grembo” divino». Non sono sempre le donne a inseguire il mito della bellezza, e gli uomini non si limitano a stare a guardare: tra i Woodabe nigeriani, le donne detengono il potere economico e la tribù è ossessionata dalla bellezza maschile. Gli uomini Woodabe passano ore e ore insieme in complicate sedute di trucco, e partecipano, provocatoriamente dipinti e vestiti, con ancheggiamenti ed espressioni seducenti, a una gara di bellezza la cui giuria è costituita da donne. Non vi sono giustificazioni legittime, storiche o biologiche, per il mito della bellezza; quello che produce sulle donne d’oggi non è altro che il risultato dell’esigenza da parte dell’attuale struttura del potere, dell’economia e della cultura di montare una controffensiva nei confronti delle donne.

Se il mito della bellezza non si fonda sull’evoluzione, sul sesso, sul genere, sull’estetica o su Dio, su che cosa è basato? Pretende di avere a che fare con l’intimità, il sesso e la vita, di essere una celebrazione delle donne. In realtà si fonda sul distacco emotivo, sulla politica, sulla finanza e sulla repressione sessuale. Il mito della bellezza non riguarda affatto le donne, ma gli uomini e il potere.

Le qualità che un certo periodo definisce come tratti di bellezza nelle donne sono solamente dei simboli del comportamento femminile che quel periodo considera desiderabili: in realtà il mito della bellezza prescrive sempre dei comportamenti più che un aspetto esteriore. La competizione tra le donne fa parte del mito, affinché le donne siano divise. La giovinezza e (fino a poco fa) la verginità sono state considerate “belle” nelle donne, perché hanno sempre significato ignoranza nel campo sessuale e in quello delle esperienze personali. L’invecchiamento nelle donne è considerato “brutto”, poiché le donne col tempo diventano più potenti, e perché i legami tra le generazioni femminili devono sempre essere infranti: le donne più anziane temono quelle giovani, le giovani temono le vecchie, e il mito della bellezza abbrevia per tutte la durata della vita. La cosa più urgente è che l’identità delle donne deve presupporre la loro “bellezza”, perché restino vulnerabili all’approvazione esterna e siano costrette a mettere allo scoperto quella caratteristica vitale e sensibile che è l’autostima.

Sebbene sia esistito da quando esiste il patriarcato, il mito della bellezza nella sua forma moderna è un’invenzione abbastanza recente, essendo fiorito quando si sono allentate le coercizioni materiali nei confronti delle donne. Prima della Rivoluzione industriale la donna media non poteva considerare la “bellezza” alla stessa stregua delle donne moderne: prima che si evolvessero le tecnologie della produzione di massa dagherrotipi, fotografie, ecc. la donna era esposta a ben poche immagini al di fuori di quelle fornitele dalla Chiesa. La famiglia era un’unità produttiva e il lavoro delle donne integrava quello degli uomini: per questo il valore delle donne, che non fossero aristocratiche o prostitute, risiedeva nel loro talento lavorativo, nella scaltrezza, nella forza e nella fertilità. L’attrazione fisica, ovviamente, faceva la sua parte, ma la “bellezza” per come la intendiamo non era un serio problema sul mercato del matrimonio. Il mito della bellezza nella sua forma moderna ha guadagnato terreno dopo i fermenti dell’industrializzazione, quando è stata distrutta l’unità lavorativa della famiglia, e l’urbanizzazione e l’emergere del sistema della fabbrica hanno richiesto quella che gli ingegneri sociali dell’epoca chiamavano «sfera separata» della vita domestica, per sostenere la nuova categoria lavorativa del “capofamiglia” che durante il giorno lasciava la casa per recarsi sul posto di lavoro. Il ceto medio si è espanso, il livello di vita e di alfabetismo si è innalzato, la dimensione delle famiglie si è ridotta; è sorta una nuova classe di donne oziose e istruite, dalla cui sottomissione a una vita domestica imposta dipendeva l’evoluzione del capitalismo industriale. La maggior parte delle nostre ipotesi su quello che le donne hanno sempre pensato della “bellezza” risale intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, quando si è rafforzato il culto della vita domestica ed è stato inventato il canone della bellezza.

Per la prima volta le nuove tecnologie sono state in grado di riprodurre con figurini, dagherrotipi, ferrotipi e rotocalcografie l’aspetto che dovevano assumere le donne. Negli anni Quaranta dell’Ottocento sono state scattate le prime fotografie di prostitute nude; a metà del secolo sono comparse per la prima volta delle pubblicità che usavano immagini di “belle” donne. La “sfera separata” in cui le donne della classe media erano state confinate è stata sommersa da riproduzioni artistiche di gusto classico, da cartoline raffiguranti bellezze dell’alta società e amanti di sovrani, stampe di Currier & Ives e figurine di porcellana. 

Dalla Rivoluzione industriale, le donne occidentali della classe media sono state controllate da ideali e stereotipi tanto quanto da vincoli materiali. Questa situazione, unica per questo gruppo, fa sì che le analisi che tracciano delle “cospirazioni culturali” siano le uniche plausibili. Il mito della bellezza non è stato altro che una delle tante finzioni sociali emergenti, camuffate da componenti naturali della sfera femminile per meglio rinchiudervi le donne stesse. Contemporaneamente sono nate altre finzioni: una versione dell’infanzia che richiedeva una costante sorveglianza materna; il concetto di una biologia femminile che imponeva alle donne della classe media di rappresentare il ruolo delle isteriche e delle ipocondriache; la convinzione che le donne rispettabili fossero “sessualmente anestetizzate”; e la definizione del lavoro femminile che imponeva loro di dedicarsi a incombenze ripetitive, lunghe e meticolose quali i ricami su canovaccio e i merletti. Tutte queste invenzioni vittoriane erano simboli duplici: sebbene fossero nate per dirottare su dei canali innocui l’energia e l’intelligenza femminili, le donne se ne servivano sovente per esprimere una creatività e una passione autentiche.

Ma nonostante la creatività femminile si esprimesse attraverso la moda, i ricami, l’allevamento dei figli e, un secolo più tardi, attraverso il ruolo della casalinga derivato da queste finzioni sociali, lo scopo principale che queste stesse finzioni si erano prefissate era assolto: durante un secolo e mezzo di agitazioni femministe senza precedenti, esse contrastarono efficacemente la nuova pericolosa tendenza delle donne della classe media verso il tempo libero, l’alfabetismo e una relativa libertà da restrizioni di tipo materiale.

Sebbene queste finzioni sul ruolo naturale della donna, che impegnavano il tempo e la mente, si siano adattate per riemergere nella Mistica della femminilità del dopoguerra, esse andarono incontro a un fallimento temporaneo quando la seconda ondata del movimento femminista smontò ciò che le riviste femminili avevano dipinto come la “romanticheria”, la “scienza” e l’“avventura” della vita casalinga e familiare. La stucchevole finzione domestica dello “stare assieme” perse il suo significato e le donne della classe media uscirono in massa dalla porta di casa.

Ancora una volta le finzioni semplicemente si trasformarono.

Poiché il movimento delle donne era riuscito a smontare con successo la maggior parte delle altre finzioni necessarie della femminilità, tutto il lavoro di controllo sociale un tempo distribuito sull’intera rete di queste finzioni doveva essere riassegnato all’unico filone rimasto intatto, la cui azione di conseguenza veniva centuplicata. Ciò ha imposto nuovamente ai corpi e ai volti delle donne liberate tutte le limitazioni, i tabù e le punizioni di leggi repressive, di imposizioni religiose e di schiavitù riproduttiva che non avevano più forza sufficiente. Un inesauribile ma effimero lavoro sulla bellezza è subentrato all’inesauribile ma effimero lavoro di casa. Mentre l’economia, la legge, la religione, le abitudini sessuali, l’istruzione e la cultura si aprivano a forza per includere più equamente le donne, una realtà privata colonizzava la coscienza femminile. Usando le idee sulla “bellezza” veniva ricostruito un mondo femminile alternativo con le sue leggi, il suo lavoro, la sua religione, la sua cultura, la sua sessualità e la sua istruzione, tutti elementi altrettanto repressivi quanto quelli precedenti.

Poiché, ora che sono più forti materialmente, le donne occidentali possono essere indebolite psicologicamente, il mito della bellezza quale è riemerso nell’ultima generazione ha dovuto attingere alla sofisticazione tecnologica e al fervore reazionario più di quanto non avesse mai fatto. Il moderno arsenale del mito è una disseminazione di milioni di immagini dell’ideale corrente; e anche se questo dispiegamento è considerato in generale come una fantasia sessuale collettiva, in realtà i suoi contenuti sessuali sono molto scarsi. Nasce dal timore politico da parte delle istituzioni dominate dall’uomo e minacciate dalla libertà della donna, ed è sostenuto dal senso di colpa e dall’ansia delle donne per la loro liberazione: timori latenti di spingersi troppo oltre. Questa raffica di immagini è un’illusione reazionaria collettiva voluta sia dagli uomini che dalle donne, sbalorditi e disorientati dalla rapidità con la quale si sono trasformate le relazioni di genere: un baluardo di sicurezza che protegge dalla piena dei cambiamenti. La raffigurazione di massa della donna moderna come di una “bellezza” è una contraddizione: laddove le donne moderne crescono, si muovono ed esprimono la loro individualità, la “bellezza” è per definizione inerte, senza tempo e generica. Che questa illusione sia necessaria e voluta appare chiaro dal modo in cui la “bellezza” smentisce palesemente la reale situazione della donna. 

E questa illusione inconscia diventa sempre più importante e diffusa a causa di quella che in questo momento è una consapevole manipolazione di mercato: le industrie potenti quella dietetica da 33 miliardi di dollari, quella cosmetica da 20 miliardi, quella della chirurgia plastica da 300 milioni, e quella della pornografia da 7 miliardi sono frutto di un capitale costituito da ansie inconsce, e sono in grado attraverso la loro influenza sulla cultura di massa di sfruttare, stimolare e consolidare l’illusione secondo una spirale economica in espansione.

Questa non è una teoria cospirativa: non deve esserlo. Le società si creano delle finzioni alla stessa maniera degli individui e delle famiglie. Henrik Ibsen le chiamava «menzogne vitali», e lo psicologo Daniel Goleman afferma che agiscono a livello sociale allo stesso modo che nelle famiglie: «La collusione è mantenuta dirottando l’attenzione dal fatto terrificante, o riconfezionando il suo significato in un formato più accettabile». E aggiunge che i costi di queste lacune sociali sono illusioni collettive devastatrici. Le possibilità per le donne sono diventate così illimitate che minacciano di destabilizzare le istituzioni su cui si è sempre basata la cultura dominata dall’uomo; e una reazione collettiva di panico da parte di entrambi i sessi ha prodotto forzatamente una richiesta di contro-immagini.

L’illusione che ne risulta si materializza, per le donne, in qualcosa di anche troppo reale: smette di essere solo un’idea per diventare qualcosa di tridimensionale, incorporando in sé il modo in cui vivono e quello in cui non vivono le donne: diventa la Vergine di Ferro. In origine la vergine di ferro era uno strumento medievale tedesco di tortura, un sarcofago a forma di corpo con dipinti gli arti e i lineamenti di una giovane donna graziosa e sorridente. La sfortunata vittima vi veniva rinchiusa e immobilizzata, e moriva di fame o, meno crudelmente, per effetto delle punte metalliche fissate all’interno del sarcofago. L’illusione moderna in cui le donne vengono intrappolate o si intrappolano da sole è altrettanto rigida, crudele e rappresentata in maniera eufemistica. La cultura contemporanea dirige l’attenzione sull’immagine della Vergine di Ferro, mentre censura il viso e il corpo delle donne reali.

Perché l’ordine sociale sente il bisogno di difendersi eludendo la realtà delle donne vere, dei loro visi, delle loro voci, dei loro corpi, e riducendo il loro significato a delle immagini “belle”, codificate e riprodotte all’infinito? Anche se le ansie personali inconsce possono essere una forza possente nella creazione di una menzogna vitale, in pratica questa viene garantita dalle necessità economiche. Un’economia che dipende dalla schiavitù ha bisogno di promuovere immagini di schiavi che la giustifichino. Le economie occidentali sono assolutamente dipendenti dal continuo sfruttamento delle donne, grazie al divario retributivo. Era necessaria un’ideologia che facesse sentire le donne “di minor valore” per contrastare il modo in cui il femminismo le aveva rafforzate. Per questo non occorre un complotto, bensì solo un’atmosfera. L’economia contemporanea dipende in questo momento dalla rappresentazione di donne all’interno del mito della bellezza. L’economista John Kenneth Galbraith offre una spiegazione economica della «persistenza del concetto di vita casalinga come di una “vocazione superiore”». E aggiunge che il concetto delle donne intrappolate nella Mistica della femminilità «ci è stato imposto dalla sociologia popolare, dalle riviste e dalla narrativa, per mascherare il fatto che la donna nel suo ruolo di consumatrice è stata un elemento essenziale per lo sviluppo della nostra società industriale […]. Il comportamento indispensabile per motivi economici viene trasformato in virtù sociale». Il mito della bellezza ha ridefinito come principale valore sociale per la donna la conquista di una bellezza virtuosa, quando non ha più potuto essere la conquista di una vita domestica virtuosa. E lo ha fatto per sostituire sia un nuovo imperativo al consumo sia una nuova giustificazione per l’iniquità economica sul posto di lavoro, dove i vecchi imperativi avevano perso la loro presa sulle donne appena liberate.

Per accompagnare la Vergine di Ferro è nata un’altra illusione: la caricatura della Brutta Femminista, risuscitata per intralciare il cammino del movimento femminista. È una caricatura tutt’altro che originale, essendo stata creata per ridicolizzare le femministe del xix secolo. La stessa Lucy Stone, che i sostenitori consideravano «un prototipo di grazia femminile […] fresca e bella come il mattino», era derisa dai detrattori con «la solita battuta» sulle femministe vittoriane: «Una donna grossa e mascolina, che porta gli stivali, fuma il sigaro e bestemmia come un carrettiere». Come aveva affermato con lungimiranza Betty Friedan nel 1960, prima ancora della selvaggia riproposta della vecchia caricatura, «la sgradevole immagine delle femministe dei giorni nostri rispecchia meno le femministe stesse dell’immagine promossa dagli interessi che con tanto accanimento si opponevano al voto alle donne in uno Stato dopo l’altro». Dopo trent’anni le sue conclusioni sono più corrette che mai. Quella caricatura, che cercava di punire le donne per i loro atti pubblici colpendo il loro privato senso di sé, divenne il paradigma dei nuovi limiti posti alle aspiranti donne di tutto il mondo. Dopo il successo della seconda ondata del movimento femminista, il mito della bellezza è stato perfezionato per sconfiggere il potere a ogni livello nella vita individuale della donna. Le moderne nevrosi si diffondono nel corpo femminile come delle epidemie. Il mito sta sgretolando lentamente, impercettibilmente, senza che le donne siano consapevoli delle reali forze di erosione il terreno che hanno guadagnato con battaglie lunghe e difficili.

Il mito della bellezza è più insidioso di qualsiasi altra Mistica della femminilità: un secolo fa Nora sbatteva la porta della casa di bambola; una generazione fa le donne hanno voltato le spalle al paradiso consumistico della casa isolata e multiaccessoriata, ma nel posto dove oggi le donne sono intrappolate non ci sono porte da sbattere. L’attuale azione devastante prodotta dalla bellezza sta distruggendo le donne fisicamente e le sta svuotando psicologicamente. Se vogliono davvero liberarsi dal peso morto che ancora una volta è diventata la femminilità, le donne non hanno tanto bisogno di voti o di gruppi di pressione, quanto di una nuova visione del mondo.


Naomi Wolf (1962) è una scrittrice e giornalista statunitense.
È divenuta celebre all’inizio degli anni Novanta con Il mito della bellezza, pubblicato per la prima volta in Italia da Mondadori nel 1991, che l’ha consacrata come portavoce della terza ondata del movimento femminista. Tra le sue pubblicazioni più celebri il bestseller The End of America (Chelsea Green Publishing, 2007) e Give Me Liberty (Simon & Schuster, 2008). Oltre a Il mito della bellezza, è stato pubblicato in Italia anche Vagina (Mondadori, 2015).

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