Il tempo degli alberi

«All’inizio era una questione di cosa avevo addosso. Volevo diventare un albero perché gli alberi non portano il reggiseno. Poi era stato qualcosa che aveva a che fare con la violenza.».


IN COPERTINA: Attr. a Giovanni Pozzoli : Paliotto – Asta Pananti in corso

Questo testo è tratto da Come sono diventata albero, di Sumana Roy. Ringraziamo Aboca per la gentile concessione.


di Sumana Roy

All’inizio era una questione di cosa avevo addosso. Volevo diventare un albero perché gli alberi non portano il reggiseno. Poi era stato qualcosa che aveva a che fare con la violenza. Mi affascinava il modo in cui gli alberi prosperano in penombra, in luoghi solitari, mentre il buio decideva per me le ore del coprifuoco. Mi piaceva il fatto che si nutrissero di cose ancora disponibili e gratuite – acqua, aria e luce del sole – e che non avessero mutui da pagare nonostante occupassero un terreno per tutta la vita. 

Le mie vaghe fantasie sugli alberi cominciarono a prendere forma quando entrai nella mezza età e presi a soppesare i benefici della vita da freelance rispetto a quella del professionista, con tutti i vantaggi dello stipendio. Un’epifania mi aveva avvolto come un viticcio: gli alberi erano freelance o salariati? L’albero era un lavoratore a giornata, i suoi orari legati al ciclo della luce. Le vacanze, le ferie, i fine settimana, la pensione, i prestiti erano tutte novità degli ultimi decenni, consolazioni offerte ai dipendenti come me. 

Così, quando ripenso ai motivi del mio distacco dalla normale vita di noi umani e al mio desiderio di diventare un albero, vedo che all’origine c’era la sensazione opprimente che il tempo fosse un bulldozer che mi schiacciava. Quando ho smesso di portare l’orologio al polso e ho tolto quelli alle pareti, ho capito che tutte le mie carenze – che mi sono resa conto di condividere con molti altri – derivavano dal fatto di non essere una docile schiava del tempo. Ho cominciato a invidiare l’albero, la sua disobbedienza alla frenesia degli esseri umani. Intorno a me c’erano grandi imprese edili che spedivano truppe di operai a costruire grattacieli in un baleno. Per loro, gli alberi che piantavano nelle gated communities erano una seccatura visto che crescevano seguendo il loro ritmo naturale. 

Perché è impossibile mettere fretta alle piante, dire a un albero di ‘sbrigarsi’. Con invidia, rispetto e una certa ambizione, ho iniziato a chiamare quel ritmo ‘Tempo degli alberi’. (Non era proprio questo che Dalì voleva evocare con i suoi orologi che si scioglievano sugli alberi?) 

Ero stanca della velocità. Questa sensazione era particolarmente dolorosa quando mi veniva affidata la sorveglianza degli studenti durante gli esami e guardavo la loro espressione esausta, gli sforzi per condensare un anno di studio in poche ore, il sapere acquisito in vari momenti della giornata e in luoghi diversi ridotto a qualche ora di scrittura frettolosa. Era così che si superavano gli esami, si ottenevano lauree e lavori, si misurava il successo. Un albero non resta sveglio tutta la notte per passare un esame la mattina dopo. La vita vegetale, con tutti i suoi fiori e frutti stagionali, non può fare una cosa del genere e non si può rallentare il ritmo di uno sbadiglio, come non si può armeggiare con il tempo degli alberi. 

Cominciai ad abbandonare i giornali, la televisione e ogni fonte di notizie, quelle capsule di tempo condensato e amplificato che avevano ormai ridotto la nostra vita a pallottole di attenzione. Le piante non facevano notizia perché non potevano provocare colpi di stato o dichiarare guerre e non consumavano notizie perché il loro mondo rimaneva insensibile ai cambiamenti di governo e ai risultati delle partite di cricket. A parte il tempo – non le previsioni, intendiamoci, quello spettacolo televisivo che ormai rasenta la comicità – il mondo delle piante era indifferente a ogni avvenimento, naturale o causato dall’uomo, al di fuori del proprio raggio d’azione. La giornata di lavoro mi anestetizzava, tanto che non riuscivo più a interagire con gli altri esseri umani, il loro ordine e i loro ordini. Il sottofondo di parole, l’incessante trasmissione di avvenimenti sempre e solo umani, sulla terra, nell’aria, sott’acqua, avevano generato in me una claustrofobia difficile da spiegare: sono figlia di un uomo drogato di notizie, che guarda lo stesso telegiornale sul canale di stato Doordarshan in bangla, hindi e poi in urdu. Mi sono ritrovata in un mondo in cui essere depositari di notizie – dai telegrammi in poi – ti trasformava in una specie di attivista, e naturalmente tutte le notizie che contavano erano quasi sempre cattive. Quel tipo di energia nervosa che aveva trasformato il mondo in un film sull’apocalisse permeava le redazioni dei giornali: eravamo tutti condannati, tutti lanciati verso una fine terrificante, tutti parte della notizia. 

I giornali erano la nuova bibbia e gli annunciatori televisivi i nuovi sacerdoti. Il ritmo innaturale delle notizie, che si rincorrevano freneticamente, mi faceva mancare il respiro. Volevo andarmene, uscire da quella frenesia come si cambia quartiere. E così era nata la mia attrazione per l’albero e la sua completa indifferenza a quell’ipnosi collettiva. 

Una volta, ne ero certa, uomini e alberi si muovevano allo stesso ritmo, vivevano seguendo lo stesso tempo. Per comprendere questo concetto, che naturalmente esisteva solo nella mia immaginazione, avevo cominciato a piantare degli alberelli per commemorare nascite e inizi. Quando cinque anni fa è nato mio nipote, per esempio, ho piantato un albero di neem (Azadirachta indica), in cortile. Ora il bambino è alto quasi un metro e il neem ha superato mio marito che è alto un metro e ottanta. Prima ancora c’era l’albero che ha gli stessi anni del mio matrimonio. Non l’avevo piantato io ma il Comune, per un progetto di rinverdimento della città. È stata solo una felice coincidenza, quindi, che l’albero di gulmohar (Delonix regia var. flavida) con i suoi fiori gialli sia stato piantato pochi giorni prima del mio matrimonio, e in più, proprio di fronte alla stanza in cui sarebbe iniziata la mia vita coniugale. 

Ora è più alto della nostra casa di tre piani, e mi permette di immaginare una versione alternativa del mio matrimonio, la vita che avrei potuto vivere se mi fossi concessa di seguire il tempo degli alberi. 

Alleata della nozione umana di tempo è un’opprimente discriminazione basata sull’età. La gente mi dice a spesso che non dimostro la mia età – mi astengo dall’usare il termine ‘complimento’ perché non posso pensare che avere un ‘aspetto giovanile’ sia una forma di elogio. Trovo quelle parole offensive e discriminatorie: la distinzione tra le varie fasi della vita – mezza età, vecchiaia, la vasta gamma di definizioni usate per presentare o criticare – non era forse adeguata? Una mattina, dopo aver sentito quella frase per l’ennesima volta, non ho potuto fare a meno di chiedermi come avrebbe potuto reagire un albero. Se fossi stato un albero di quarant’anni, non sarebbe stato offensivo essere considerato un ventenne in base al mio aspetto? L’età era importante per gli alberi, ne ero certa. Le rughe sul viso e sul collo, l’accumulo di pieghe intorno ai fianchi e alle cosce erano diventati imbarazzanti per gli esseri umani. L’età vegetale si trova in linee simili, in cerchi di anni vissuti, nel girovita del tempo che dona agli alberi invecchiati una sorta di sobria dignità. Guardando gli alberi si capisce che il tempo è una creatura obesa e che la sua storia, che si rifletta nelle linee o nelle pieghe, nella corteccia allentata o nella pelle, nei nuovi colori o nella pigmentazione, è una cosa meravigliosa. La vita nell’era industriale, vissuta con l’idea bizzarra di essere simili a macchine, ci ha convinto che invecchiare sia qualcosa di brutto – proprio come le macchine che si riempiono di ruggine, vanno in panne e imbruttiscono prima di cadere a pezzi. 

Ma come si può vivere secondo il tempo degli alberi in un mondo fatto di scadenze? 

Così avevo iniziato a smantellare l’architettura delle unità di tempo nella mia testa. Non è stato uno sforzo del tutto consapevole, ma il modo stesso di tenere traccia del tempo comincia a sembrare sciocco quando si pone a un albero la domanda che segna l’inizio di tanti moduli e conversazioni: “Quand’è il tuo compleanno?”. Avevo tolto le informazioni sul mio compleanno da Facebook, per esempio. Mi sentivo in imbarazzo quando la gente mi chiedeva la mia data di nascita. Non riuscivo nemmeno a capire perché la nostra cultura, sia la società che la burocrazia, desse così tanta importanza alla data del nostro arrivo nel mondo. Non conoscevo nessuno che festeggiasse i compleanni degli alberi. E poi faticavo a immaginare gli alberi che celebravano gli anniversari di morte. Quelli di matrimonio poi sarebbero stati una beffa, dato il numero di ‘matrimoni’ che un albero vive nel corso della sua esistenza. Cos’era esattamente il ‘tempo degli alberi’ allora? Ho vagato a lungo tra varie discussioni filosofiche sul tempo, finché una notte, nel mio sonno agitato, ho avuto un’epifania: “carpe diem”, cogliere l’attimo, vivere nel presente – questo era il tempo degli alberi, una vita senza preoccupazioni per il futuro o rimpianti per il passato. E ho iniziato a scrivere seguendo il tempo degli alberi, registrando i pensieri man mano che arrivavano, gli eventi man mano che si verificavano, e combattendo l’insonnia e la sua poesia poco originale come farebbe un buon albero. 


Sumana Roy è una scrittrice e poetessa indiana. Tra le sue opere ricordiamo Come sono diventata albero (2017), Missing (2019), Out of Syllabus (2019). Il suo primo libro, Come sono diventata un albero, è stato inserito nella shortlist del Premio Shakti Bhatt 2017.

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