Il ruolo della letteratura nel femminismo



Dal salotto di Anna Pàvlovna a Madame Bovary, da Anna Karenina a E. Briest; e ancora le scrittrici nell’Ottocento, Jane Austen, le Brontë, Martha Nussbaum, Joyce… due secoli di letteratura che hanno descritto e capovolto il ruolo della donna nella società.


In copertina: La lettrice, di Jean-Honoré Fragonard, 1776

Questo testo è tratto da “Sua maestà legge?” di Donato Carusi. Ringraziamo Olschki per la gentile concessione


di Donato Carusi

1. Guerra e pace si apre con una serata mondana in casa di Anna Pàvlovna Scherer, «damigella e familiare dell’imperatrice Maria Fjòdorovna». L’umanità più in vista di Pietroburgo vi commenta l’attualità politica, dice tutto il male del mondo di Napoleone (rigorosamente in francese), prepara raccomandazioni presso lo zar, combina matrimoni e benedice carriere. 

Come il padrone di una filanda, dopo aver messo i lavoranti ai loro posti, passeggia per lo stabilimento e, notando che un fuso sta immobile o fa un rumore inusitato, stridulo, troppo forte, va in fretta per arrestarlo o spingerlo secondo il bisogno, così anche Anna Pàvlovna, passeggiando per il suo salotto, si avvicinava a un gruppo dove si taceva o dove si parlava troppo, e con una parola o con un piccolo spostamento tornava a far funzionare in modo regolare e conveniente la macchina dei discorsi. 

L’alta società ottocentesca conservò alla donna questo ruolo originante dalla Francia illuminista e proto-illuminista, di tessitrice di relazioni, promotrice di conversari, in una parola di organizzatrice di salotti. Nell’iniziativa femminile erano impliciti una promessa e una pretesa di allegria, vivacità, raffinatezza: molto spesso veniva eseguita musica di buon livello; nessuna novità di rilievo – ultime grida della moda parigina o londinese, spettacoli teatrali, rovesci di famiglie benestanti – passava sotto silenzio. Sede di queste riunioni erano i palazzi della nobiltà vecchia e nuova, scenografici e pullulanti di servitù. Esservi ammessi non dipendeva però esclusivamente dalla classe sociale: il riconoscimento di modi brillanti, di talento e di merito non fu negato in linea di principio a persone dai natali modesti. Dalle case altolocate i giudizi emananti da questi consessi rimbalzavano nei caffè e nei palchi dell’opera, filtravano nelle cronache dei giornali e di bocca in bocca si propagavano non di rado anche in luoghi lontani. Quando uno straniero di un qualche prestigio era di passaggio in città – non necessariamente un alto burocrate o un autorevole pubblicista, ma anche un ecclesiastico famoso per la sua oratoria, o un giovane poeta sufficientemente eccentrico – ci si faceva un vanto di invitarlo: con il che si poteva star sicuri di vedersi ricambiati, quando ci si fosse messi in viaggio, la stessa cortesia. 

Da un capo all’altro del secolo molti intellettuali di grande levatura, da Rousseau a Mahler, guardarono con insofferenza o con sarcasmo a questo genere di adunanze, reputandole il regno delle convenzioni ipocrite, dei pettegolezzi e degli intrighi. Ma l’élite privilegiata e compiaciuta di esserlo che vi si ritrovava non mancava di curiosità e intelligenza e finì per esercitare un’oggettiva funzione di indirizzo e di ricambio del pensiero e del gusto. Ancora agli inizi del Novecento un musicista del valore di Maurice Ravel, incompreso dall’accademia, avrebbe stentato ad affermare il proprio genio, forse addirittura vi avrebbe rinunciato, se non fosse stato conosciuto nei salotti parigini e sostenuto dalle loro animatrici. 

Si può insomma affermare che dalle loro ferventi filande poche donne fortunate, ma tutt’altro che prive di cognizione di causa, abbiano di fatto esercitato grazie a questa istituzione sociale, in qualche misura, ruolo di «classe dirigente». Nella stessa forma di mondanità si coglie però anche un principio d’esclusione o neutralizzazione: il femminile, e con esso tendenzialmente l’arte, la cultura e la «filosofia», relegati al rango del supplementare, non grave, ricreativo. 

2. Prima del secolo borghese, di posizione subalterna delle donne nell’organizzazione del mondo era stata fatta questione solo entro ristrettissime cerchie intellettuali: si ricordano al riguardo il trattato allegorico Le livre de la cité des dames di Christine de Pizan (1364-1431) e il secentesco saggio L’ègalité des hommes et des femmes di Marie de Gournay (1565-1645), allieva di Montaigne e curatrice della pubblicazione dei suoi Essais. 

Il pensiero degli illuministi ravvivò il tema. Agli esordi della Rivoluzione Olympe de Gouges – singolare figura di ideologa autodidatta e autrice di teatro – vi dedicò il romanzo Le prince philosophe. Scrisse poi e presentò all’Assemblea costituente una Déclaration des droits de la femme largamente tributaria di Rousseau: la natura è libertà, le istituzioni storiche hanno creato gerarchie, diseguaglianze, oppressione. Oltre all’oppressione delle donne, Olympe lamentò quella degli schiavi (L’ésclavage des nègres): entrambi i temi furono all’ordine del giorno nella prima fase del processo rivoluzionario. Già nel ’91, però, l’eguaglianza politica delle donne fu declassata a questione secondaria; delle società femminili che nel frattempo erano sorte numerose venne imposto lo scioglimento. La Costituzione del 1793 previde bensì il suffragio delle donne, ma non venne, sul punto, mai applicata. Mme. de Gouges si scontrò pubblicamente con Mirabeau e con Robespierre e finì ghigliottinata nello stesso anno. 

Non ebbe un destino altrettanto tragico, ma dovette subire la sua dose di pubblico dileggio, Mary Wollstonecraft, autrice di una Vindication of the Rights of Woman pubblicata in Inghilterra l’anno successivo. 

Perché il ruolo delle donne nella società e nelle famiglie iniziasse a profilarsi come una questione nella coscienza comune occorreva ben altro: anche da questo punto di vista la comparsa e la diffusione del romanzo moderno segnano uno snodo cruciale. Rivolgendosi alla vita concreta e – come dice Fielding – alla vera comprensione della «natura umana», l’interesse letterario non può che estendersi anche all’universo femminile. Moll Flanders e Pamela sono solo le prime di una lunga serie di eroine, ora fortunate, più spesso tragiche, cui nel corso dell’Ottocento si ascriveranno Madame Bovary e Anna Karenina, Tess dei d’Uberville ed E Briest. Lo sguardo di scrittori uomini si rivolge all’altra metà del mondo con un’attenzione psicologica e una profondità simpatetica del tutto nuove. D’altra parte l’esercizio dell’arte del romanzo si prestava meglio di altre forme di produzione intellettuale alla posizione socialmente defilata di regola riservata al genere femminile: se fin dagli esordi il romanzo moderno poté contare su tante donne tra i suoi lettori, le donne presero subito, e numerose, a figurare tra gli autori. Qualcuno ne trasse l’idea che il romanzo fosse un genere espressivo a loro specialmente congeniale. Le innumerevoli voci femminili che punteggiano la letteratura moderna hanno tutte contribuito alla lenta, faticosa rivelazione dell’opposta verità che tuttora stentiamo a riconoscere: i rapporti tra i sessi e le loro rispettive «competenze» non sono un dato fisso di natura, ma l’esito di una continua costruzione politica e culturale. 

3. Le figlie della megera Thenardier impediscono a Cosette di giocare con le bambole e Victor Hugo – lo stesso che abbiamo visto rivolgersi alla condizione dei carcerati con tanto sconvolgente perspicacia – dà la stura a un profluvio di vezzeggiativi: 

la bambola è uno dei bisogni più imperiosi e in pari tempo uno degli istinti più graziosi dell’infanzia femminile: curare, far abitini, ornare, vestire, spogliare, rivestire, educare, sgridare un pochino, cullare, accarezzare, addormentare, immaginarsi che qualcosa è qualcuno, si compendia qui tutto l’avvenire della donna: mentre fantastica e chiacchiera, mentre confeziona corredini e pannolini, mentre cuce vestitini, cappellini e camicioline, la bambina diventa fanciulla, la fanciulla giovanetta, la giovanetta donna. Il primo bimbo continua l’ultima bambola. 

Una bambina senza bambola è quasi altrettanto infelice e certo bisbetica che una donna senza figli. 

Non può essere un caso che Marius de I miserabili resti una delle migliori personificazioni dell’immaginario erotico-sentimentale maschile cui tanta letteratura di successo, scritta da uomini attraverso i secoli, ha offerto insieme espressione e nutrimento: 

Si sentiva il cervello in fiamme: essa era venuta fino a lui! Quale gioia! E poi, come l’aveva guardato! Gli era parsa più bella che mai, bella d’una bellezza femminea e angelica a un tempo, d’una bellezza assoluta che avrebbe fatto cantare Petrarca e inginocchiare Dante. Gli pareva di veleggiare in pieno nell’azzurro e in pari tempo era orribilmente seccato perché le sue scarpe erano impolverate. Certamente essa gli aveva guardato anche le scarpe. 

Questo timore delle scarpe impolverate costituisce certo, da parte dell’autore, un tocco di ironia. Ma la voce narrante del romanzo lascia immaginare che Hugo non senta troppo diversamente dal suo personaggio: 

C’è un momento in cui qualsiasi fanciulla guarda a quel modo: guai a chi si trova lì! Quel primo sguardo di un’anima che non conosce ancora se stessa è come l’alba nel cielo, il risveglio di qualcosa di splendente e d’ignoto; nulla saprebbe rendere il fascino pericoloso di quel bagliore inatteso che a un tratto illumina vagamente tenebre adorabili e si compone di tutta l’innocenza del presente e di tutta la passione dell’avvenire, quasi una tenerezza indecisa che si rivela a caso e attende. È un tranello teso dall’innocenza a sua insaputa, con il quale essa imprigiona i cuori senza volerlo e senza saperlo. È una vergine che guarda come una donna. 

È raro che da questo sguardo, là dove cade, non nasca una fantasticheria profonda: tutte le purezze e tutti gli ardori si concentrano in quel raggio celeste e fatale che meglio delle più sapienti occhiate delle civette ha il magico potere di far sbocciare all’improvviso dal fondo di un’anima quel fiore oscuro, pieno di profumi e di veleni che chiamiamo amore. 

In un’altra pagina del libro la condizione dell’innamorato è così descritta: 

un incatenarsi di forze misteriose s’impadronisce di voi, vi dibattete invano, nessun soccorso umano possibile, cadete di ingranaggio in ingranaggio, d’angoscia in angoscia, di tortura in tortura, voi, il vostro cervello, il vostro avere, il vostro avvenire, e secondo che sarete in potere di una creatura malvagia o di un nobile cuore, non uscirete da questo congegno spaventevole che sfigurato dalla vergogna o trasfigurato dalla passione. 

La letteratura non ha mai smesso di mostrare che l’amore in senso erotico può essere una forza potentissima, percepita dal soggetto come di gran lunga superiore al proprio controllo e capace di sospingerlo, a seconda delle circostanze, all’esaltazione o alla disperazione, in qualche caso perfino al suicidio. Che esista e sia diffusa una letteratura di mano femminile è la condizione minima per un riconoscimento di reciprocità – al vento misterioso e imprevedibile dell’amore gli individui d’ambo i sessi sono parimenti esposti – e per scorgere quali, tra le citate parole di Hugo, di sicuro non meritano l’assenso del lettore: è del tutto ingiustificato fare distinzione tra «cuori nobili» e «creature malvage» sulla sola base del fatto che l’altro abbia o meno corrisposto ai nostri voleri. 

4. Non sperando particolarmente che nelle fantasie di maternità dell’infanzia la loro vita venisse tutta a «compendiarsi», molte donne intrapresero dunque, a far tempo pressappoco dagli stessi anni in cui visse Hugo, la sua stessa occupazione di scrittore. Contro di loro si levavano svariati luoghi comuni: l’idea secondo la quale darsi alla scrittura di romanzi fosse da parte delle donne un segno sconveniente di protagonismo; l’opinione che quella prodotta da donne fosse per definizione letteratura di second’ordine, viziata da velleitarismo, sentimentalismo e difetto di forma. Questo spiega che molte autrici di quel tempo si rassegnassero a pubblicare con pseudonimi maschili; e contribuisce a dar conto di quanto poche tra loro abbiano trovato accoglienza nel «canone» della grande letteratura. Dalla capostipite Jane Austen – che licenzia nel 1813 il suo romanzo più famoso, Orgoglio e pregiudizio – a Katherine Mans’eld – la cui raccolta di racconti The Garden Party and Other Stories, del 1922. si situa all’innesto di un nuovo corso non della scrittura femminile, ma della narrativa tout court – contiamo Mary Shelley per il suo inscalfibile campione dello «stile gotico» Frankenstein (1818), George Eliot e poco altro. Pure su quel poco continua peraltro ad aleggiare, nella communis opinio risultante da sbiadite reminiscenze liceali e levigate riduzioni filmiche, l’etichetta di genere «romantico-sentimentale». Di Jane Eyre, il primo e il più noto tra i romanzi di Charlotte Brontë, si dimenticano i risvolti più cupi e profondi; in Cime tempestose della sorella Emily si trascura la denuncia eccedente la stessa questione femminile, l’atto d’accusa radicale e perfino disperato nei confronti dei modelli educativi e delle scale di valori che, esprimendo in particolare una sorta di fobia nei confronti della sessualità, forzano gli esseri umani a vivere in un guscio di rispettabilità e di conformismo. 

I circoli d’avanguardia erano i più disposti a far giustizia dei preconcetti atteggiamenti di sufficienza o vera e propria ostilità. Il caso più celebre è quello di Aurore Dupin, che scrive sotto il nome di George Sand non per nascondersi a nessuno, ma in funzione provocatoriamente auto-assertiva: che si tratti di una donna è ben noto e non impedisce che le si tributi negli ambienti letterari e politici del suo tempo, anche fuori dei confini francesi, grande considerazione. 

Altro «caso» molto conosciuto tra i contemporanei e oggi lambito dalla dimenticanza fu quello di Flora Tristan, buona scrittrice, ma soprattutto polemista e attivista politica (Le peregrinazioni di una paria, 1833; Mephis o il proletario, 1838, Passeggiate a Londra, 1840). Essa associò la condizione delle donne a quella degli sfruttati nelle manifatture e nelle fabbriche, sposò la causa delle nascenti lotte operaie e si riconobbe nelle dottrine socialiste utopiche di Fourier e di Saint-Simon. 

Oggi si discetta se e fino a qual punto ciascuna di queste scrittrici, per intenzione e consapevolezza, meriti la qualifica di «femminista»; ma non è possibile revocare in dubbio che le loro figure e le loro opere siano state di stimolo a tante altre donne intraprendenti e coraggiose, le quali – mentre assunsero un ruolo rilevantissimo nell’alimentare il movimento d’opinione che gradualmente portò all’abolizione della schiavitù – reclamarono per sé eguaglianza di diritti sul piano civile e su quello politico, accesso alle occupazioni maschili e parità di trattamento economico. Le loro rivendicazioni furono in genere collegate ai partiti socialisti e al movimento operaio; ma un contributo importante alla causa venne da un filosofo liberale come John Stuart Mill (La servitù delle donne, 1869); e fu il cantore della democrazia statunitense Walter Whitman (1819-1892) a predicare in versi fin troppo enfatici un nesso strettissimo tra inclusione politica, piena accettazione della corporeità e della sessualità degli esseri umani, riscatto sociale della donna.

Occorsero molti decenni, un cambio di secolo e una più strutturata organizzazione perché i primi f rutti di questa battaglia, che a lungo sembrò senza speranza, venissero colti. In Inghilterra la Women’s Social and Political Union, nata nel 1903, e il movimento così detto delle suffragette ottennero il riconoscimento del diritto di voto alle donne, e con esso del suffragio universale, solo dopo la prima guerra mondiale; in pochi anni il principio fu accolto in Germania e negli Stati Uniti, in Austria e nella neonata Cecoslovacchia, mentre in Svezia, Olanda, Francia e Italia bisognò attendere la fine di un’altra guerra. In Svizzera le donne saranno ammesse al voto soltanto nel 1971. 

5. Fatti salvi alcuni preannunci nel teatro di Lessing, è il romanzo moderno ad aver messo a nudo la carica di violenza che non solo il mondo borghese, ma ancestrali strutture mentali, culturali e sociali tendono a riversare sulla donna: il desiderio della donna stigmatizzato, represso, negato, in ambienti rurali come quello cui appartiene Lia de I Malavoglia; il corpo della donna – Gertrude di Manzoni, poi la Capinera dello stesso Verga – murato in monastero in quanto oggetto dell’autorità paterna; le opere e i giorni della donna di città, benestante e istruita, giocati in nome degli interessi della famiglia: 

«Come mi è dispiaciuto, signorina, sinceramente dispiaciuto di non vederla!» disse il signor Grünlich un paio di giorni dopo mentre Tony, che ritornava da una passeggiata, s’imbatteva in lui all’angolo tra la Via Larga e la Mengstrasse. «Mi sono permesso di presentare i miei omaggi alla sua signora mamma e ho sentito dolorosamente la sua mancanza… Ma come sono felice di avere almeno ora il piacere d’incontrarla!» 

La signorina Buddenbrook si era fermata poiché Grünlich aveva incominciato a parlare; ma i suoi occhi, che si erano socchiusi diventando improvvisamente scuri, non lo guardarono più in alto del petto, mentre le labbra si atteggiavano a quel sorriso ironico e spietato, col quale le ragazze misurano e ripudiano un uomo. (…) «Il piacere è tutto suo!» disse tenendo sempre lo sguardo fisso sul petto di Grünlich; e dopo aver scoccato quella freccia (…) avvelenata lo piantò lì, arrovesciò la testa e, rossa d’orgoglio per quella sua eloquenza sarcastica, se ne andò verso casa, dove venne a sapere che il signor Grünlich era stato invitato per la domenica successiva a mangiare l’arrosto di vitello… 

E Grünlich arrivò. Arrivò con una larga giacca da passeggio non modernissima, ma ‘ne, a campana, a piegoni, che gli dava un tono di serietà e di consistenza; arrivò tutto roseo e sorridente, i capelli radi scriminati con cura e i favoriti profumati. E mangiò il ragout di vongole, la julienne, le sogliole fritte, l’arrosto di vitello con patate e panna e cavolfiore, il budino al maraschino e il pan bigio con formaggio Roquefort; e ad ogni portata trovava differenti parole di elogio che sapeva porgere con molto garbo. A un certo punto, per esempio, alzò il cucchiaino, fissò una figura della tappezzeria e disse ad alta voce come fra sé: «Dio mi perdoni, ma non posso fare diversamente; ne ho mangiato un bel pezzo, ma questo budino è riuscito troppo bene; devo assolutamente pregare la gentile padrona di concedermene ancora un pezzetto!». (…) Col console parlò di affari e di politica, rivelando princìpi sani e severi, con la signora parlò di teatro, di riunioni, di vestiti; trovò parole gentili per Tom, per Christian e la povera Klothilde, persino per la piccola Clara e per madamigella Jungmann. Tony stava silenziosa ed egli non fece il tentativo di avvicinarsi a lei: si limitò invece a guardarla di tanto in tanto, reclinando la testa con uno sguardo fra rattristato e incoraggiante. 

Quando prese commiato poteva dire di aver rafforzato l’impressione prodotta nella sua prima visita. «È un uomo perfettamente educato» disse la signora. «Un cristiano rispettabile» disse suo marito. (…) Tony augurò la buona notte, tutta aggrondata perché aveva il vago presentimento che quello non doveva essere il suo ultimo incontro con quel signore, il quale si era conquistato il cuore dei suoi genitori con insolita rapidità. 

(…) Dopo otto giorni si svolse nella sala della colazione questa scena: Tony scese alle nove e fu molto stupita di trovare ancora a colazione suo padre e la mamma. Dopo essersi fatta baciare in fronte, sedette al suo posto fresca, affamata, con gli occhi rossi di sonno, prese lo zucchero, il burro e si servì di formaggio verde. 

«Che bella cosa, babbo, che ti trovo ancora qui!» disse prendendo col tovagliolo l’uovo caldo e aprendolo col cucchiaino. 

«Oggi ho voluto aspettare la nostra dormigliona» disse il console che stava fumando un sigaro e battendo continuamente col giornale arrotolato lievi colpetti sulla tavola. Sua moglie terminò di far colazione con gesti lenti e graziosi e si adagiò poi sul sofà. 

«Thilde sta già lavorando in cucina» continuò il console con intenzione; «e anch’io sarei già al lavoro, se la tua mamma e io non dovessimo parlarti di una faccenda molto seria». 

Tony, con la bocca piena di pane e burro, guardò il padre, guardò la madre, con un misto di curiosità e di spavento. 

«Mangia prima, figliola» disse la moglie del console, e poiché Tony depose ciò nonostante il coltello esclamando: «Fuori, fuori subito, babbo!» il console che non la smetteva di giocare col giornale ripeté: «Mangia, mangia». 

Mentre beveva in silenzio e svogliatamente il caffè, mentre mandava giù l’uovo e il formaggio verde, la giovane incominciò a intuire di che cosa potesse trattarsi. Scomparsa dal suo viso la freschezza mattutina, ella si fece un po’ pallida, rinunciò al miele e dichiarò con voce sommessa che aveva finito. 

«Cara figliola» disse il console dopo un altro momento di silenzio «la questione della quale dobbiamo discorrere con te è contenuta in questa lettera». E, invece di battere col giornale, batté sulla tavola con una grande busta azzurrina. «Breve: il signor Bendix Grünlich, che tutti abbiamo conosciuto come persona brava e gentile, mi scrive che durante il suo soggiorno nella nostra città è stato preso da profonda simpatia per nostra figlia, e ne chiede formalmente la mano. Che cosa ne pensa la nostra brava figliola?». 

Tony stava appoggiata alla spalliera a capo chino e girava e rigirava lentamente con la destra il portatovagliolo d’argento. Ma ad un tratto spalancò gli occhi che si erano fatti scuri scuri ed erano pieni di lacrime. E con voce angosciata balbettò: «Che cosa vuole da me costui?… Che cosa gli ho fatto?…» dopo di che scoppiò in pianto. 

Il console lanciò un’occhiata alla moglie e un po’ imbarazzato guardò la propria tazza vuota. 

«Cara Tony» disse la madre con dolcezza «che giova riscaldarsi così? Tu puoi star sicura, non è vero? Che i tuoi genitori hanno di mira soltanto il tuo bene e non possono consigliarti di rifiutare la posizione che ti viene offerta. Ecco, vedi, io ritengo che tu non provi ancora sentimenti precisi per il signor Grünlich, ma ti assicuro che questo viene, viene col tempo… Le ragazzine come te non sanno mai che cosa vogliono veramente… La testolina è confusa, come anche il cuore… Bisogna lasciar tempo al cuore ed esser pronti ad accogliere i consigli delle persone esperte che si preoccupano della nostra felicità…». 

«Ma io non so nulla di lui» disse Tony desolata ponendosi sugli occhi il tovagliolo di batista macchiato d’uovo. «So soltanto che ha i favoriti giallo-oro e un’azienda in piena attività…». (…) Il console, con un gesto d’improvvisa tenerezza, accostò la sedia e accarezzò la figliola sui capelli sorridendo. 

«Mia piccola Tony» disse «che cosa dovresti sapere di lui? Sei una bimba, vedi, e di lui non ne sapresti di più neanche se, invece di quattro settimane, ne avesse vissute qui cinquantadue… Sei una ragazzina che non ha ancora occhi per il mondo e deve fidarsi degli occhi altrui, di coloro che vogliono il suo bene…». 

«Non capisco… non capisco» singhiozzò Tony sconcertata, premendo la testa come una gattina contro la mano che l’accarezzava… «Quello arriva qua… fa un mondo di complimenti a tutti… riparte… e scrive che mi… Non capisco… Come può?… Che cosa gli ho fatto?». 

Il console sorrise di nuovo: «L’hai già detto una volta, Tony (…). Ma la mia bambina non deve credere che io voglia tormentarla o far pressione… Tutto ciò può essere ponderato con calma, deve essere ponderato con calma, perché è una cosa seria. (…) Adesso il tuo babbo ritorna al lavoro… Addio, Bethsy». 

«Arrivederci, caro Jean… Tony, dovresti pur prendere anche un po’ di miele» soggiunse poi la madre quando rimase sola con la figliola che restò al suo posto immobile e a capo chino. «Bisogna mangiare a sufficienza…». 

Le lacrime di Tony si arrestarono a poco a poco. La testa le ardeva in un turbine di pensieri… (…) E tu, mamma» domandò «anche tu dunque mi consigli di dare il mio… il mio consenso?». Ebbe un istante di esitazione a questa parola che le pareva troppo solenne e imbarazzante (…). Sua madre rispose: «Consigliarti, ‘glia mia? Il babbo ti ha forse consigliata? Non ti ha sconsigliata, ecco tutto. D’altronde sarebbe ingiustificabile per lui e per me se volessimo farlo. Il matrimonio che ti si ore è esattamente, mia cara Tony, quello che si dice un buon partito… Ti trasferiresti ad Amburgo in un’ottima posizione e vivresti da gran signora… (…) Come ti diceva il babbo: hai tutto il tempo di riflettere. (…) Ma dobbiamo pregarti di considerare che una simile occasione di creare la tua felicità non si presenta tutte le settimane e che questo matrimonio è precisamente quello che il dovere e la tua posizione ti prescrivono. Ecco, figliola, anche questo devo dirti. La via che ti si apre oggi è quella prescritta, lo sai bene anche tu…». 

Non c’è forse autore che meglio di Thomas Mann abbia reso l’atrocità e lo scandalo della volontà piegata e annichilita da questa violenza dissimulata: dopo lungo resistere, Tony Buddenbrook annoterà essa stessa orgogliosamente, nel grande libro di famiglia, la data delle nozze con l’aborrito Grünlich. 

6. La conquista del voto fu un fatto molto importante, ma solo un piccolo passo nella direzione dell’eguaglianza. Nel 1928, quando Virginia Woolf venne invitata dalle autorità di Cambridge a tenere due conferenze su «donne e romanzo», le Università britanniche rilasciavano alle loro studentesse non la laurea dei coetanei maschi, ma un «diploma speciale». Non difatti nella Cambridge delle «alte cupole» e delle «corti quadrate», bensì nello scenario periferico delle «scuole femminili» di Newnham e Girton, Woolf fu pregata di parlare. Ne nacque un saggio brillantissimo e sofferto: conformemente al genio dell’autrice, non il testo bell’e pronto delle lectures, ma una storia metaforica del farsi di quel testo. 

Eccomi davanti alla porta della biblioteca. Non appena l’ebbi aperta, come un angelo custode che mi chiudeva il passaggio con uno svolazzare di tuniche nere invece di ali bianche, apparve un signore modesto, argentato, gentilissimo, il quale mentre mi scacciava rimpiangeva a voce bassa la deplorevole circostanza che le signore potessero visitare la biblioteca soltanto se accompagnate da un professore del collegio, oppure munite di una lettera di presentazione. 

Il fatto che una famosissima biblioteca sia stata pubblicamente maledetta da una donna non potrà certo turbare sia pur minimamente il riposo della suddetta famosa biblioteca. Venerabile e tranquilla, con tutti i suoi tesori in salvo e sottochiave nel suo seno, essa dorme compiaciuta: e così, per quel che mi riguarda, continuerà a dormire per sempre. Non sveglierò mai quegli echi, non chiederò mai più la sua ospitalità; così giurai mentre scendevo, furente, la scalinata. 

Se nessuna università e biblioteca fu fondata da donne e riservata alla loro frequentazione – scrive Woolf – è per la prosaica ragione che alle donne «era impossibile guadagnare del denaro»; come se il fatto non bastasse, «la legge rifiutava loro il diritto di possedere il denaro che avessero guadagnato». Se poi tanto poche scrittrici del passato ebbero accesso agli scaffali nobili delle biblioteche è perché alle donne – prosegue l’autrice – fu estremamente difficile, ‘no almeno ai primi del Novecento, disporre di una stanza appartata adatta allo scopo. Anche le donne della matura modernità borghese che quello spazio fisico e psicologico riuscirono a conquistarsi, faticarono a farne davvero una stanza «tutta per sé», sempre sentendosi indosso gli occhi degli scettici e dei critici – quasi sempre scrivendo «questo per compiacerli, quello per contraddirli». L’autore donna fa fronte alla critica, a seconda del suo temperamento, con docilità e con voce sommessa, oppure con eccesso di fervore e di ripicca. In un modo o nell’altro, ciò che importa è che «stava pensando a qualcosa che non era il romanzo stesso»: limite al quale non è del tutto immune neppure Charlotte Brontë. 

Che genio, che integrità bisognava avere (…) in mezzo a quella società puramente patriarcale, per insistere coraggiosamente sulla realtà così come la vedevano gli occhi di una donna! Soltanto Jane Austen ci è riuscita; e anche Emily Brontë. 

Esse scrissero

senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza predicare, pensando al proprio lavoro non come a un esercizio polemico e neppure come a un tentativo di attingere l’arte, ma semplicemente come a un modo di esprimere se stesse. 

7. L’amore in senso erotico è spesso la spia più dolorosa della nostra debolezza, imperfezione, dipendenza. Esso è inoltre sempre stato visto come una fonte di pericolo morale e un fattore di disordine politico a causa della sua parzialità e dei suoi legami con sentimenti di frustrazione, gelosia, rabbia anche violenta. Questo spiega che nel corso dei secoli l’eros sia stato oggetto di una lunga serie di proposte, filosofiche e letterarie, di «riforma», tutte riassumibili nella metafora dell’«ascesa». Nel suo importante libro Upheavals of Thought (L’intelligenza delle emozioni), Martha Nussbaum – che ho già più volte menzionata quale figura di spicco tra quante riconducibili al Law and Literature Movement –, ne ripercorre alcune. L’amante platonico si rivolge solo a quanto nel mondo sensibile e nei singoli individui corrisponde al bello ideale: egli sta «troppo in alto» per avere contezza e comprensione di questioni politiche. In Dante la strada verso Beatrice è la stessa che conduce a Dio: passa attraverso il riconoscimento di «tante e tanto diverse vite umane» e della «dignità dell’agire»; ma anche attraverso il fuoco della rinuncia, della castità. In Proust, l’amore ha da assumere la forma dell’arte narrativa: solo mediante l’impresa letteraria – nel compito autobiografico cui lo scrittore assolve appartato e nella comprensione di se stesso che, simile a un dono, la sua opera indurrà nel lettore – se ne realizza il riscatto. Nella Seconda sinfonia di Mahler, l’amore s’erge ad accogliere l’intera umanità, ad accettarne pienamente le manchevolezze e le pene; ma questo slancio ascensionale muove pur sempre da un «grido di disgusto» nei confronti della nostra condizione quotidiana: non il migliore punto di partenza per fronteggiare i pratici problemi della convivenza. 

Joyce è lo scrittore della «scala capovolta»: il suo Ulisse abbraccia di uno sguardo compassionevole e insieme mette in ridicolo – in particolare attraverso i pensieri e i discorsi di Gertie Mc Dowell – gli eccessi di romanticismo, il misto di memorie religiose e consumismo che alimentano il desiderio di perfetto controllo e di possesso dell’altro. L’aspettativa di riuscire a fonderci con l’oggetto della nostra passione – suggerisce il romanzo – trova sempre una realizzazione imperfetta se non comica; la fantasia di amore puro e immortale si scontra inevitabilmente con la frammentarietà, non univocità, incongruità dell’esperienza, spingendoci per reazione a ritrarci in noi stessi, avviandoci a emozioni e comportamenti asociali. Richiamando alla verità dell’amore come sentimento imprevedibile e come relazione instabile, il romanzo di Joyce ne incoraggia una visione simile a quella aristotelica della philia, ispirata alla reciprocità, al superamento dell’idealismo romanticheggiante e dell’odio per la libertà dell’altro. 

Molta altra buona letteratura ci aiuta a elaborare il sogno narcisistico dell’amore sublime e perfetto, e ancora in questo senso poeti e romanzieri non hanno scritto abbastanza, se sempre intorno a noi constatiamo i rapporti sentimentali inquinati, talvolta con effetti tragici, da prepotenza, intolleranza, senso malinteso dell’onore. 

8. Virginia Woolf non apprezzò il libro di Joyce: alla richiesta di farlo stampare dalla casa editrice che dirigeva assieme al marito, esitò e poi rifiutò trovandolo squilibrato e privo di forma. Il libro uscì lo stesso (torneremo a parlarne) e la sua diffusione nei decenni a venire avrebbe la sua parte contribuito a innescare un nuovo approccio della polis nei confronti della sessualità: per esempio a mettere in causa la considerazione dell’adulterio come reato e la sua punizione più severa quando commesso da una donna. 

Negli anni Sessanta del Novecento una formidabile intellettuale come la francese Simone de Beauvoir (Una donna spezzata, 1967) e un’energica attivista come la statunitense Betty Friedan (La mistica della femminilità, 1963) marcheranno il passaggio dalla prospettiva dell’«emancipazione» a quella della «liberazione» della donna: che significa non porre più solamente il tema della parità dei diritti, ma reclamare un ripensamento complessivo dei rapporti personali e sociali finora frutto di una costruzione essenzialmente maschile. Entrano così in pieno dibattito politico i temi della gestione del proprio corpo da parte delle donne, della disponibilità fisica e psicologica a diventare madri, della depenalizzazione dell’aborto. 

Per stare alle vicende del nostro Paese: le incriminazioni dell’infedeltà coniugale (solo quella della moglie) e della relazione adulterina (in ogni caso, trattandosi della moglie; solo se notoria o intrattenuta in casa, per quanto riguarda il marito), previste dall’art. 559 del codice penale, caddero per effetto delle sentenze 126/1968 e 147/1969 della Corte costituzionale, le quali furono approvate pressoché unanimemente dalla dottrina giuridica del tempo, ma spaccarono letteralmente in due l’opinione pubblica. La figura legale del capo famiglia e il concetto di autorità maritale resistettero a propria volta all’avvento della Costituzione (il cui art. 29 sancisce la parità giuridica tra i coniugi) e vennero definitivamente superati solo dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975. Nello stesso anno, tra fortissime resistenze e polemiche, la legge istituì i consultori familiari e affermò il nuovo principio della liceità delle pratiche contraccettive, anzi della loro meritevolezza in funzione di una procreazione responsabile. Nel 1978, ancora in un clima di rovente scontro ideologico, fu approvata la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, poi confermata da un referendum popolare: essa consente e disciplina il ricorso all’aborto considerandolo non come un mezzo di controllo delle nascite, ma come presidio per la salute psico-fisica della gestante. 

Dal 1981 l’adulterio ha smesso di figurare nel nostro codice penale come circostanza attenuante (così detti delitti d’onore). Sempre poi con qualche ritardo rispetto a esperienze vicine (per esempio quella tedesca) le pene contro la violenza sessuale sono state inasprite, le figure di delitti attinenti alla libertà sessuale meglio articolate e trasferite dalla sede dei reati conto la morale pubblica sotto la qualifica di reati «contro la persona». 

Tutte queste innovazioni, indici di profondi processi di mutamento della mentalità e dei costumi, a propria volta hanno preparato ulteriori riforme del diritto delle persone e della famiglia: sempre meno orientate all’affermazione di paradigmi comportamentali inderogabili, sempre più disposte al riconoscimento dell’autodeterminazione individuale. 

9. Un ventiduenne islandese si congeda dall’anziano padre e dal fratello disabile. Lascia il Paese per raggiungere un monastero remoto, con un rinomato giardino che si è impegnato a riportare ai fasti antichi. Porta con sé il ricordo della madre scomparsa in un incidente stradale, il gruzzolo messo assieme lavorando qualche settimana per mare e tre germogli di una rara specie di rosa. Alle spalle si lascia una neonata e una giovane donna cui lo legano due esperienze incidentali: il non premeditato «quarto di notte» in una serra, l’assistenza imbarazzata al momento del parto. Alcuni occasionali incontri di viaggio lo costringono ai primi balbettii in una lingua straniera, un’inattesa escissione chirurgica preannuncia il nuovo che sboccia: il giardino tornerà a fiorire, un monaco appassionato di cinema gli insegnerà a capire Antonioni e Goddard, il filo retto con saggezza da silenziose mani femminili lo porterà a abbracciare, a mille miglia da casa, le proprie responsabilità di compagno e genitore. Quando la storia volge al termine e il lettore non ancora conquistato si prepara alla forma più idilliaca del lieto fine irrompe l’imprevisto, il controintuitivo, l’incoerente, tangibile espressione di ciò cui diamo il nome di libertà dell’uomo. Proprio come accade nel mondo vero: solo che qui questo cataclisma è accettato con inusitata naturalezza. 

Dietro l’apparenza di un romanzetto dei buoni sentimenti, con la sfrontata gentilezza delle sue figure e la prosa semplice, quasi elementare, Rosa candida di Audur Ava Olafsdottir (tr. it. S. Rosatti, Torino, Einaudi, 2012 [2007]) mette in causa buona parte dell’atteggiamento verso l’eros tuttora radicato nella nostra psiche occidentale. Niente tormenti romantici e relative degenerazioni da fotoromanzo; nessuna altisonante retorica del sacrificio, della famiglia cellula della società e nemmeno dell’eguaglianza tra i sessi. I poco più che adolescenti personaggi di Ólafsdóttir non temono l’irregolarità rispetto ai correnti modelli di virilità e femminilità né sono afflitti dalla logorrea, dal mal delle parole in cui qualcuno ha scorto il grande tema del romanzo moderno. Essi si amano prima di incontrarsi, si aiutano nelle necessità materiali, si lasciano. Si potrebbe far questione di un racconto da crepuscolo degli idoli. I suoi protagonisti comunicano però tutt’altro che l’umor grigio e la stanchezza solitamente associati alla categoria del post-moderno: un senso profondo di rispetto delle persone e di meraviglia per la vita che si rinnova. 


Donato Carusi (Napoli, 1963) insegna Diritto civile, Diritto e letteratura e Diritto di famiglia nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova. Tra i suoi libri Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004; L’ordine naturale delle cose, Torino, 2011; Che farò quando tutto brucia? Una lettura politico-giuridica di António Lobo Antunes, Pisa, 2019; e da ultimo La legge «sul biotestamento»: una pagina di storia italiana, Torino, 2020. – (marzo 2022) –

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