Il pantarèi



Pubblicato nel 1985, Il pantarèi è un’opera metaletteraria sulle inesauribili possibilità della scrittura, una risposta alla domanda sulla morte del romanzo che già a quei tempi circolava con insistenza fra gli intellettuali, ma è anche una storia sull’instabilità sentimentale ed emotiva, sull’ambiguità dell’eros e l’inafferrabilità della vita.


In copertina: Die Ermordung Ludwig XIV – Teppich: Cracks33 | AubergineOnSalbei immagine: Wolfgang Lettl e tappeto: Jürgen Dahlmanns 2015

Questo testo è tratto da “Il pantarèi” di Ezio Sinigaglia. Ringraziamo Terrarossa per la gentile concessione


di Ezio Sinigaglia

Stern richiuse il quadernetto e fece scivolare leggermente all’indietro la manica del pullover e il polsino della camicia: le tre e quaranta.

Dormire, pensò, sarebbe molto ragionevole. Coricarsi nel letto che conserva nel suo calore ancora un po’ del profumo di lei. Cedere dolcemente alla stanchezza. Per una volta, forse, sogni dilatati, dove si respira.

Chiuse davvero gli occhi, cercando immagini riposanti, materne: mari o praterie. Ma vide solo l’interno delle proprie palpebre attraversato da sottili fettucce di luce. Si alzò in piedi e, dal centro della stanza, nella luce tenue, contemplò il disordine che stava in attesa sulla scrivania.

Perché no? Kafka è uno scrittore notturno. E, quasi senza averlo deciso, si trovò seduto alla macchina da scrivere.

Intorno all’opera di Kafka, quasi sconosciuta fino alla sua morte, avvenuta nel 1924, si è scatenata, nel mezzo secolo successivo, una specie di frenesia dell’esegesi, un assordante sabba critico, una proliferazione di saggi, biografie, articoli, appunti e scritti di ogni genere così smisurata e promiscua da scoraggiare il più erudito e pedante dei bibliografi. Accanto ai critici letterari, che costituirebbero, per così dire, l’ufficio competente, e ancor più fecondamente di quelli, si sono occupati e si occupano di Kafka, anche se non esclusivamente di lui, filosofi, teologi, politologi, sociologi, psicanalisti e psicologi, storici e romanzieri, ebraisti e antisemiti, amici di Kafka e semplici praghesi che, pur non avendolo conosciuto, conoscono i luoghi della sua vita e dunque possono capirlo meglio degli altri. Nessuno rinuncia, se appena gliene si presenta l’opportunità, a “dire la sua” su Kafka.

Io sì, rinuncerei volentieri. O forse no. Anche i disoccupati si occupano di Kafka. Aggiungere all’elenco: grafomani senza occupazione. Emarginati. Nevrotici insonni. Comunque devo: è nella scaletta. Care lettrici, un consiglio spassionato: non leggetemi. L’unico modo per non capire Kafka è leggere una pagina su Kafka anziché una pagina di Kafka. Così parlò Stern.

Una così prodigiosa dovizia di letteratura secondaria è servita a svelare uno almeno dei molti misteri in cui la figura e l’opera di Kafka sembrano avvolte: egli fu in molte cose buon profeta, anzi in alcune sbalorditivo veggente, e se, in vita, fu talvolta attraversato dalla visione della mostruosa massa di interpretazioni da cui i suoi scritti sarebbero stati sommersi, non è difficile comprendere perché, in punto di morte, supplicasse l’amico Max Brod di dare alle fiamme tutti i suoi manoscritti. Lui che (su questo almeno tutte le testimonianze concordano) era così timido, schivo e discreto, lui che aveva una specie di silenzioso culto della verità e dell’esattezza, lui che considerava lo scrivere un disperato e solitario rifugio, avrebbe certo provato orrore se avesse potuto antivedere la tremenda popolarità del suo nome, il prospero commercio dei suoi romanzi incompleti, dei suoi racconti e persino dei suoi diari e delle sue lettere, la folla di imitatori e commentatori, lo stupefacente esercito dei kafkomani e, soprattutto, la germinazione incontrollabile dei malintesi. E avrebbe addirittura scavalcato l’intermediazione di Brod, gettando personalmente nel fuoco tutte le sue carte, se avesse potuto prevedere la portentosa fortuna dell’aggettivo “kafkiano”, che di lì a pochi decenni sarebbe stato usato per definire, con identica noncuranza e stupido compiacimento, l’iter di una legge o i sottopassaggi della metropolitana.

Attenzione: la notte ti eccita troppo. Calma. Meglio fare una sosta. Queste non sono che parole in libertà. Fantasie da signora con l’insonnia ah le mie gocce di valium che cretina dimenticata anche stasera. Vendi la tua immagine di Kafka. Romantica per giunta. Né più né meno degli altri. Solo un po’ démodé.

Stern sbadigliò, si stirò e decise di farsi un caffè.

Le poète ennemi du sommeil

La piccola Carmen. Certo dorme. Mi sogna? Perché dovrebbe? Sognare quello che si è appena fatto. Assurdo. Sognerà il fidanzato. Alternare è più saggio. Oppure una contaminazione fra i due. Un fidanzato sterneggiante. Uno Stern fidanzatificato. Ah questo no! Pietro o Paolo? Non ricordo. Piero forse. Insomma, e dopo? Rivederla. E ririvederla. Mi piace. Ma. E dopo?

A lei magari non. Non si fa più viva. Si fa negare. Solo per gioco. Cavarsi lo sfizio. Andare a letto con uno “così”. Ma se non lo sa. Sospetta. Intuisce. Sesto senso. Per di più anche mezzo ebreo. Due piccioni. No: uno e mezzo. E sposato. Bel colpo. Adesso le manca solo un negro. Oppure si fa viva. E dopo? Spiegarle. Raccontare. Cara Carmen. Carminuccia non vorrei che tu. Che io. Devi sapere che io. E d’altra parte che tu. Insomma. Un bel casino. Quasi più semplice Kafka.

Ha scritto uno dei tanti suoi critici, probabilmente il più saggio: “è giunto forse il momento propizio per liberare Kafka dai vari kafkismi: tutti arbitrari e falsi, perché unilaterali”. Esortazione che sembra senz’altro da condividere. Perciò non si cercherà qui di accreditare nessuna delle innumerevoli interpretazioni teosofiche, politiche e psicanalitiche che sono state date dell’opera kafkiana, né tanto meno di offrirne una nuova, di cui proprio non si avverte il bisogno. È molto meglio accostarsi ai libri di Kafka cercando il più possibile di prescindere da tutto quel che è stato scritto e detto su di lui, tenendo tuttavia conto dell’aspetto quantitativo del fenomeno per porsi questa semplice domanda: perché tanto e così diffuso, universale interesse?

A domanda semplice risposta semplice: perché Kafka coinvolge.

Non esiste, forse, cervello tanto sprovveduto o, al contrario, tanto levigato e razionalizzante, da non sentire Kafka; non esiste lettore così rudimentale né così sofisticato da non capire, leggendo Il processo, La metamorfosi o Il castello, che quel che è in gioco è l’uomo, la sua condizione, il suo dolore, il suo destino. Temi ai quali nessuno può sentirsi estraneo, gioco al quale nessuno può sottrarsi. Ben pochi scrittori sono arrivati, con così penetrante destrezza, a titillare la nostra coscienza. I personaggi di Kafka, si chiamino Gregor Samsa, Karl Rossmann, Joseph K o, ancor più semplicemente, K, sigla atona e indifferenziata che li rappresenta tutti e che ci rappresenta tutti, sono il nostro doppio, la nostra ombra, la nostra paura. L’uomo di Kafka è un uomo in lotta: in lotta contro forze schiaccianti, contro macchine astruse, contro poteri arcani, contro nemici sfuggenti, viscidi, ubiqui; in lotta contro sé stesso e la propria natura; in lotta per sopravvivere, giorno per giorno, con dolorosa necessità; e in lotta anche contro questa stessa necessità e contro la propria sola certezza: la morte.

Fu proprio a questo punto, o forse poco prima, nel bel mezzo di quel crescendo un po’ enfatico, o poco dopo, quando aveva appena cominciato il periodo successivo (che principiava così: Nessuna meraviglia…), fu dunque proprio allora che Stern udì esplodere alle proprie spalle il gracidio vibrante del campanello. Come prima risposta, guardò l’orologio: erano quasi le cinque. Dubitò dei propri sensi, tanto più che la notte aveva subito inghiottito quel suono estraneo e la superficie del silenzio si presentava immobile, intatta, come se da ore non venisse turbata. Tuttavia scivolò quasi con vergogna alla porta, e la spalancò.

Il pigiama del geometra Sambò era per quattro quinti nascosto da una vestaglia di seta e il suo proprietario stava ritto sul pianerottolo stringendo il corrimano alla sua destra come se temesse di cadere. Se ne staccò proprio mentre Stern appariva sulla soglia e si portò la mano destra al collo, certo con l’intenzione di aggiustarsi la cravatta: non trovandola, le sue dita rossicce si aggrapparono al bavero della vestaglia, facendo risalire verso l’alto il punto in cui le due falde si sormontavano.

«Sono costernato, signor Stern. Cioè… volevo dire. Ecco vede…»

Avrà certo bisogno di aiuto, pensò Stern. La moglie forse. È spesso incinta. E cercò di mitigarne l’imbarazzo.

«Oh non si preoccupi» fece premuroso. «Come vede, non stavo affatto dormendo.»

«Oh lo so lo so!» fu la sorprendente risposta.

La luce delle scale si spense e Stern si ricordò di dover dire: «Ma si accomodi, prego».

Il geometra Sambò varcò la soglia in un fruscio di disagio.

«Ecco, vede» riprese quando fu dentro. «Si tratta, mi scusi, della sua macchina da scrivere.»

«Oh, mi dispiace! Non pensavo che… Davvero non credevo che facesse tanto rumore. Smetterò immediatamente.»

Il geometra Sambò si passò una mano fra i capelli scomposti. Poi si tolse gli occhiali e cominciò a strofinare le lenti contro una manica della vestaglia.

«Purtroppo, sa, queste case moderne hanno i muri così sottili. E, vede, la nostra camera da letto confina proprio con il suo… con la stanza dove lei» fece una sosta mentre inforcava nuovamente gli occhiali «lavora».

«Ma allora. Anche altre volte. Avrebbe dovuto… mi dispiace moltissimo. D’ora in poi, di notte, userò la penna.»

«Grazie, signor Stern. E mi scusi se mi sono permesso… Le dirò. È stato per via di mia moglie. Vede, nel suo, capisce, nel suo stato. Si alza spesso, la notte. E con la macchina da scrivere… Mi creda, è come averla in camera. Non riesce più a riaddormentarsi.»

«Non so davvero come farmi perdonare.»

«Oh, per carità, non esageri! Vede, non è tanto per il ticchettio. Quello, come dire, ti entra nella testa e dopo cinque minuti non lo senti più. Io, per esempio, ho continuato a dormire. Stavo sognando di essere in ufficio, e quindi la macchina da scrivere non mi dava nessun fastidio. Ma mia moglie dice che non può dormire per via del campanello.»

«Il campanello?»

«Sì, quello della macchina. Ogni volta che lei finisce una riga, suona il campanello. Ma il fatto è, dice mia moglie, che certe volte lei si ferma, come dire, a metà della riga.»

«Capisco. Sua moglie aspetta che il campanello suoni e…»

«Appunto. Vedo che lei ha capito subito. Mia moglie pensa: se mi addormento, il campanello mi sveglierà; meglio dunque aspettare che suoni. E così rimanda il sonno da una, come dire, da una riga all’altra.»

«Oh, poverina!»

«Sa come mi ha svegliato?» il geometra Sambò aprì la porta e accennò a ritornare sui propri passi. «Mi ha afferrato per un braccio, mi ha scosso. Poi dice: “Ma perché il signor Stern non si decide a finire quella benedetta riga?”»

«Le porti le mie scuse. Non succederà più. E buonanotte.»

Ecco perché le pagine successive furono scritte a penna.

Nessuna meraviglia dunque se l’uomo tormentato dei nostri giorni ha salutato con tanto entusiasmo in Kafka il poeta della sua inquietudine, il privilegiato cantore della sua meschina guerra quotidiana. Come egli stesso rileva, Kafka seppe assumere su di sé, specie di miracoloso Atlante della coscienza, tutta la negatività del suo tempo. La sua fragile persona restò schiacciata da questo peso immane: ma la sua arte se ne alimentò, costruendo sul negativo uno dei più solidi edifici letterari del secolo.

C’è nell’uomo di Kafka una solitaria grandezza, che la rigorosa esattezza della parola conferma e irrobustisce. Questa grandezza gli compete perché, come si è detto, egli è sempre un uomo in lotta, e per di più sempre perdente. L’opera di Kafka è, come il titolo di un suo racconto, la descrizione di una battaglia, in cui i combattenti si riappropriano di una dimensione epica che credevamo perduta, logorata, improponibile. Eppure Kafka non mette sulla scena eroi e giganti, ma agrimensori, procuratori di banca, un adolescente scacciato di casa per essersi lasciato sedurre da una serva, un ricco commerciante, un miserabile fuochista; e anche se talvolta lo straordinario fa irruzione nella realtà, è per trasformare in uno scarafaggio ripugnante un irreprensibile viaggiatore di commercio. Anche gli avversari contro i quali questo piccolo uomo gioca la sua battaglia, per quanto enormemente più potenti di lui, non hanno nulla di grandioso: sono tribunali di una giustizia delirante, che risiedono in soffitte fatiscenti, dove l’aria è così putrida da riuscire irrespirabile; sono burocrazie pedanti, nascoste, sì, in castelli inaccessibili, ma rappresentate da funzionari obesi, mediocri e arroganti che, fingendo di lavorare, si addormentano davanti ai loro boccali di birra; sono continenti sterminati e inospitali, percorsi dalla febbre dell’efficienza, dell’automazione e del progresso, ma i cui messaggeri sono portieri d’albergo collerici, piccoli lestofanti denutriti, ragazzine isteriche e violente, uomini d’affari ridicolmente vendicativi. La grandezza non è nella statura dei protagonisti, ma nell’emblematicità della lotta. C’è nella pagina di Kafka la solenne, tragica densità di certi sogni. Come i sogni, infatti, le opere di Kafka sono disseminate di simboli, per i quali esistono naturalmente vari sistemi di decodificazione e di lettura; analogamente i sogni sono interpretati in modo alquanto diverso dallo psicanalista e dall’esperto di cabala. Ciascuno di tali sistemi è, per usare le parole del nostro critico, arbitrario e falso, perché unilaterale. Si cerca una chiave, come per certi innocui giochi di enigmistica: ma è illusorio pensare che esista un passe-partout. Ci vorrebbe forse una chiave per ogni porta, e le porte sono tante, infinite, come gli ingressi del Castello, i corridoi del Processo, le strade di America. Inutile perdersi in questo labirinto.

Qui, dove si cerca semplicemente di tracciare una linea evolutiva del romanzo del nostro secolo, importa soprattutto definire, se possibile, quale sia stato il contributo di Kafka all’evoluzione del romanzo del Novecento. È evidente che Kafka ha avvertito, come altri, l’esigenza di rappresentare l’angoscia dell’uomo contemporaneo e il suo senso di estraneità al mondo che lo circonda; e ha avvertito altresì, ancora una volta come altri, il disagio a usare di un mezzo, il romanzo appunto, palesemente insufficiente, almeno nella sua forma tradizionale, a tale compito. Ma egli è il solo grande scrittore della sua generazione (gli si potrebbe forse accostare, con molta cautela e qualche licenza, lo svizzero Robert Walser) ad avere scelto, per il necessario rinnovamento del romanzo, la strada della trasposizione della realtà da rappresentare su un piano che non è più quello della realtà. Il mondo di Kafka, a volte tragico a volte grottesco, o forse tragico e grottesco insieme, è sempre e comunque una forzatura della realtà. Si potrebbe dire che egli abbia scelto la strada della fiaba più che quella del romanzo, se non fosse per il timore di relegarlo nell’angusta e noiosa biblioteca della letteratura edificante. Propria della fiaba è in effetti la molteplicità di significati che converge su ciascun personaggio, ambiente, oggetto, immagine, facendone un simbolo di straordinaria densità e di immediata, seppure arcana, efficacia. E con la fiaba l’opera di Kafka condivide anche il destino sgradevole di venir banalizzata e tradita dall’immancabile domanda: e qual è la morale?


Ezio Sinigaglia è nato a Milano nel 1948. Ha svolto diversi lavori in ambito sia editoriale che pubblicitario e, dopo aver esordito con Il pantarèi nel 1985, ha preferito non pubblicare altro per oltre un trentennio: solo nel 2016 è uscito per Nutrimenti Eclissi, un romanzo breve molto apprezzato dalla critica e dai lettori. Tra gli autori che ha tradotto e curato figurano Charles Perrault, Marcel Proust e Julien Green. Suoi contributi narrativi e saggistici sono apparsi su prestigiose riviste a stampa e sul web.

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