L’ultimo romanzo di Don DeLillo, superficialmente una parabola anti-tecnologica, è in realtà un esempio di letteratura digitale matura. Immersa dalla nascita in un mare comunicativo che ne mette immediatamente a rischio l’integrità, la forma-libro cede il passo a un testo digitale iperconnesso, che sa di essere letto su uno schermo, fa di ogni parola un collegamento e usa la rapidità come arte di sopravvivenza.
In copertina e nel testo: Fone, Saving 1 (2019) – Acrilico su tela – ASTA PAnanti in corso
di Gregorio Magini
Se si cerca di apprezzare Il silenzio di Don DeLillo (Einaudi 2021, traduzione di Federica Aceto) impiegando schemi abituali di ciò che dovrebbe essere o fare un romanzo, non funziona.
Chi cerca il cinematico catastrofico resta deluso, qui la fine del mondo arriva insieme alla fine del suo spettacolo. Le due possibili scene d’azione del romanzo, un atterraggio di emergenza di un aereo di linea e una folla ansiosa pronta ad abbandonarsi alla violenza, sono schivate, la prima con un’ellissi seguita da ricordi frammentari dei sopravvissuti; la seconda con il personaggio spettatore che si allontana, più per disinteresse che per paura — mentre gli altri rimasti a casa ad affrontare la vera emergenza, quella interiore, nemmeno trovano il coraggio o la voglia di affacciarsi alla finestra.
Ma nemmeno sarà accontentato chi cerca il reale, psicologico, sociologico, antropologico, qualcosa-logico – quel “qualcosa” che dovrebbe costituire la base di partenza per un discorso sul mondo e sulla sua fine, lo stesso “qualcosa” di cui i personaggi del romanzo balbettano in vari modi l’assenza. Nella sua semplicità linguistica, la rappresentazione si muove su un piano più vicino alla pantomima tendente al teatro dell’assurdo, che al dramma.
No, per entrare in sintonia con Il silenzio serve disponibilità a non capire.
Vero è che nel frontespizio c’è scritto novel, ma quello che viene dopo lascia perplessi: “Se questo è un romanzo” ci si chiede leggendo “allora non so cos’è un romanzo”. Non è questione di essere pedanti sul numero di pagine (a malapena da novella), ma qualcosa di più sostanziale. È infatti addirittura poco corretto chiamarlo “libro” secondo me, anche se non metto in dubbio che in libreria o in biblioteca lo incontrerò sotto queste spoglie. Di certo non è pensato per intrattenere. Può essere utile, in una certa misura, inquadrarlo come uno spin off del DeLillo precedente, Zero K, che di questo per molti aspetti anticipa i temi («pandemia psicologica») e persino gli eventi («il suo cellulare non funzionava piú. Tutto questo era un tuffo nella preistoria»). Ma la lettura secondo continuità mostra la corda nel momento in cui Il silenzio sembra citare il passato solo per nominarlo un’ultima volta prima di distaccarsene del tutto. E porsi, rispetto al presente, come un esempio, un esemplare, di ciò che può essere una letteratura pienamente digitalizzata.
Claudia Durastanti nella sua recensione ha correttamente notato le venature horror del racconto: quando la realtà è mediata dall’elettronica, la sua improvvisa scomparsa (la trama è tutta qui) getta ognuno in uno spaesamento così violento da essere indistinguibile dalla follia.
Lo spaventoso non è la catastrofe improvvisa (e comunque sempre già prevista: «È tutta la vita che aspetto questo, e non lo sapevo», ma già in Zero K: «La catastrofe è la nostra favola della buonanotte»), né le sue facilmente immaginabili conseguenze («Il film apocalittico. Un gruppo di persone bloccate in una stanza. Solo che noi non siamo bloccati. Possiamo andarcene quando ci pare»), bensì la coscienza di essere fisicamente identici a prima ma di non essere più che dei monconi, dei «frammenti umani». Scoprire che gran parte di ciò che siamo non sta dentro di noi ma nei nostri supporti tecnologici.
I personaggi del tardo DeLillo sono istanze di teorie cognitive, che la narrazione mette alla prova. Il silenzio è un esperimento mentale sulla teoria della “Mente Estesa”, elaborata nel 1998 dai filosofi Andy Clark e David Chalmers. Il loro saggio eponimo (The Extended Mind) inizia così: «Dove finisce la mente? Dove inizia il resto del mondo?». Domanda vecchia almeno quanto la mente, se non quanto il mondo. La novità stava nella loro risposta: quando usiamo gli oggetti per capire meglio il mondo stiamo esternalizzando parte della nostra mente, cioè stiamo spostando parte di ciò in cui crediamo, e quindi di ciò che siamo, dalla nostra memoria a un supporto esterno: un quaderno per esempio – oppure uno smartphone. Se ciò fosse vero, l’eliminazione improvvisa dell’elettronica non avrebbe un effetto troppo diverso dall’escissione di parte della corteccia cerebrale.
-->I personaggi “amputati” sono cinque: Jim e Tessa, lui assicuratore lei poetessa, di ritorno da una vacanza a Parigi; e Max e Diane, lui ispettore edile lei docente di fisica in pensione, in attesa che i loro amici tornino da Parigi per guardare insieme il Super Bowl. Il quinto è un ospite occasionale, il più giovane, Martin, fisico e filosofo, ex studente di Diane, «un uomo perso nello studio», nelle astrazioni, nella complessità infinita e reticolare delle teorie della scienza, soggetto persino a stati di trance, ossessionato dalla figura di Einstein.
Ciascuno di loro reagisce alla fine dell’elettronica seguendo una sua particolare china di spaesamento. Per esempio, Max sostituisce la telecronaca scomparsa del Super Bowl, con una sua parodia, mentre continua a fissare lo schermo nero.
Il tratto comune delle loro reazioni è la loro relativa pacatezza. Non ci sono reazioni violente, tipiche della narrativa apocalittica a cui siamo abituati. Paura del pericolo e dell’ignoto, anarchia, lotta per la sopravvivenza, nulla di tutto questo. Quanto è lontano, in questo senso, Il silenzio, dall’altro romanzo escatologico americano del XXI secolo, La strada (e quanto invece per molti versi i due vadano mano nella mano, nella comune ricerca di una potenzialità di asciuttezza, di riserbo e dignità, non in un altro mondo, ma al fondo di questo, al rock bottom del caos contemporaneo). L’impazzimento è mansueto, e sta tutto nell’inerzia naturale di fronte al cambiamento. Dopo uno shock, per qualche tempo le persone continuano a funzionare col pilota automatico, così come Wile E. Coyote continua a correre oltre il ciglio del burrone. Ma qui il mondo scomparso è quello ubiquo, elettrico delle parole a distanza, dell’incessante dialogo che intratteniamo con le voci fantasma. Quando viene meno all’improvviso, ciò che resta sono mozziconi di monologhi, che erano – e lo percepiamo solo nel momento in cui la controparte virtuale tace – tutto il senso della nostra persona, di questa vita e di questa realtà. Prima di imparare a stare zitti, c’è una fase di parole che risuonano nel vuoto, di persone che parlano al nulla e nel nulla («Stiamo subendo un processo di zombificazione»), in preda al delirio.
C’è però, proprio su questo nucleo narrativo del Silenzio, un aspetto metaromanzesco, inaspettato in una narrazione che cerca per altri versi la liscezza assoluta, un latteo piano di immanenza narrativo. Il silenzio in qualche modo sa che verrà letto su un device, sa che non è fatto d’inchiostro su carta, ma di parole a schermo, e nella più solida tradizione dell’horror che vuole tracimare fuori dalle proprie pagine (La metà oscura, Casa di foglie), Il silenzio intende uscire dallo schermo mostrando minacciosamente la follia nascosta nella voce interiore che lo legge, che diventerebbe evidente qualora lo schermo smettesse di collaborare, di rispecchiare l’anima del lettore e si spegnesse. Il medium rispecchia; il medium è lo specchio:
«Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti, – diceva Martin. – La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione?»
Al di là dell’efficacia, il procedimento metafinzionale è un segnale della consapevolezza con cui DeLillo depone questo romanzo nel suo contesto. Quello che un tempo si sarebbe chiamato “paratesto”: l’insieme dei segnali e delle comunicazioni che, pur non facendo parte del testo in senso stretto, sono elementi che contribuiscono alla sua comprensione, interpretazione, collocazione: titolo, copertina, colophon, marketing e così via.
Mi sono spesso chiesto quale sia la trasformazione operata dalla digitalità alla letteratura, al di là delle istanze più superficiali e non necessariamente connaturate al cambio di medium, come la brevità, la frammentarietà — entrambe caratteristiche comunque accolte e fatte proprie dall’ultimo DeLillo (— per tacere dell’interattività, miraggio sempre rinnovato della narrativa digitale, eccellente esempio di come non si debba pensare l’innovazione nelle arti).
E mi pare che la più profonda sia proprio la trasformazione della natura del paratesto. I testi della letteratura digitale sono immersi dalla nascita in un mare comunicativo che ne mette immediatamente a rischio l’integrità, come i pesci che divorano il Pinocchio trasformato in ciuchino. La forma-libro non è più in grado di garantire l’integrità dell’opera digitale, perché nel nuovo medium è una forma posticcia.
L’apparato che contestualizza l’opera è indistinguibile dall’intero ecosistema culturale, dalla produzione, così abbondante da non poter essere nemmeno intuita, di commentari da parte di umani e metadati da parte dei programmi. Ogni prodotto culturale viene fatto a pezzi in pochi giorni dopo la prima esposizione, e tutta la potenza della grande industria dell’intrattenimento non può dilazionare che di qualche settimana la completa digestione dell’opera. Non è tanto che l’arte non ha più effetto, è che l’effetto delle singole opere non è discernibile dal momento in cui i loro significati emergono solo come molecole di senso già disarticolate dalla loro origine e riprodotte e sparse in ogni dove, a seconda dei gusti e delle esigenze.
Questo è il senso profondo della “rapidità” digitale: la brevità del periodo di attenzione non è che un adattamento alla rapidità di metabolizzazione dei contenuti, che non è individuale, ma è un effetto di rete. Essere rapidi serve per sfuggire alla cattura immediata, per riuscire almeno a finire una frase prima di essere inghiottiti e disciolti nella semiosfera.
Ecco, questa solvibilità immediata può anche essere letta come una ipertrofia del paratesto: la letteratura digitale non è fatta di libri che parlano di altri libri, come ancora accadeva negli auld lang syne postmoderni, ordinatamente separati da copertine rilegate, ma è un unico magmatico testo composto di un’infinità di frammenti in costante trasformazione. («Voglio citare, e poi mi taccio, una frase a caso da Finnegans Wake, libro che sto leggendo a sprazzi, qua e là, da un tempo che definirei immemore. Questa frase è rimasta al sicuro nell’apposita sacca della mente dove si conservano le parole. Prima che il sockson luccasse le dure.»). L’impatto di un’opera importante, un tempo sarebbe stato paragonabile a quello dell’apparizione di una nuova specie vivente; oggi lo stesso tipo di evento è meglio raffigurato come schianto di un asteroide o una cometa, o meglio di ciò che ne rimane dopo che l’attrito ha fatto il suo lavoro.
Si è parlato molto, qualche anno fa, in ambito di design, di interfacce scheumorfiche. Uno “scheumorfismo”, nell’evoluzione di un oggetto tecnologico, avviene quando un elemento funzionale è reso obsoleto da una innovazione ma se ne mantengono alcuni aspetti per venire incontro alle esigenze di familiarità degli utenti: la sopravvivenza meramente estetica di aspetti delle versioni precedenti dell’oggetto fa sì che le novità vengano accolte più volentieri. Così per esempio, gli appunti sullo schermo del computer hanno ancora oggi talvolta l’aspetto grafico di un post-it di carta.
Venti anni fa, in How We Became Posthuman, Katherine Hayles importò dall’archeologia antropologica il concetto di scheumorfismo per applicarlo alla struttura delle innovazioni culturali: nuove teorie, nuove visioni del mondo, incorporano parti delle concezioni precedenti e ormai sorpassate come cavalli di Troia rassicuranti che occultano la loro novità, rendendola meno disturbante e più accettabile.
Così, uno scheumorfo può essere un oggetto materiale come una costruzione culturale, e anzi a ben vedere non c’è una distinzione assoluta tra oggetto e costrutto: gli oggetti culturalmente più significativi diventano il simbolo del mondo culturale che rendono materialmente possibile, annullando così la separazione. Simili oggetti definiscono le civiltà.
Cosa succede dunque al trapasso di civiltà. Gli oggetti che la incarnano diventano scheumorfi, permangono per inerzia svuotati della loro necessità ormai tramontata.
Il libro è oggi uno di questi grandi oggetti zombi. Il primo passaggio fu l’invenzione dell’ebook, questa sottospecie di libro artificiale che riesce a tenere insieme l’integrità dell’opera solo affidandosi agli steccati artificiali del diritto d’autore e dei DRM, i “lucchetti” virtuali messi a guardia di una letterarietà ormai senza più altra difesa che il potere di censurare le imitazioni.
E per tornare al Silenzio, cosa altro sono i personaggi che continuano a blaterare insensatezze se non scheumorfi di un’umanità in via di sparizione.
E il romanzo stesso, questo romanzo dico, cos’è se non qualcosa che continua ad apparire come libro solo per venire incontro ai limiti cognitivi dei lettori.
…Il silenzio sa che deve difendersi e sopravvivere in un mondo che non è più favorevole all’opera. Umberto Eco nel 1963 coniò il concetto di “opera aperta” per descrivere la novità di allora: l’arte che si affida alla collaborazione del fruitore per funzionare: ecco Il silenzio, come letteratura digitale, è un’opera dilaniata, dove ogni parola è un rimando a sconfinate banche dati, all’insieme di tutto ciò che è stato scritto. È da questa vastità che deriva l’inaspettata capacità di una narrazione così scarna di evocare ombre di interi generi e universi narrativi in due parole, per lasciarli poi subito dopo scomparire nel nulla.
Il personaggio di Martin, che dopo lo “spegnimento” vive una specie di fusione sciamanica con lo spirito di Albert Einstein, è incaricato di mostrare questa inadeguatezza ai tempi anche sotto un altro aspetto. Martin è un insegnante, la crisi che vive è quella di un sapere che non è più connesso ai suoi supporti. Martin non sa più nulla, se non i nomi dei concetti che riferiva ai suoi studenti perché andassero poi a controllare, a verificare, a imparare su internet:
Taumatologia, ontologia, escatologia, epistemologia. Non riusciva a fermarsi. Metafisica, fenomenologia, trascendentalismo. S’interruppe per pensare a qualcosa, poi riprese. Teleologia, eziologia, ontogenesi, filogenetica.
Il romanzo non ha più bisogno di farsi saggio, come era stato in Cosmopolis o nella prima parte (piuttosto noiosa) di Zero K, perché sa che basta nominare le questioni perché i suoi lettori colgano l’occasione per andare a controllare. «Guerre di droni», «violazioni di dati», «criptovalute» bastano come rimandi a universi di discorso a cui è sufficiente un accenno. Un po’ come i brand negli anni novanta ma a differenza di allora, non si cerca più un linguaggio comune, un minimo denominatore pop, con il lettore, si dà per scontato che il lettore sia esperto di tutto, e quello che non sa già (cioè statisticamente quasi nulla), andrà a cercarselo quando incontra una nuova parola chiave. Nel testo digitale maturo, ci sono solo link. Il sapere di Martin è completamente ricondotto a una lista di parole chiave. Il fatto che si tratti di ipotesi sulla causa della fine del mondo, tutte iper-tecnologiche, tutte incomprensibili perché troppo complesse perché la mente umana media le possa afferrare, tutte in fin dei conti ormai rese paradossalmente superate e obsolete dalla innovazione del ritorno a un mondo primitivo, dà la misura di quanto in fondo l’apocalisse di DeLillo sia da intendersi come una forma di remoto, diafano umorismo.
Resta in primo piano il senso più recondito: la letteratura digitale è così esposta al suo ambiente da dover abbandonare persino l’appartenenza ai propri contenuti, ai propri temi.
Ha visto bene Durastanti lo spirito di sacrificio autoriale che sta alla base di Il silenzio. DeLillo butta a mare tutto ciò che non è strettamente necessario alla sopravvivenza del messaggio. E non gli importa, o almeno non si ferma a commemorare, se ciò che deve buttare è il senso del lavoro di una vita. Più urgente è far sopravvivere il nocciolo della possibilità della letteratura. Non esiste più un libro, esiste un testo scagliato ad autodistruggersi nell’atmosfera rovente del mondo iperconnesso.
E DeLillo sfruttando il proprio status ereditato da un’altra epoca, avvolge il testo con tutti i parafernali scheumorfici che ne garantiscono la difesa e poi la riuscita dell’impatto: un “romanzo”, anzi il “nuovo romanzo di”, anzi “il nuovo involontariamente profetico finito appena prima del Covid romanzo di”. E non importa se sono solo sessanta pagine, non importa se l’oggetto-libro sarà venduto sovraprezzo in una libreria solo a chi di letteratura ormai non ci capisce più nulla, non importa se dovrà sopportare l’escoriazione di milioni di critici e utenti Goodreads delusi dalla narrazione, dalla banalità dei risultati, Il silenzio è come una capsula al rientro nell’atmosfera che brucia tutti gli strati protettivi per salvare il nucleo, il carico veramente prezioso rispetto al quale tutto il resto è sacrificabile.
Durastanti scrive «DeLillo non si presenta come un umanista moralizzatore, il suo talento immenso lo ha sempre salvato dall’`insegnamento‘». Della sua lettura questo è l’aspetto che mi trova in disaccordo. Ho detto all’inizio che Il silenzio, vuole essere esemplare. Dirò di più, è didattico, è un involucro, un marchingegno per poter dire una singola cosa, una frase, quella che è poi la frase semifinale del libro, «Il mondo è tutto, l’individuo niente». Tutta la baracca, il nome dell’autore, il best-seller, il grosso carapace del prestigio e della fama insomma, tutto al servizio di quelle poche stupide parole. Le pagine che precedono, a partire dall’epigrafe da Einstein, così banale («Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni») che sembra quasi un self-defacement, sono una rapida esfoliazione delle pretese e delle aspettative: nulla si deve potere o voler più dire perché quelle parole possano essere ascoltate liberamente.
Una performance testuale, una coreografia propiziatoria, bianca su fondo nero.
Il carattere stranamente consolatorio della narrazione deriva dal fatto che tenta senza paura del ridicolo e senza risparmiare niente del vasto capitale su cui poggia, qualcosa di semplicemente, genericamente nuovo: il romanzo può fare a meno del libro. Per questo può fregiarsi, senza vergogna o meglio nonostante la vergogna, della dicitura novel – novità – sul frontespizio.
Gregorio Magini (1980) vive a Firenze. Ha pubblicato i romanzi In territorio nemico (Scrittura Industriale Collettiva, minimum fax, 2013) e Cometa (Neo edizioni, 2018)
Psymposia: Twitter, Instagram, YouTube
Un bellissimo saggio/recensione , mi ha aiutato molto nella comprensione del testo e jn questo ha reificato ciò che sostiene. Giuliano