Un dialogo col filosofo inglese Simon Blackburn attraverso una delle chiavi di volta del nostro mondo sociale e intellettuale: il narcisismo.
In copertina e nel testo: Reflections, Bob Thompson, 1962
Specchio delle mie brame (Carbonio, 2019) è un interessante e sfaccettato percorso attraverso una delle chiavi di volta del nostro mondo sociale e intellettuale: il narcisismo. Per affrontarlo, il filosofo Simon Blackburn si destreggia con abilità in vari rami della conoscenza – anzitutto la filosofia, ma anche la psicologia, la sociologia, la letteratura, l’arte, la mitologia e la religione.
In occasione della traduzione italiana del libro ho avuto modo di porre alcune domande all’autore, ma prima sarà bene ch’io introduca brevemente il suo pensiero. Blackburn considera gli eccessi della vanità un veleno, sia a livello individuale che sociale; a tale proposito è esemplare la storia «del povero, sofferente principe Alwaleed bin Talal, la cui fortuna nel 2013 è stata stimata in 20 miliardi di dollari dalla rivista “Forbes”: si è talmente arrabbiato per non essere stato collocato fra i primi dieci uomini più ricchi al mondo che ha fatto causa all’editore per diffamazione». Nonostante tutto però, l’autore sembra suggerire che la vanità, l’orgoglio e l’autostima non sono da rifiutare in blocco, ma da assumere con moderazione. «Come avrebbe detto Aristotele», scrive, «bisogna trovare un equilibrio, un giusto mezzo, e potrebbe trattarsi di un mezzo fra più di due estremi».
Nel primo capitolo il filosofo cita anche il buddismo, secondo il quale – pena un’enorme semplificazione – il male coincide con il dolore, che a sua volta è radicato nel desiderio. La soluzione suggerita dal Buddha è un metodo (noto come “Il Nobile Ottuplice Sentiero”) per riconoscere, accettare e godere del fatto che il desiderio è radicato nell’identità personale, ma che quest’ultima non esiste.
A tale proposito l’autore propone una lunga (e meravigliosa) citazione di Hume sull’ego, che è sorprendentemente simile ad alcuni passi piuttosto comuni nei testi buddisti: «Per me, quando entro in intimità con ciò che chiamo me stesso, mi imbatto sempre in qualche percezione particolare, di caldo o freddo, luce od ombra, odio o amore, dolore o piacere. Non riesco mai a cogliermi senza una percezione, e non posso mai osservare altro che la percezione. Quando le mie percezioni sono sospese per qualche tempo, come nel sonno profondo, io sono ignaro di me stesso, e posso ben dire che non esisto. E se tutte le mie percezioni fossero annullate dalla morte e io non potessi né pensare, né sentire, né vedere, né amare, né odiare dopo la dissoluzione del mio corpo, io sarei del tutto annichilito, e non mi capacito che manchi ancora qualcosa per fare di me una perfetta non-entità».
Dopodichè Blackburn sostiene che «se Hume ha ragione, il sé è scomparso, e in questo caso forse non possiamo affatto pensare a noi stessi. Alcune correnti del buddismo e dell’induismo lo sostengono. Entrambe queste religioni hanno tradizioni “anatta”, o “senza sé”, che negano la realtà dell’io e considerano questa scoperta una liberazione dalle catene della preoccupazione per sé e dell’amore di sé che altrimenti ci legano e ci bloccano. […] L’illusione o la finzione di un sé, quando di questo si tratta, ci consente comunque di peccare per eccessivo amore di sé o per eccessiva fiducia in se stessi. E Hume, a dispetto delle difficoltà di cui era consapevole nel trovare un “sé”, fa seguire quasi immediatamente alla sua argomentazione un’analisi dell’orgoglio, emozione definibile solo come la piacevole convinzione che vi sia qualcosa di ammirevole nel proprio io. Egli era troppo sensato per credere che l’egocentrismo sarebbe diminuito grazie a degli enigmi metafisici, anche se altri filosofi, più ottimisti, avevano sostenuto che, in ogni caso, dovrebbe essere così».
Questo mi avvicina alla prima domanda. In Specchio delle mie brame viene evidenziata un’importante differenza: per un buddista (o un mistico di altre tradizioni) la perdita dell’ego è una cosa buona. Per persone come Hume invece, o Schopenhauer – ma anche re Lear, un malato di Alzheimer o un soldato traumatizzato dalla guerra, si tratta di uno stato spiacevole, se non patologico. Sembra dunque che la medesima condizione possa essere vissuta in modi completamente opposti. Perché? Qual è la tua opinione su questo profondo divario?
Simon Blackburn: Il mio istinto è sempre quello di cercare qualcosa di buono in entrambe le parti di un apparente disaccordo. In questo caso concordo che c’è qualcosa di buono, se non di nobile, nella mancanza di coscienza di sé che è così cara al buddismo. Ma c’è anche qualcosa di terribile nel vissuto del paziente di Alzheimer, in cui il senso del sé si va disintegrando. Come possiamo conciliare questi due pensieri? È un bene o un male che il nostro ego scompaia? La risposta che dò nel libro pone un limite all’ideale buddista (parlo anche di Iris Murdoch a tale proposito). Personalmente suggerisco che vivere immersi nelle cose è spesso ammirevole. Ci “perdiamo” in un libro, o in un gioco, o nella compagnia di qualcun altro, e questa è un’ottima cosa. Allo stesso tempo però possiamo ritrovare la coscienza di noi stessi all’istante. Ascolto un concerto con tutta la mia attenzione, ma se vengo punto da una vespa, il mio sé individuale (e quello del me stesso ferito da un insetto) prende il sopravvento. Se davvero il buddismo o Iris Murdoch suggeriscono che sarebbe meglio che questo non accadesse, temo che non siano realistici. Non credo che sarebbe meglio non essere consapevoli di tutto ciò che ci accade. Nel caso limite diventeremmo vittime di quel che Kant immaginava fosse la vita mentale priva della coscienza di sé: “un caleidoscopio di sensazioni, ancora più effimere di un sogno”.
-->FD: Pena una certa semplificazione, potremmo dire che la società capitalistica contemporanea è fondata sull’idea di una crescita esponenziale – il che mi sembra più una bomba a orologeria che un piano, dato che una crescita indefinita è impossibile all’interno di un sistema limitato. Con esempi tratti dal mito, dalla psicologia e dalla politica descrivi il modo in cui siamo costantemente invitati a potenziare il nostro ego e a seguire dei leader con degli ego parossisticamente gonfiati. Ancora una volta evidenzi il legame tra desiderio, narcisismo e molte delle follie umane. Pensi che la nostra società capitalistica sia fondata su un istinto irrazionale?
Sì, ma non credo che sia utile vedere il “capitalismo” come il problema. “Capitalismo” è semplicemente il nome di un particolare metodo, e anche piuttosto buono, di allocare le risorse in modo efficiente. Non deve essere accompagnato da estrema avidità ed egoismo. Tuttavia, nella misura in cui immaginiamo una crescita economica illimitata e standard di consumo sempre più elevati, allora non siamo realistici. E quando ci deprimiamo nel paragonarci a persone che guadagnano più di noi, che hanno case più grandi, barche e jet privati ci inganniamo, perché applichiamo un’idea scorretta della felicità e dei suoi requisiti.
Nel sesto capitolo, parli delle origini delle leggi morali, a partire dalla “legge morale dentro di me” di Kant.
Scrivi che: «Kant avrebbe fatto meglio a prendere una pagina dal libro di Smith o ad anticipare la successiva intuizione di Collingwood, accettando il fatto che il nostro senso del dovere, del rispetto, di ciò che è giusto e sbagliato, non è il risultato di una pura volontà individuale, ma ci è imposto dall’educazione sociale, dai segnali di affetto e di avversione che ci vengono dagli altri, dalle storie e dagli esempi che ascoltiamo da bambini e dalle innumerevoli espressioni sorridenti o corrucciate che accompagnano la nostra condotta quando entriamo nell’universo sociale».
Sembri suggerire un’interpretazione sociale delle origini dell’etica, nel bene o nel male. Ma qual è, secondo te, la radice di questa “educazione sociale”? Esiste uno stimolo più elementare, come ad esempio evitare la morte (o la pretesa simmetrica di mantenere la nostra forma di vita)? O si tratta solo di una contingenza casuale?
Può essere una contingenza il fatto che preferiamo la sicurezza al pericolo, la pace alla guerra o la cooperazione al conflitto, ma non è una contingenza casuale. È profondamente radicata nei bisogni della nostra vita di animali sociali, che dipendono l’uno dall’altro per quasi tutto ciò che rende possibile la vita. Ecco perché, come ha sottolineato David Hume, esistono delle regole anche su una nave pirata.
Nel settimo capitolo tratteggi una teoria del mito che si ispira a Durkheim.
Scrivi: «Forse dovremmo piuttosto chiederci se l’inquietante mancanza di precisione sia essenziale al mito. Questo è possibile in due sensi. Primo, tornando a Durkheim, possiamo ricordarci dell’elemento di arbitrarietà nei riti e nei divieti associati alla consacrazione di oggetti e luoghi. Una società non sarebbe tenuta insieme, per esempio, dalla consapevolezza condivisa che alcuni tipi di funghi, tempeste marine o precipitosi viaggi notturni siano pericolosi. Tale consapevolezza sarebbe ovviamente patrimonio comune sia di chi è interno, sia di chi è esterno a quel gruppo sociale, e basterebbe questo a privarla dell’essenziale carattere arbitrario e convenzionale che resterebbe nascosto ai non iniziati e legherebbe coloro che lo sono. Possiamo far parte di una comunità sapendo che siamo i cavalieri che dicono “ni”, ma non possiamo farne parte sapendo che siamo i cavalieri che non si buttano dalle finestre. Le cautele dettate dal buon senso non legano gli interni al gruppo in modo da rafforzarli contro gli esterni; i riti e le abitudini arbitrari e culturalmente definiti, sì.»
Se ho capito bene, abbiamo bisogno della funzione del mito ma non della sua specificità – mi viene in mente C. G. Jung, quando scrive che «Dio è una necessità psicologica». Inoltre, per poter svolgere la loro funzione, i nostri miti non devono essere né troppo improbabili né troppo banali. In ogni caso, non è necessaria una credenza ontologica. Ma allora perché scegliere un mito e non un altro? È un evento casuale, rafforzato dalle abitudini e dall’educazione? Credere in ciò che i nostri miti e le nostre religioni dicono è davvero superfluo? Forse il percorso è inverso: seguiamo alcuni rituali e poi ci convinciamo dei loro significati, perché non sempre abbiamo la forza di mettere in discussione le nostre abitudini.
Credo che quest’ultima frase esprima la cosa molto bene. Siamo educati a seguire i rituali e i riti, dopodiché questi diventano una seconda natura, e molte persone trovano difficile o impossibile fare un passo indietro, per vederli come delle strutture sociali essenzialmente arbitrarie, la cui funzione è sempre stata quella di legare tra loro determinate società in modi che sono di certo definiti, ma anche arbitrari.
Come ho già detto, nel libro mescoli con abilità la filosofia con la psicologia, la sociologia, la letteratura, l’arte, la mitologia e la religione. Puoi dirci qualcosa sul tuo stile filosofico?
Grazie per le belle parole. Probabilmente la maggior parte delle volte non sono consapevole del mio stile. Le parole semplicemente arrivano, e io le accetto, le cambio o le scarto finché non mi sento soddisfatto. Suppongo che tutti gli scrittori lo facciano. Ma quando scrivo un libro come Specchio delle mie brame, ho due pensieri guida. Uno è che voglio che sia leggibile da chiunque. Non voglio presupporre alcuna particolare conoscenza o educazione. Voglio raggiungere quante più persone possibile. Per questo mi piace raccontare storie e illustrare con esempi discussioni che possono essere molto astratte. Ma non voglio neanche “mutilare” la filosofia. Odio sentirmi dire che “divulgo la filosofia”, se questo implica mutilarla. La mia ambizione è quella di accostare le persone alla filosofia, non di fingere che la filosofia sia una cosa semplice. Abbiamo a che fare con domande difficili e importanti, e non voglio che le loro difficoltà o la loro importanza vadano perse. Ma voglio anche che la gente non abbia paura di pensarci, e magari di divertirsi nel farlo, come faccio io. Se riesco a rendere contagioso il mio divertimento, allora ho raggiunto il mio obiettivo.
Faccio fatica a seguire i buddisti quando parlano di Ego. Probabilmente è un problema di traduzione o di differente uso delle parole (io ho una formazione psicoanalitica e probabilmente quando sento la parola “ego” la traduco diversamente da un buddista). Penso sia molto difficile trasportare i concetti della cultura orientale in quella occidentale.