Sin dall’antichità troviamo testimonianze di come le donne vengano educate al silenzio, ma perché? I motivi sono da ricercare in consolidate dinamiche di potere.
in copertina, silenzio, di odilon redon
Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge.
Corinzi 14,34
Non c’è vero silenzio se non condiviso
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Tra i meriti del pensiero femminista, vi è quello di aver aperto una discussione intorno al rapporto tra genere e linguaggio. Molte studiose hanno sottolineato come le donne abbiano imparato a parlare e a pensarsi attraverso la lingua degli uomini. In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf ricorda che «da secoli le donne hanno avuto la funzioni di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali». Le parole servono da superficie che riflette e amplifica le qualità maschili mentre quelle femminili vengono condannate al silenzio. Non potrebbe essere diversamente, perché come scrive Adriana Cavarero «la donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo».
I luoghi comuni rappresentano un’ottima cartina di tornasole per osservare il discorso maschile nei confronti delle donne guardandoli da vicino si rintraccia con facilità l’equivalenza tra donne e silenzio. Nel suo volume Singolare femminile, Nicoletta Polla–Mattiot rileva come nei proverbi e nei modi di dire si associno al femminile attributi negativi quali l’incostanza, la mutevolezza, l’incertezza: «femmina, cosa mobil per natura, avverte Torquato Tasso; volubil sempre come foglia al vento, assicura Boccaccio; chi crede a una donna, costui crede a chi inganna, avverte Esiodo».
La vulnerabilità, l’incostanza, l’emotività rendono le donne soggetti deboli, incapaci di controllare il potere del Logos e per questo sono invitate a fare silenzio. I trattati di fisiologia e medicina, dall’800 in avanti, si pongono alla ricerca di un fondamento biologico atto non tanto a comprovarne la subalternità, già affermata dai pensatori come Aristotele, ma a decretarne l’inferiorità mentale in modo da poter giustificare la necessità di zittirle. Ne sono un esempio i volumi pseudoscientifici di Max Nordau o Cesare Lombroso, nei quali si evince come le donne siano tipi indifferenziati, senza pretese e ambizioni, limitate alle sensazioni corporee, sleali e invidiose.
-->«Se la natura delle donne è blaterare a vanvera – sostiene Polla–Mattiot – cultura ed educazione impongono la virtù per eccellenza, capace di forgiare ogni fanciulla onesta: che non parli né dia da parlare di sé». In ambito educativo, la questione del silenzio come attributo essenziale delle giovani appare in tutta la sua evidenza. Nel libro quinto de L’Emilio, Rousseau si sofferma sull’educazione femminile che deve essere improntata a difenderne il pudore, di modo che possa ricoprire con dignità l’unico ruolo che le spetta: essere una buona moglie, capace di farsi carico dei desideri maschili, e una buona madre per la prole che verrà.
Sono passati secoli da quest’opera eppure le bambine continuano a essere educate nel solco di questa tradizione pedagogica che le invita più o meno apertamente a stare zitte, a farsi da parte. L’esperimento compiuto nel 2017 dal gruppo di ricerca di Lin Bian Sarah–Jane Leslie e Andrei Cimpian dimostra come le bambine, a partire dai sette anni, inizino a percepire la propria categoria come meno competente, preferendo rinunciare alle occasioni in cui è necessario dimostrare il proprio valore. Invitate dai ricercatori ad attribuire un genere al brillante personaggio senza nome di una storia che avevano appena finito di leggere, smettono di identificarsi col protagonista: se è così “smart” non può che essere un maschio. In un altro esperimento condotto dallo stesso gruppo di ricerca, se esportate a partecipare a una gara in cui sono richieste una buona dose di coraggio e spirito d’intraprendenza, le bambine preferiscono rinunciare fin da subito, rimanendo in silenzio e cedendo il proprio posto a un coetaneo.
Sia che si ripercorra la storia antica o quella recente si nota, citando ancora Polla–Mattiot, quanto «tacere sia un destino storico e di genere». Come spesso accade, le origini della sorte che sembra caratterizzare ogni donna sono già ravvisabili nella mitologia antica, in particolare nel mito di Tacita Muta. La vicenda della Naiade ci aiuta a delineare un aspetto essenziale del nostro discorso: per una donna, il silenzio è una dote non opzionale e viene imposto in modo violento.
Il mito racconta di Lara o Lalla, ninfa dell’acqua così desiderosa di pronunciare parole che anche il suo nome è frutto di una ripetizione di sillabe. Lara è per natura loquace e poco propensa a mantenere i segreti così, quando viene a conoscenza dell’innamoramento di Giove per la sorella Giuturna, non riesce a trattenersi e corre da Giunone a raccontarle tutto. La furia di Giove si abbatte su di lei, colpevole di aver svelato le sue intenzioni alla consorte, e per questo la punisce strappandole la lingua e affidandola a Mercurio perché la trasporti negli inferi. L’azione del dio dell’Olimpo è simbolicamente potente. Come sottolinea Polla–Mattiot, «egli è pronto a punirla per ribadire la subalternità di chi possiede. In fondo, conquista ciò che è già suo, per questo può mutilare il corpo di Lara della parte impertinente e blasfema». Nel tragitto che la porta all’inferno, Mercurio – consapevole della condizione della naiade – ne approfitta e la violenta. Il tentativo di Lara di sottrarsi, di gridare e implorare pietà resta vano: diventata Tacita, dea del silenzio, partorirà i Lari, che nel culto romano identificheranno i numi che delimitano e proteggono il perimetro domestico, quello in cui le donne dovranno stare per la loro sicurezza. La privazione della voce che caratterizza la storia di Tacita Muta non pertiene soltanto la dimensione comunicativa. Osserva ancora Polla Mattiot: «c’è un’assenza che precede la facoltà di parola e riguarda l’insonorizzazione culturale delle istanze identitarie, che condanna all’insignificanza il particolare e il personale». Se nella voce umana riecheggia l’unicità, le donne subiscono una «negazione ontologica», una forma di disumanizzazione che le annulla in quanto soggetti. In un certo senso, è qui che si ravvisa la rigida suddivisione tra razionale e emotivo: «l’ordine simbolico patriarcale – sottolinea Cavarero – che identifica il maschile con il razionale e il femminile con il corporeo, è lo stesso che privilegia il semantico rispetto al vocalico».
Il silenzio imposto alle donne si intreccia all’attesa: Penelope è la figura che incarna entrambi i doveri femminili. Mentre l’eroe viaggia e ritorna alla sua isola carico di anni di esperienze e conoscenze, arricchito di nuove parole attraverso le quali raccontare le tante avventure vissute, la moglie resta ferma e lo aspetta, fedele, immobile e silenziosa. Come ricorda ancora Polla–Mattiot, quando imposto, il silenzio costringe le donne a restare ai confini del Logos, le trattiene ad aspettare. Secondo Roland Barthes, far attendere è la prerogativa di qualsiasi potere ed è per questo che, insieme al silenzio, la vocazione a rimanere ferme traccia una sorta di confine ontologico tra l’esistenza degli uomini e delle donne.
La facoltà di parola e il potere di relegare al silenzio, appannaggio degli uomini, compaiono in modo evidente ne La mite, un racconto di Dostoevskij. La storia narra del suicidio di una giovane donna raccontato esclusivamente dalla prospettiva del marito. «Immaginate un uomo – scrive lo stesso autore nella nota che precede il testo – la cui moglie, suicidatasi un paio d’ore prima gettandosi dalla finestra, sia stesa davanti a lui su in tavolo. È sconvolto (…) e va da una stanza all’altra cercando di “concentrare i suoi pensieri in un punto”. Ed eccolo che parla con se stesso, si racconta l’accaduto, cerca di chiarirlo a se stesso. (…) Si discolpa, accusa la moglie, si dilunga in spiegazioni estranee alla vicenda (…)». Il linguaggio, quando è deformato dai rapporti di potere si rivela per quello che è: un monologo. Il parlante più debole ne resta escluso e, come sostiene Polla-Mattiot, finisce «per essere assorbito da una spirale disfunzionale in cui le posizioni di forza e subordinazione svuotano la parola, riducendola a simulacro muto».
Nella nota, Dostoevskij giustifica l’uso dell’aggettivo “fantastico” che compare nel sottotitolo attribuendolo alla tipologia narrazione che lo colloca al di là del romanzo o del memoir. Tuttavia, egli sottolinea come il racconto sia «in sommo grado reale». A ben guardare la storia narrata dalla prospettiva di chi resta non appare così diversa dal modo in cui si narrano i femminicidi. Il potere del logos che si manifesta nei titoli di molti quotidiani mette in risalto il punto di vista dell’assassino, i suoi sentimenti, i momenti difficili che stava attraversando, mentre la vittima scompare tra le righe per riemergere solo attraverso qualche particolare che ne evidenzia la condotta eticamente corrotta e in qualche modo colpevole.
Invertire la rotta appare difficile, abbattere un sistema che si mantiene intatto da secoli non è un’operazione immediata. Un suggerimento per orientare la nostra azione, però, lo riceviamo da Daniela Brogi che ci suggerisce di cominciare dalla (ri)conquista dello spazio. Ne Lo spazio delle donne la studiosa ci ricorda che esistiamo nei nostri corpi, nelle parole e nelle azioni nella misura in cui occupiamo un certo spazio. Esso si configura pertanto come «campo di espressione e verifica delle identità». Se è vero, come abbiamo cercato di sostenere fino a qui, che le donne non hanno avuto alcun controllo sulle parole, è altrettanto vero che non lo hanno avuto degli spazi, relegate in “luoghi altri” come stanze private e ambienti domestici che non concedevano loro alcun riconoscimento sociale, politico o identitario ma garantivano solo il controllo sulle loro vite.
Per questa ragione, Brogi propone di assumere una nuova prospettiva in grado di guardare simultaneamente «sia allo spazio che le donne non hanno avuto sia a quello che hanno avuto, ma è stato reso invisibile, irrilevante, dimenticabile o persino caricaturale». Fare spazio è anzitutto un’operazione simbolica e per questo necessita di un ragionamento complesso che si struttura in svariati passaggi, non da ultimo «trovare altre parole e differenti sguardi». Nuove parole e prospettive differenti dilatano lo spazio, mettendoci nella condizione di considerare quello che l’autrice definisce il “fuori campo attivo”, ovvero «una zona liberata dalle abitudini sessiste riprodotte con naturalezza». Dilatato, il linguaggio si espande e si trasforma anche un luogo di lotta capace di accogliere le istanze di chi è oppresso e non solo la voce degli oppressori.
Se è vero, citando Audre Lorde, che “gli strumenti del padrone non ne smantelleranno mai la casa», abbiamo bisogno di parole nuove per compiere un ultimo passaggio: trasformare il linguaggio da luogo di silenzio e oppressione a occasione di dialogo, liberante per tutte le soggettività.
Bellissimo articolo, molto interessante la riflessione circa il prendere spazio tramite parole nuove che non siano collegate ad un retaggio patriarcale. Operazione complessa, sicuramente di non facile attuazione viste le dinamiche che, almeno personalmente, ritengo di mettere in atto ogni volta che provo a farlo. Non semplice nemmeno riconoscere, non ci avevo mai riflettuto, sul fatto che la sensazione di “non avere le parole per descriveresi” da parte di persone assegnate femmine alla nascita, sia da ricondurre ad una quotidianità che l vede comunque narrate da occhio maschile e patriarcale. Grazie mille