Tradizionalmente la mente è qualcosa che immaginiamo come unica e individuale. Eppure esiste un’altra possibilità: immaginare una mente sociale, un “noi” che sia importante almeno quanto l'”io”. Idee come il panpsichismo e la mente estesa possono essere i pilastri della costruzione di un soggetto collettivo. Vale la pena provarci.
In copertina un’opera di remo brindisi, oggi all’asta da pananti casa d’aste.
di Marco Mattei
1. Introduzione
L’idea che le menti siano uniche, discrete, separabili da quelle degli altri individui, è stata incredibilmente popolare nella tradizione filosofica occidentale. Ovunque, da Agostino a Kant, si possono trovare espressioni di un simile pensiero. La mente cartesiana, ad esempio, è notoriamente individuale: io penso, dunque, io sono. ‹‹Che cos’è che io sono? Sono una cosa pensante›› scrive Descartes nelle Meditazioni, aggiungendo poi ‹‹Quando qualcuno dice: “Io penso, dunque sono o esisto” deduce la sua esistenza con una semplice intuizione della mente››.
Tutto può essere messo in dubbio, perché tutto potrebbe essere un inganno del genio maligno, ma non che la mia mente, ossia la mia mente privata, mi sia immediatamente accessibile. Non la tua: qualsiasi cosa appartenga all’esterno potrebbe benissimo essere un inganno. Nessuno ha mai modo di verificare la presenza di un’altra coscienza: la psiche è sempre imprigionata nella sua prospettiva. Detto più semplicemente: nella nostra psiche siamo soli. La coscienza è quel territorio su cui ciascuno di noi regna ‹‹solitario e recluso››; un eremo occulto dalle profondità infinite, abitato solamente da quella strana creatura chiamata “io”; un abisso profondissimo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio, al cui interno annego senza possibilità di esser salvato da nessun altro. Attenzione a non confondere quest’abbandono metafisico con il problema delle altre menti però: perché anche se nel momento in cui io vi rivolgo queste parole non ho alcuna certezza che dall’altro lato ci sia davvero qualcuno o qualcosa che stia ascoltando, il senso di smarrimento cui si fa riferimento è qualcosa di più profondo. Ciò a cui mi riferisco è il bruto fatto che, ad abitare il mio corpo, sono solo. Così come voi, nelle vostre prigioni di carne e sangue.
‹‹Dicono alcuni che il corpo è séma (segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l’anima [semaínei] (significa) ciò che [semaíne] (intende esprimere), anche per questo è stato detto giustamente séma. Però mi sembra assai più probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché [sózetai] (si conservi, si salvi, sia custodita), questa cintura corporea a immagine di una prigione; e così il corpo, come il nome stesso significa, è [séma] (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno mutar niente, neppure una lettera››
Così scrive Platone, dipingendo scenari inquietanti, che sin da subito ricordano l’orrore della sindrome locked-in. Platone identifica l’anima – che oggi chiameremmo mente – come qualcosa di necessariamente separato dal corpo. Ancor di più, non solo teorizza questa separazione, ma afferma anche che il corpo è un ostacolo e un peso per l’anima: è tomba o carcere. Di lì l’anima non può liberarsi per ‹‹ritrovare le ali›› – come scrive nel Fedro – ma è forzata a scontare un periodo di espiazione e d’isolamento. L’espiazione e l’isolamento si scontano attraverso il dolore e l’errore perché, secondo Platone, la vita è in fondo un esilio, una caduta, una transizione da completare, come ordina il Socrate morente nel Fedone, che sacrifica un gallo ad Asclepio, come era costume per chi guarisse dopo una grave malattia.
L’indagine epistemologica e quindi metafisica deve utilizzare questa unica certezza come punto d’appoggio. In un certo senso, avere un “io” significa proprio questo: essere soli, atomo tra gli atomi, regnare incontrastati nel privato di una regione sconfinata – la coscienza nel corpo – che ne è al contempo la prigione.
Le menti, ovviamente, non sono solo le menti umane. Purtroppo la filosofia della mente, specialmente quella di tradizione analitica, è rimasta bloccata su un pregiudizio profondamente antropocentrico e si è mostrata raramente interessata a indagare lo spazio dei corpi possibili. Bastava per un attimo rivolgersi ai superorganismi, o alla cognizione distribuita nel regno vegetale per capire che le menti non sono mai disincarnate, ma sempre legate al proprio corpo; e che i corpi – per dirla con Spinoza – possono fare molte cose, compreso generare comunità. Pur tuttavia la storia della filosofia occidentale è andata come è andata e il paradigma mainstream cartesiano è rimasto quello che concettualizza le menti come individuali, necessariamente solitarie.
2. Solitudine
Questo scritto risale al 22 marzo 2020 – solamente dieci giorni dopo l’inizio del lockdown – quando ho sognato per la prima volta di non poter uscire dalla mia stanza. Scosso dalla penetrazione del virus nell’inconscio, appuntai su un Google doc insieme ad alcuni amici come i nostri sogni, le nostre visioni notturne, stavano cambiando. All’inizio, era un modo come un altro per rimanere in contatto quando non c’era nient’altro da fare; e il tema dei sogni era diventato per noi un topic da small talk – un po’ come il meteo – in un momento in cui assolutamente nulla stava accadendo nelle nostre vite (oltre alla pandemia s’intende). Con il passare del tempo però, una verità più oscura si stava facendo strada dentro di noi: più ci si inoltrava nelle profondità del lockdown, più ci sognavamo soli.
Eppure c’è un problema, una incrinatura fatale nella concettualizzazione cartesiana del mondo interiore: la solitudine può essere letale. Prendiamo, ad esempio, le testimonianze di chi è stato confinato all’isolamento nelle carceri. Le parole di costoro sono spaventose: episodi di allucinazioni, ansia, depressione, profondo disorientamento cognitivo, psicosi e tentativi di suicidio. Chi viene messo in isolamento perde la capacità di discriminare le proprie esperienze dalle esperienze altrui. ‹‹Una monade non ha porte né finestre››, scrive Leibniz nella Monadologia. ‹‹Ma non vi è da temere la loro dissoluzione››, aggiunge: ‹‹non è concepibile che una sostanza semplice possa perire in modo naturale››. La monade siamo noi, soli nel nostro corpo, imprigionati nella nostra psiche.
Lisa Guenther, una filosofa americana che si occupa di prigioni e fenomenologia della solitudine, avrebbe da ridire sul fatto che la monade solitaria non può perire. Scrive infatti:
‹‹Ci sono molti modi per distruggere una persona, ma uno dei più semplici e devastanti è l’isolamento prolungato. Privata di un’interazione umana significativa, le persone altrimenti sane diventano scervellate. Vedono cose che non esistono e non riescono a vedere cose che esistono. Il senso del proprio corpo — anche la capacità fondamentale di sentire il dolore e di distinguere il proprio dolore da quello degli altri — si erode al punto che non sono più sicuri di provare dolore o di farsi del male».
-->
Alcune testimonianze dirette di persone che hanno passato mesi, se non anni, in isolamento forzato, dicono che:
‹‹Dopo poco tempo in isolamento, ho sentito che tutti i miei sensi cominciavano ad affievolirsi. Non c’era nulla da vedere se non pareti grigie. Nelle cosiddette unità abitative speciali di New York […] la maggior parte delle celle ha porte in acciaio massiccio, e molte non hanno finestre. Non si possono nemmeno attaccare con il nastro adesivo immagini o fotografie; […]. Per combattere la calura, ho contato i mattoni e ho misurato le pareti. Ho fissato ossessivamente i catenacci della porta della mia cella. Non c’era nulla da sentire, se non voci vuote, che riecheggiavano da altre parti della prigione. Ero così solo che ho allucinato parole uscire dal vento. Sembravano sussurri. A volte, sentivo l’odore della vernice sul muro, ma più spesso, sentivo solo il mio odore, rivoltato dal mio stesso profumo. Non c’è stato mai alcun contatto [umano]. Il cibo mi veniva spinto attraverso una fessura. [I]l tempo non aveva alcun significato in isolamento. Le luci erano tenute accese per 24 ore. Spesso mi chiedevo se un evento che stavo ricordando fosse accaduto quella mattina o giorni prima. Parlavo da solo. Cominciai ad avere paura che le guardie entrassero, mi uccidessero e mi lasciassero appeso in cella. Chi avrebbe saputo se mi fosse successo qualcosa? Così come ero invisibile, lo era anche lo spazio che abitavo. L’essenza stessa della vita, ho imparato durante quei giorni apparentemente senza fine, è il contatto umano, e l’affermazione dell’esistenza che ne deriva. Perdendo quel contatto, si perde il senso di identità. Si diventa nulla». (Five Omar Mualimm-ak, 5 anni in isolamento)
O ancora,
‹‹Più si è completamente soli, più la mente inizia a riflettere la cella; diventa vuoto statico… L’isolamento non è una sorta di orrore catartico di nervi a fior di pelle e pelle rovente e teste che sbattono alla cieca contro i muri e urlano. Quei momenti arrivano, ma non sono l’essenza dell’isolamento. Sono eventi che ti penetrano dentro, certo. Sono pietre gettate in un abisso. Ma non sono l’abisso in sé… L’isolamento è una morte vivente. La morte perché è la rimozione di quasi tutto ciò che caratterizza l’umanità, vivente perché dentro sei ancora tu. Le luci non si spengono come nella vera morte. Il tempo non si cancella come nel sonno…» (Shane Bauer, 4 mesi in isolamento)
Da dove arriva questo potere distruttivo della solitudine, se l’essere umano è ontologicamente solo? Che ne è dell’aristotelico ‹‹L’uomo è una creatura politica, la cui natura è di vivere con gli altri?››. È come se, nella storia della filosofia moderna e successivamente contemporanea, si fosse creata una spaccatura non solo tra l’uomo e il mondo, ma tra l’uomo e gli altri uomini.
Va fatto notare, a questo punto, che il linguaggio utilizzato quando si parla di menti e di coscienza non è mai neutro, anche quando metaforico — o specialmente quando metaforico — implica già sempre una teoria metafisica ben precisa. La distinzione cartesiana tra mondo interno, mentale e privato, e mondo esterno, fisico e pubblico non è sempre stata data per scontata nella filosofia. Al contrario, tale concezione fu di fatto inventata da Platone con le sue teorie sull’anima e resa popolare poi da Agostino nelle Confessioni. Infatti, questa parola che noi diamo per scontata, “individuo”, fu di fatto inventata da Cicerone, sul calco greco di atomo (indivisibile, in-dividuum). Prima di allora, raramente la caratteristica principale delle persone veniva ricondotta all’individualità, cioè all’essere indivisibili, all’essere uno. Questo modello dell’uomo come ego individuato, solo, in un certo senso libero da qualsiasi vincolo, ma soprattutto con una mente autonoma è la teoria della mente assunta poi come vera dal sistema capitalistico: è tristemente noto come come il liberismo sia favorito da una atomizzazione dell’individuo nella società; ora per la malattia mentale, ora per la responsabilità ecologica, ora ancora per la libera partecipazione al mercato. Infatti,
‹‹Un teorico del complotto potrebbe affermare che il capitalismo e la politica favoriscono il nostro stare soli: il primo, perché così alimenta il nostro bisogno di consumi che compensano la nostra solitudine; la seconda, perché se siamo soli siamo spaventati e quindi più esposti alla propaganda. […] In effetti sembriamo dei complottisti, ma c’è una relazione tra l’isolamento e l’emersione globale dell’estrema destra. Essere immersi nella diversità aiuta a essere più aperti e tolleranti. L’isolamento, l’atomizzazione, l’accontentarsi di surrogati della comunicazione ci hanno disabituato a renderci conto di avere accanto a noi delle persone “diverse da noi”»
scrive Olivia Laing, autrice di Città Sola, opera che il Saggiatore ha reso disponibile gratuitamente a marzo. A metà tra saggio e memoir, Olivia Laing indaga questa strana condizione dell’essere umano sviscerando il tema partendo dalla propria esperienza personale — l’improvvisa sensazione di solitudine provata a New York dopo la fine di una storia d’amore. Nell’opera di Laing, la solitudine diventa un punto d’accesso privilegiato al reale. La persona sola – metafisicamente sola – sarebbe fuori dal giogo illusorio delle relazioni umane e potrebbe così occupare una prospettiva disinteressata e distaccata sulla loro natura. La solitudine, per Laing, è personale, certo; ma è anche politica. La solitudine può essere collettiva: la scrittrice utilizza questo punto di appoggio epistemico per indagare la realtà attraverso gli occhi di alcuni artisti newyorkesi che la solitudine l’hanno vissuta e rappresentata, come Edward Hopper, Nan Goldin, Daniel Wojnarowicz e molti altri
‹‹Si può essere soli ovunque, ma la solitudine che viene dal vivere in una città, circondati da milioni di persone, ha un sapore tutto suo. Una condizione che si potrebbe pensare antitetica alla vita urbana, all’assembramento di altri esseri umani, ma la mera vicinanza fisica non è sufficiente a dissipare quel senso di intimo isolamento› […] La solitudine è difficile da confessare; difficile da catalogare. Come la depressione, uno stato con cui spesso si interseca, può penetrare in profondità nel tessuto di una persona e diventare un tratto distintivo, come avere la risata facile o i capelli rossi. Ancora, può essere transitoria, lambirci e ritirarsi in risposta a circostanze esterne, un lutto, una rottura o un cambiamento delle frequentazioni. Al pari della depressione, della malinconia o dell’irrequietezza, è soggetta alla patologizzazione, a essere considerata una malattia. È stato detto con enfasi che la solitudine non ha alcuno scopo, che è, come scrive Robert Weiss nella sua opera seminale sull’argomento, “una malattia cronica priva di qualità salvifiche”. Simili affermazioni sono in qualche modo legate alla convinzione che lo scopo degli esseri umani sia di vivere in coppia, o che la felicità possa o debba esplicarsi in un possesso permanente. Ma non tutti condividono questo destino. Mi sbaglierò, ma non credo che un’esperienza che ha una tale ripercussione su ognuno di noi possa essere interamente priva di significato, di ricchezza o di un qualche valore. […] Non molto tempo fa, ho trascorso un periodo a New York, quella brulicante isola di gneiss e cemento e vetro, frequentando quotidianamente la solitudine. Era stata un’esperienza tutt’altro che piacevole, eppure cominciai a chiedermi se [Virginia Woolf] non avesse ragione, se la solitudine non offrisse qualcosa di più – se, anzi, non conducesse a porsi i grandi interrogativi su cosa significhi essere vivi. Alcune domande mi consumavano, non solo come individuo, ma anche come cittadina del nostro secolo, della nostra epoca di pixel. Cosa significa essere soli? Com’è la nostra vita, se non abbiamo un coinvolgimento intimo con un altro essere umano? Come entriamo in contatto con gli altri, soprattutto se non siamo molto socievoli? Il sesso è una cura per la solitudine? E se lo è, cosa succede se il nostro corpo o la nostra sessualità sono considerati devianti o compromessi, se non siamo in salute o di bell’aspetto? La tecnologia ci aiuta? Ci avvicina o ci intrappola dietro gli schermi?››
Ci sono due tipi di solitudine, spiega Laing: la solitudine di chi sceglie l’isolamento, e quella di chi lo subisce. Nella città, il confine diventa molto sottile perché anno dopo anno si assiste alla sua trasformazione in un luogo costruito solamente per chi può permettersi di scegliere. La solitudine, poi, è anche una questione di classe sociale: «La città è un dispositivo per ricchi›› racconta Laing in un’intervista per Linkiesta,
«[E] chi non se la può permettere viene spinto via. L’aumento vertiginoso degli affitti in ogni quartiere oppure le panchine su cui nessuno può stendersi… sono misure contro la povertà. Se non ce la fai, non hai più nessun paracadute. Se ce la fai, puoi anche concederti il lusso di stare da solo: chi sceglie l’isolamento ha un ruolo attivo nella definizione della solitudine. Sia la propria, che quella degli altri. Io credo che ogni azione che vada contro alle altre persone causi solitudine».
Oggi, noi stiamo vivendo in tempi particolarmente soli. In un nuovo lockdown, le persone iniziano a scendere in strada per reclamare il loro diritto di vivere. Morire di fame o morire dal virus, è questa la dicotomia posta per l’incapacità di pensare la comunità. Si chiudono infatti gli spazi di aggregazione sociale cercando di preservare quelli di aggregazione a pagamento. L’oblio della dimensione collettiva non è solo metafisico, ma anche politico ed epidemiologico: è infatti dal pensiero di essere gli unici abitanti di questo pianeta che la pandemia ha avuto inizio. L’uomo del capitalocene, pensandosi l’unico abitante – l’unico esistente – dispone del pianeta come vuole, deforestando, colonizzando, di fatto infestando. Da questo mancato rispetto della convivenza, degli spazi di coabitazione si scatena anche il virus stesso: l’ha raccontato bene David Quammen in Spillover. C’è quindi bisogno forse di esplorare nuovi scenari metafisici, dove gli individui non sono esseri disincarnati ma corpi, aggregati, comunità.

3. Costruire la comunità
Un’interessante critica al sé individuale, che presenta un’interessante conseguenza su alcune pratiche disciplinari carcerarie, viene mossa da Lisa Guenther, e il punto che presenta è così radicale e fondamentale che ci costringe non solo a ripensare completamente cosa sia la nostra mente, ma ci invita anche a prendere in considerazione il fatto che noi, prima di essere individui, siamo innanzitutto un gruppo, una comunità. L’analisi metafisica guentheriana parte dall’isolamento cui vengono sottoposti alcune persone nelle carceri. Di fatto, molti dei primi proponenti di questa metodologia penitenziaria erano sostenitori delle teorie individuali della mente: prendete qualcuno che ha commesso un crimine, chiudetelo in una cella da solo dove avrà tempo per riflettere su di sé e auspicabilmente tornerà un po’ migliore di com’era prima. Dopotutto, se le menti sono davvero così ontologicamente individuali, sembra molto più umano questa pratica rispetto alla tortura, ai roghi e alle esecuzioni pubbliche. Eppure, le testimonianze di chi è stato confinato all’isolamento sono radicalmente diverse: episodi di allucinazioni, ansia, depressione, profondo disorientamento cognitivo, psicosi e tentativi di suicidio. Ma ancor peggio di tutto ciò, chi viene messo in isolamento perde la capacità di discriminare le proprie esperienze dalle esperienze altrui.
La conclusione che lei trae da questi dati è che le nostre teorie della mente sono sempre state strutturalmente sbagliate: noi non siamo individui discreti, siamo un network. Non si può certo parlare di hive mind umana senza esagerare, e nemmeno di eusocialità; ma vi è comunque una forte evidenza che è il soggetto collettivo a fondare il soggetto individuale e non viceversa. In particolare, le testimonianze riportate dalle persone messe in isolamento sono molto toccanti. Se fossimo davvero così separabili come il paradigma cartesiano sembra asserire, non dovremmo aspettarci che la semplice solitudine possa distruggere una persona così tanto che addirittura il suo senso del sé viene intaccato fino a farlo sparire.
La teoria della mente individuale va sostituita: da dove ripartire per una teoria della mente collettiva? La risposta potrebbe risiedere nella fenomenologia.
Elaborata per la prima volta da Edmund Husserl, filosofo austriaco di inizio ‘900, la fenomenologia è un tentativo di rifondazione totale dell’attività filosofica, che riparte da come il mondo si presenta alla coscienza. Nozione fondamentale della fenomenologia è il concetto di “intenzionalità”, ossia la caratteristica, tipica del mentale, di riferirsi a qualcosa: la coscienza è sempre coscienza-di, il sapere sapere-di, il desiderio desiderio-di. Quando esperiamo il mondo, in tal senso, lo esperiamo sempre a partire da una determinata prospettiva. Siamo infatti irrimediabilmente situati in un preciso contesto storico-sociale, ma siamo anche enti ontologicamente finiti: nel guardare un bicchiere, ad esempio, non abbiamo mai un’esperienza assoluta di esso, bensì lo troviamo sempre in relazione al suo contesto, lo sfondo nel quale è inserito, il tavolo su cui è poggiato, il modo in cui la luce che filtra nella stanza lo illumina ecc. Per avere esperienza di un qualsiasi oggetto devo integrare la mia impressione reale e immediata di questo lato con un’anticipazione o una conservazione virtuale e mediata dei lati nascosti dell’oggetto. Possiamo benissimo farlo da soli, ma in un mondo condiviso con altre persone – o meglio, con altri esseri coscienti – la mia esperienza degli oggetti tridimensionali acquisisce un altro livello di significato e di sostanza. Il mio corpo gioca un ruolo speciale in questa triangolazione dell’esperienza. Il mio corpo è la mia prospettiva centrale sul mondo, il “qui” da cui incontro ogni “là”. Come diceva il fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty, il mio corpo “si innesta” nelle cose che attirano la mia attenzione; le mie dita dei piedi sentono il bordo dell’ultimo passo, le mie mani scavano in uno zaino alla ricerca delle chiavi. E allo stesso modo, il mondo si insinua, permea nel mio corpo, riscaldandomi il viso con il sole o muovendomi per infilare il naso nella sciarpa. Ma la cosa principale in cui il mio corpo si innesta non è affatto una cosa; è il corpo di un’altra persona, un altro “qui”, un altro punto di partenza per l’esperienza di un mondo. Il mio senso della realtà oggettiva, e persino il mio senso di me stesso come persona oggettivamente esistente piuttosto che come capacità astratta di consapevolezza, dipende dal coordinamento del mio qui con il tuo là, e viceversa. Fa propria questa visione anche il filosofo Charles Taylor, che che in “Radici dell’io”, aggiunge che la persona è già radicata in determinati contesti, è quindi la società a formare l’individuo: essa non è riducibile alle transizioni fra individui atomisticamente concettualizzate. Fenomenologicamente, dunque, siamo parte di una intersoggettività trascendentale sempre data: siamo strutturalmente legati ad altri soggetti, altre menti, da cui prendono forma tutti i significati. Le altre persone con cui condividiamo lo spazio ci danno una posizione oggettiva nel mondo – ci ancorano da qualche parte. Questa osservazione può sembrare banale, ma è fondamentale per comprendere la profonda sensazione di irrealtà che la solitudine prolungata porta a percepire. Tutte le piccole idee che la mia mente ha sul mondo sono confermate dalle interazioni degli altri con esso: e noi sappiamo benissimo che nel mondo non agiscono solo esseri umani, ma anche e soprattutto esseri inumani.
4. La mente estesa
Andy Clark e David Chalmers, due filosofi della mente, hanno elaborato una teoria nota come “mente estesa”, secondo la quale la mente sarebbe come una sorta di fluido in continua espansione, che permea il cervello e il corpo ma che letteralmente sgocciola fuori, arrivando a bagnare anche porzioni significative del mondo là fuori.
I processi mentali, dunque, oltre ad essere incorporati come si è già visto, possono anche essere estesi, inglobando artefatti esterni. Clark e Chalmers propongono quello che viene convenzionalmente chiamato il “Principio di Parità”, che dice che se un artefatto esterno svolge una funzione che considereremmo mentale se si verificasse nella testa, allora l’artefatto è da considerare genuinamente parte della mente dell’utilizzatore. I filosofi portano come esempio due persone che cercano di capire come vari pezzi si inseriscano in un puzzle. Uno dei due soggetti muove le tessere solo nella sua testa, ruotando, traslando e quindi formando le immagini mentali delle forme. L’altro fa ruotare le forme su uno schermo. Poiché il primo processo conta come mentale, anche il secondo dovrebbe, sostengono Clark e Chalmers. Ciò che conta è ciò che il processo cognitivo fa, non dove si colloca.
Il Principio di Parità non si applica solo ai processi che possiamo eseguire nella nostra testa. Pensate a fare una lunga divisione con carta e penna. Pochi di noi possono farla “a mente”, ma se potessimo, lo considereremmo certamente un processo mentale. Quindi – applicando il Principio di Parità – dovremmo considerare anche il processo con carta e penna come un processo mentale. Un’estensione, in questo senso, è anche un miglioramento. Con la penna o il computer portatile, possiamo costruire modelli estesi di pensiero e di ragionamento che non potremmo mai formulare con il nostro cervello. Con carta e penna, non ci limitiamo a registrare il nostro pensiero, ma pensiamo in senso vero e proprio – è il pensiero diagrammatico (come ha osservato una volta il fisico Richard Feynman: “Ho effettivamente fatto il lavoro sulla carta”).
Il linguaggio, quindi, è un mezzo particolarmente potente di estensione e potenziamento, che serve, per dirla con Clark, come un’impalcatura che permette al cervello di realizzare cose che da solo non potrebbe fare. I simboli forniscono nuovi focus di attenzione, permettendoci di tracciare le caratteristiche del mondo che altrimenti avremmo perso, e le frasi strutturate evidenziano le relazioni logiche e semantiche, permettendoci di sviluppare nuove e più astratte procedure di ragionamento (come nelle lunghe divisioni).
Clark e Chalmers propongono che gli stati mentali, come le credenze, possano essere localizzati anche all’esterno, quindi, del cervello. Immaginano un personaggio, Otto, che ha il morbo di Alzheimer e che usa un taccuino per memorizzare le informazioni di cui ha bisogno per guidare le sue attività quotidiane. Quando ha bisogno di ricordare un indirizzo, Otto consulta il suo taccuino invece della sua memoria biologica, e Clark e Chalmers suggeriscono che il taccuino contiene letteralmente la sua convinzione sull’indirizzo. Funziona come una memoria esterna (come una chiavetta USB) collegata al resto della mente di Otto attraverso un’interfaccia percettiva. Clark e Chalmers sottolineano che il collegamento deve essere stretto perché il notebook abbia questo stato: Otto deve averlo costantemente con sé, deve poter accedere facilmente ai suoi contenuti e deve fidarsi di ciò che vi è scritto. (Così, il contenuto dei libri di riferimento conservati sugli scaffali di casa sua non viene considerato come il suo credo). Naturalmente, la credenza nel taccuino di Otto non è una credenza consapevole (fino a quando Otto non consulta il libro), ma nemmeno le credenze sono conservate nel nostro cervello fino a quando non le richiamiamo alla mente.
L’idea di estensione mentale, però, va ben oltre dei semplici artefatti ed arriva a includere anche le altre persone. Questa è la vera conseguenza della mente estesa e il motivo per cui la solitudine può essere letale: i membri della nostra comunità di riferimento – le persone a cui teniamo, di cui ci fidiamo e la cui esistenza ancora la nostra – sono letteralmente parte della nostra mente.
Ragionare con gli altri, ad esempio, così come dialogare, non è altro che una forma di comunione delle menti: è la base della terapia ma anche della semplice indagine conoscitiva. Nel dialogo emergono sempre nuove idee, nuove soluzioni, nuove prospettive che esulano dalle menti di ciascuno dei partecipanti, e nascono piuttosto nell’interplay delle coscienze. L’importanza di curarsi della comunità è ora evidente: chi sono io è costitutivamente dipendente da qual è la mia comunità, e la mia comunità è costitutivamente dipendente da chi sono io. Tutti noi creiamo dei significati e veniamo ancorati al mondo tramite i valori e i punti di riferimento della nostra comunità: l’io non esiste, c’è già da sempre il noi. Donna Haraway chiama questo processo fare kinship, ed è una pratica in cui già tutti siamo immersi, che lo sappiamo o meno. Il punto è farlo consapevolmente: prendete tutte le community di complottismi che stanno nascendo sempre più frequentemente sui social; questo fenomeno altro non è che un tentativo di risignificazione del mondo tramite la costruzione di una comunità. Il complottista non vuole rimanere da solo, così come qualsiasi altro individuo: il soggetto non può formarsi se non tramite il coinvolgimento in un gruppo più ampio. In psicologia, infatti, è un fatto noto il bisogno dell’uomo di appartenere; per dirla con Kimberly Brownlee, filosofa d’oltreoceano:
«Gli esseri umani hanno un impulso pervasivo a formare e mantenere almeno una quantità minima di relazioni interpersonali durature, positive e significative. Soddisfare questo impulso comporta due criteri: In primo luogo, c’è bisogno di interazioni frequenti e affettivamente piacevoli con poche altre persone, e, in secondo luogo, queste interazioni devono avvenire nel contesto di un quadro temporale stabile e duraturo di preoccupazione affettiva per l’altro››.
Difatti, della stessa cosa ha parlato Edoardo Camurri in una puntata di Speculum! su Decamerette: è solo nella comunità che la gioia e la meraviglia sono davvero possibili, perché questi sentimenti vogliono per loro stessa natura essere condivisi. La solitudine angosciosa, la perversa inquietudine generata dall’inconoscibilità della psiche – che ho altrove chiamato “mente inquietante” – viene così superata, e nella comunità si accede a quella dimensione superiore che sorpassa l’eerie della presenza inspiegabile e arriva alla “mente meravigliosa”, il vicendevole riconoscersi nell’altro come uno specchio dell’Interno cosmo. Come esempio finale, potremmo prendere l’emblema del pensiero pessimistico-solitario, Thomas Ligotti. Lorenzo Marsili, nel suo articolo per Dudemag, riporta le parole dello scrittore e persino lui ammette che tramite la scrittura è riuscito a raggiungere una sorta di tranquillità d’animo solo quando è riuscito a crearsi una comunità di lettori. Nelle parole di Marsili:
«[N]ell’analizzare la sua opera non si può non prendere in considerazione il fatto che Ligotti è una persona che soffre e che vive nella società tardo-capitalista americana. Credo che a questa rassegna manchi ancora un aspetto, forse il più importante: Ligotti è una persona sola. […] Ligotti sostiene anche di non aver avuto rispetto per sé stesso finché non è diventato uno scrittore conosciuto: questo ruolo gli consente quantomeno di instaurare un prezioso rapporto di vicinanza ideale con i suoi appassionati lettori. In un passo di un’intervista sottolinea infatti la fondamentale relazione di fratellanza nell’orrore che intrattiene con essi, i quali condividono con lui le stesse idee sulla vita: «più lontani sono i tuoi pensieri ed emozioni da quelli della maggioranza, più ti affezionerai allo scrittore che parla in questo modo per te. Ti sembrerà una fortuna averlo trovato. E allo scrittore sembrerà una fortuna ancora più grande aver trovato te». In un altro punto Ligotti tradisce addirittura un desiderio di una prossimità meno virtuale, più concreta con i propri lettori: «il protagonista del Giovane Holden parla di libri che fanno venire voglia di conoscere i loro autori, chiacchierarci al telefono e via dicendo. Se un’opera letteraria riesce in questo lo considero un successo. Anzi, è l’unico tipo di successo letterario che abbia senso, per me».
Con queste parole, Ligotti mostra egli stesso l’incoerenza della sua teoria. La felicità, la gioia, si trova nella comunità. Il paradigma cartesiano della mente individuale-separata è falso, la mente esiste solo in relazione a un network, una comunità di menti. Ma questo network è reso aprioristicamente impossibile dal pessimismo: da qui la tensione che lo stesso Ligotti prova quando vuole cercare conforto nella comunità eppure rimane solo, non riesce a fare il passo finale perché frenato dalla sua stessa filosofia.
Ci si potrebbe chiedere perché dovremmo pensare a menti come estendibili con corpi e artefatti, invece di limitarci a pensarle come solamente interagenti con essi. Fa qualche differenza? Una risposta è che, nei casi descritti, il cervello, il corpo e il mondo non agiscono come sistemi d’interazione separati, ma come un sistema unico, strettamente intrecciato da complesse relazioni di feedback, e che abbiamo bisogno di guardare al tutto per capire come si svolge il processo cognitivo.
Keith Frankish, un filosofo britannico, propone questo interessante esperimento mentale: immaginate di avere il vostro cervello vivo temporaneamente rimosso dal cranio, con le connessioni nervose intatte, in modo da poterlo tenere e guardarlo. Questo vuol dire che gli occhi sarebbero ancora sul viso, così come tutti gli altri organi sensoriali sarebbero al loro posto. Ci sarebbero solo delle connessioni nervose più lunghe per accomodare la nuova posizione del cervello. Ebbene, dice Frankish, sembrerebbe di averlo ancora nella testa, anche se ce l’avremmo in mano.
Se la mente non è delimitata dal cervello o dalla pelle, dove si arresta? Qual è la linea di confine? La risposta breve è che non ce n’è una – o per lo meno non stabile. La mente si espande e si restringe. A volte (nel pensiero silenzioso, per esempio) l’attività mentale è limitata al cervello, ma spesso si estende al corpo e al mondo esterno. È una cosa fluida, che non può essere contenuta.

5. Conclusione
Recentemente, si è parlato in un altro articolo della idealizzazione operata dalla filosofia analitica risultante in una apparente spoliticizzazione dei suoi contenuti — apparente in quanto risulta semplicemente in una giustificazione dello status quo. Sicuramente ciò è vero, eppure non è così necessariamente: la filosofia analitica (se si vuole sostenere una reale differenza fra le due tradizioni), come quella continentale, può politicizzarsi così come la scienza. La filosofia della mente, in questo caso, è il punto da cui ripartire. Le teorie etiche e politiche, in filosofia, si basano su nozioni fondamentali quali quella di soggetto che inevitabilmente emergono da teorie filosofiche sulla mente. Idee come il panpsichismo e la mente estesa, come quelle portate avanti da David Chalmers ed Andy Clark, possono essere utili nella ri-semantizzazione di un soggetto collettivo, precedente al soggetto individuale, che col tempo può diventare il soggetto egemone nel discorso filosofico. Se partiamo dal presupposto che le nostre menti sono sempre situate, ogni stato mentale assume un nuovo significato: le emozioni, per fare un esempio, sono chiaramente un’attività sociale, che una teoria della mente à la Kant o à la Cartesio non riusciranno mai a spiegare. La maggior parte delle emozioni nascono in un contesto sociale, operano su input sociali e servono funzioni sociali. Le persone usano le emozioni per comunicare informazioni importanti su chi sono, come desiderano essere trattati e come si sentono in una situazione. Se sperimentare emozioni dà alle persone un nuovo senso di “me” e “noi”, come suggerito da Livingstone e colleghi in “We feel therefore we are”, può anche guidare e riconfigurare le relazioni quotidiane.
Per esempio, qualcuno che provi compassione verso un gruppo e disprezzo verso un altro potrebbe trattare le persone in modo diverso: alcuni individui potrebbero ricevere comprensione accogliente, altri rifiuto ostile. Facendo sì che le persone si attraggano o si respingano l’una con l’altra, le emozioni possono trasformarle in gruppi con idee simili. È questa la verità intuita innanzitutto dalle grandi corporazioni, come da Elon Musk, che perciò si impegna attivamente per evitare la formazione di sindacati tra i suoi dipendenti. L’esistenza di queste emozioni collettive fa sì che l’esperienza fenomenica individuale cambi in contesti sociali: il senso di euforia nelle proteste, il sentimento di collettività nei rave party così come nelle feste dionisiache fanno riprovare quella coscienza collettiva che siamo stati forzati ad abbandonare dal sistema economico. Il senso di comunità — come viene fatto notare anche dal Comitato Invisibile, il cui libro è stato pubblicato per Not — vince su tutto: basti prendere in considerazione ciò che è capitato dopo l’uragano di New Orleans; pace Hobbes. Ciò non significa che senza una collettività non v’è affatto intenzionalità; in un naufragio la sfortunata persona sarebbe ancora in grado di intendere le cose, potrebbe desiderare di essere salvata per esempio. Il desiderio, tuttavia, è fondato dal fatto che esiste una collettività, la società, sia nella forma di famiglia, amici, o più in generale nella forma di qualsiasi tipo di relazioni significative tra le persone da qualche altra parte nel mondo, in cui questa persona si troverebbe in una situazione migliore. Riappropriarsi eticamente e politicamente di questo semplice fatto potrebbe essere il primo passo verso la costruzione di una reale comunità.
Esiste un popolare libro sulla mente di Douglas Hofstadter e Daniel C. Dennett che riprende un famoso gioco di parole inglese: “The Mind’s I”, l’Io della Mente. È forse arrivato il momento di riconoscerne l’errore, e procedere alla teorizzazione di un noi della mente.
Bell’articolo davvero mi serviva grazie