Il mito della gravidanza

Restituire dignità al vissuto della gravidanza permette al personale di farsi ancora politico, lavorando alla narrazione sociale così che smetta di mistificare, cancellare e annullare le persone che quella società compongono e che non per questo smettono di essere le uniche a poter disporre dei propri corpi.


in copertina e nel testo, delle opere di Pablo Picasso

di Selena Pastorino

Il momento in cui ho vissuto con maggiore sofferenza gli effetti di una mistificazione narrativa corrisponde alle 39 settimane di gestazione di mia figlia. La narrazione sociale della gravidanza si accompagna spesso a un abuso del termine “magia”, che riduce questa esperienza a una versione edulcorata, idilliaca, per lo più immaginaria. Così potente da annullare la realtà del vissuto gestazionale, come per magia. Il risultato di questo annichilimento non è però una totale sparizione, perché le esperienze corporee non si lasciano smaterializzare, ma una costante invalidazione del personale che ha un importante risvolto socio-politico.

Facciamo un passo indietro. Il legame tra esperienza e conoscenza è una delle dimensioni della vita umana e, insieme, una delle questioni filosofiche tra le più note. Ammettiamo, senza grandi difficoltà, che esperire una certa situazione, vivere una determinata condizione o maturare confidenza con alcune pratiche conferisca una maggiore consapevolezza al riguardo. Lo statuto epistemico di questo apprendimento, vale a dire il suo effettivo valore conoscitivo, è però ben lungi dall’essere riconosciuto in modo univoco. Quando, per esempio, proviamo a comprendere esperienze che per noi sono sconosciute tendiamo ad affidarci anzitutto a quella narrativa con cui, di norma, la nostra società le presenta e, solo in seconda battuta, alla testimonianza diretta di chi le ha affrontate. O, meglio, gli stessi racconti di queste esperienze orbitano intorno a un orizzonte di senso che li precede: è una certa modalità consueta di narrare alcuni avvenimenti che per lo più orienta la loro condivisione, non viceversa. 

Se è comprensibile che quando si parli ad altri di ciò che non hanno vissuto si provi a costruire un vocabolario comune, a rintracciare una serie di riferimenti che rendano possibile la comunicazione, il linguaggio dovrebbe però rinnovarsi in modo costante, proprio grazie all’apporto di chi ha esperito in prima persona alcune situazioni, così che l’apprendimento legato a questa esperienza non vada perduto. Talvolta tuttavia la resistenza delle narrative a modificarsi è tale da impedire questo accrescimento reciproco, capita cioè che l’unico racconto che si possa comporre per parlare di sé sia già stato scritto e reso immodificabile. In questi casi, la narrazione sociale diventa l’unica maniera consentita di restituire un avvenimento: per dirla con Betty Friedan, diventa una mistica.

Il significato di questa espressione, come chiarisce l’autrice di La mistica della femminilità (1963), coincide con quell’immaginario ideale rispetto a cui si tende a conformare la vita reale. L’ambito della sua analisi era quello della condizione femminile nelle classi medie statunitensi, caratterizzata da una forte tensione tra l’esigenza di realizzare questa visione – che le voleva tutte mogli, madri di famiglia e casalinghe in una bella casa nei sobborghi residenziali – e la volontà, oscura, di seguire le proprie necessità e aspirazioni. L’oscurità di questo disagio originava proprio nella mistificazione prodotta da una certa narrazione, tale da stabilire non solo che cosa si dovesse vivere, cancellando così la realtà dell’esperienza individuale, ma anche come ci si dovesse sentire al riguardo, impedendo di fatto l’elaborazione del vissuto che permette crescita e consapevolezza personale.

Sebbene lo studio di Friedan non possa oggi essere accolto acriticamente, la dinamica che vi si trova evidenziata non ha ancora smesso di essere all’opera. Se ne trovano tracce ovunque si tratti di addomesticare l’alterità del vissuto personale affinché la collettività possa farla propria, ma è particolarmente evidente rispetto alle esperienze corporee. Il corpo non è infatti solo il luogo più proprio di ogni persona, il cui vissuto è inaccessibile per chiunque altro, bensì soprattutto una delle dimensioni più anestetizzate nell’epoca contemporanea che, proprio nell’atto di continuare a esporlo, riduce la corporeità alla sua superficie, annullando l’esperienza interiore di chi quel corpo lo è. Mistificandola.

Per ciò che riguarda la gravidanza, metterne fra parentesi la concretezza è possibile nella misura in cui ci si concentra sulla presunta meta di questo percorso, cioè la maternità. In questa rilettura la gestazione è solo un mezzo, che deve essere del tutto subordinato allo scopo. Anche da parte di chi questa esperienza la vive sulla propria pelle, col proprio utero, e che è così invitata a ignorare l’interezza del suo vissuto per concentrarsi su ciò che deve già cominciare a essere: una buona madre, conforme alla narrazione mistificata che la società le scrive. Tra le righe di questo racconto non trova spazio la scomoda realtà dell’essere incinta, perché nulla contrasta con la “magia” quanto la materialità di nausee, vomito, bruciore di stomaco, aumento o carenza di appetito, insonnia, stanchezza, sonnolenza, prurito, reazioni epidermiche, crampi muscolari, gonfiore, stitichezza, coliche, emorroidi, dolore alla schiena, perdite vaginali, ipersalivazione, vene varicose, mal di testa. Solo per elencare i disturbi più comuni in una gestazione con decorso fisiologico. 

Affinché non insorgano problemi, è inoltre necessario che la gestante adotti una serie di comportamenti che tutelino la salute del feto e che non si limitano ai controlli periodici, ma pervadono ogni aspetto della quotidianità, dall’idratazione all’alimentazione, dal movimento al riposo, dalle sostanze cui deve rinunciare a quelle che deve assumere. Non credo di aver mangiato mai nulla di più buono del panino al salame che ho addentato al mio rientro dall’ospedale, perché, a differenza di altre concessioni che mi ero regalata nei mesi precedenti, aveva anche il sapore della buona coscienza. È qui infatti che la narrazione sociale si incardina nel vissuto personale, pervertendolo al punto che ogni deviazione da questo cammino viene percepita con angoscia o urgenza di assoluzione. Un meccanismo che appare già preoccupante in relazione alle abitudini quotidiane, ma che risulta decisamente pericoloso quando investe la percezione globale che ha di sé una gestante, in un momento psicologico tanto complesso come quello del possibile accesso alla genitorialità.

Pur nella variabilità delle sensazioni che accompagnano ogni singola gravidanza, questa esperienza implica in ogni caso una profonda trasformazione della propria corporeità e della sua percezione, tale da configurarsi come la dimensione che in modo più peculiare la caratterizza. In altre parole, la gestazione costituisce quella che Laurie Ann Paul in un noto saggio (What you can’t expect when you’re expecting) definisce un’esperienza trasformativa, che fornisce cioè a chi la vive una conoscenza inaccessibile a chiunque altro. Sulla scorta di questa definizione, Fiona Wollard, nel suo articolo Mothers know best, invita a ripensare la discussione sull’interruzione volontaria di gravidanza, non impedendo la partecipazione al dialogo di chi non abbia mai avuto figli, ma garantendo che la realtà della gestazione non venga messa tra parentesi in virtù di una meta, quella della maternità, che nel caso delle gravidanze indesiderate non è in alcun modo un obiettivo. Concentrandosi sulla vita del feto, si è cancellata la concretezza, ingombrante, di ciò che quei quasi dieci mesi comportano: un rivolgimento globale della propria persona, non esente da disturbi, fastidi e pericoli di ogni sorta. 

Non avrei potuto tollerare neanche un secondo della mia pur fisiologica gravidanza se non avessi desiderato mia figlia. Tutto ciò che di potente e profondo questa esperienza mi ha dato lo ha potuto fare perché non la stavo subendo, ma me ne ero appropriata sin dal principio (e solo così, peraltro, ho potuto sopportare la sua conclusione, il parto con tutte le sofferenze che comunque comporta, e la cui mistificazione meriterebbe un discorso a parte). Restituire dignità al vissuto concreto di questa esperienza reale permette al personale di farsi ancora politico, lavorando alla narrazione sociale così che smetta di mistificare, cancellare e annullare le persone che quella società compongono e che non per questo smettono di essere le uniche a poter disporre dei propri corpi.


Selena Pastorino è Dottoressa di ricerca in Filosofia e docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Mazzini di Genova. È membro del Seminario Permanente Nietzscheano e collabora con diverse testate online. Si occupa del pensiero di Friedrich Nietzsche (Prospettive dell’interpretazione, ETS, 2017; Per la dottrina dello stile e Da quali stelle siamo caduti?, Il melangolo, 2018), di pop-filosofia (Black Mirror, con Fausto Lammoglia, Mimesis, 2019) e di filosofia del corpo (Filosofia della danza, Il melangolo, 2020; Filosofia della maternità, Il melangolo, 2021).

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