In Filosofia del buddhismo zen, Byung-Chul Han intende mostrare, attraverso il confronto con la tradizione filosofica occidentale, le peculiarità e soprattutto il potenziale filosofico del buddhismo zen.
In copertina: Grande paravento Giapponese, Giappone XIX sec – Asta Pananti del 14/03/2018
(Questo testo è tratto da “Filosofia del buddhismo zen” di Byung Chul Han. Ringraziamo Nottetempo per la gentile concessione)
di Byung Chul Han
Scende la sera sul mare,
il grido delle anatre pare
scintillare biancastro.
Basho
Quello di sostanza (lat. substantia, gr. hypostasis, hypokeimenon, ousia) è di certo il concetto fondamentale del pensiero occidentale. In Aristotele designa ciò che è stabile in ogni cambiamento. La sostanza è costitutiva dell’unità e dell’identità dell’ente. Il verbo latino substare (letteralmente: stare sotto), da cui deriva substantia, significa anche “resistere”, “sostenere”. Stare viene inoltre usato nel senso di “ritenersi, affermarsi, tenere testa”. Nella sostanza è dunque insita l’attività del persistere e insistere. Essa è il medesimo, l’identico, che insistendo in se stesso si delimita rispetto ad altro e con ciò si afferma. Oltre a “fondamento” o “essenza”, hypostasis significa anche “resistenza” e “fermezza”.
La sostanza sta, per cosí dire, fermamente in se stessa: in essa è inscritta la tensione verso se stessa, l’aspirazione a possedersi. Ousia, nell’uso corrente, vuol dire “patrimonio, possesso, proprietà, tenuta” o “proprietà fondiaria”. La parola greca stasis, poi, non significa solo “stare”, ma anche “rivolta, insurrezione, conflitto, discordia, contesa, inimicizia” e “partito”.
-->Questo atrio linguistico del concetto di sostanza, di certo non pacifico o amichevole, lo prefigura in modo congeniale. La sostanza si basa su un movimento di separazione e distinzione: delimita una cosa dall’altra, mantiene ogni cosa nella sua identità con se stessa. La sostanza non è perciò concepita per l’apertura, bensí per la chiusura.
Sunyata (vacuità), il concetto centrale del buddhismo, rappresenta per molti aspetti il concetto opposto a quello di sostanza. La sostanza è per cosí dire piena: essa è ricolma di sé, del proprio (Eigen). Sunyata indica invece un movimento di es-propriazione (Ent-Eignung), ovvero svuota l’ente che si ostina in se stesso, che si irrigidisce in se stesso o in se stesso si chiude. Lo immerge in un’apertura, in un’aperta vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su se stesso. Il suo movimento sconfinante ed espropriante raccoglie il monadico per-sé in un rapporto di reciprocità. La vacuità non rappresenta però un principio genetico, una “causa” prima da cui sorgerebbe ogni ente, ogni forma. Non le è insita alcuna “potenza sostanziale” da cui scaturirebbe un “effetto”. E nessuna frattura “ontologica” la solleva in un ordine superiore dell’essere. Non delinea alcuna trascendenza precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa la vacuità dall’immanenza fenomenica. Come è stato spesso rilevato, la “trascendenza” o il “totalmente Altro” non rappresentano un modello dell’essere che appartiene al pensiero estremo-orientale. Le pitture di paesaggio Otto vedute di Hsiao-Hsing di Yü-chien, artista ispirato dal buddhismo zen, si possono interpretare come vedute del vuoto. Esse sono composte da rapidi e solo allusivi tratti di pennello, in un certo modo da tracce che non fissano nulla in modo definito. Le forme presenti emanano una singolare assenza. Non appena giunto alla presenza, tutto sembra tendere a immergersi di nuovo nell’assenza. Le forme paiono ritirarsi nell’infinita vastità dello sfondo bianco.

Una ritrosia mantiene l’articolazione in una singolare sospensione. Le cose fluttuano liberamente fra presenza e assenza, fra essere e non-essere. Non manifestano niente di definitivo. Niente si impone; niente si delimita, si chiude in sé. Le figure si convertono l’una nell’altra, si plasmano e si rispecchiano reciprocamente, come se il vuoto fosse un medium di gentilezza amichevole. Il fiume sta fermo e la montagna comincia a fluire. Terra e cielo si abbracciano. La singolarità di questo paesaggio sta nel fatto che il vuoto non fa semplicemente svanire la figura particolare delle cose, bensí la fa risplendere nella sua presenza piena di grazia.
Il canto del cuculo
pervade il grande bosco di bambú
nella notturna luce lunare.
Basho
Nel Sutra delle montagne e dei fiumi, Dogen ci parla di un singolare paesaggio del vuoto in cui “le azzurre montagne camminano”:
Non insultare le montagne dicendo che le azzurre montagne non possono camminare e la montagna orientale non può scivolare sull’acqua. Solo un uomo dall’intelligenza grossolana dubita che “le azzurre montagne camminano”. È solo per l’inadeguata esperienza che restiamo stupiti nell’ascoltare l’espressione “montagne che scorrono”.
L’espressione “montagne che scorrono” non è qui una metafora. Per Dogen le montagne scorrono “realmente”. Il discorso sulle “montagne che scorrono” sarebbe metaforico solo sul piano del pensiero sostanzialistico, dove la montagna si distingue dal fiume.
Ma nel campo della vacuità, dove montagne e fiumi si rispecchiano reciprocamente, sul piano cioè dell’indifferenza, la montagna scorre “realmente”. La montagna non scorre come il fiume, ma la montagna è il fiume. Qui è tolta la distinzione fra montagna e fiume, di casa nel modello sostanzialistico. Nel discorso metaforico, una proprietà del fiume sarebbe semplicemente “trasferita” alle montagne, poiché le montagne non scorrono “propriamente”. Le montagne appaiono solo come se fossero in movimento. Perciò il discorso metaforico parla in modo “improprio”. Il discorso di Dogen non parla invece né in modo “proprio” né in modo “improprio”, ma abbandona il piano sostanzialistico dell’essere, l’unico piano in cui avrebbe senso la separazione fra “proprio” e “improprio”.
Sul piano della vacuità, la montagna non si chiude ostinatamente in se stessa in modo sostanzialistico, anzi fluisce nel fiume. Si dispiega dunque un paesaggio fluido:
Le montagne si librano al di là delle nuvole e camminano nel cielo. La cima dell’acqua è varie montagne; vagare per le montagne, salendo e scendendo, avviene sempre sull’acqua. Poiché i piedi delle montagne possono camminare su ogni tipo di acqua facendola cosí danzare, si cammina liberamente in tutte le direzioni.
La vacuità, nella sua opera di abolizione dei limiti, elimina ogni rigida opposizione: “L’acqua non è debole o forte, bagnata o asciutta, ferma o in movimento, fredda o calda, esistente o non-esistente, illusione o illuminazione”. L’abolizione dei limiti (Entschränkung) vale anche per il vedere. È perseguito un vedere che ha luogo prima della separazione di “soggetto” e “oggetto”: nessun “soggetto” deve imporsi sulla cosa. Una cosa deve essere vista cosí come essa vede se stessa. Un certo primato dell’oggetto deve difendere quest’ultimo dalla sua appropriazione da parte di un “soggetto”. Il vuoto svuota chi guarda in ciò che è guardato. Viene esercitato un vedere gentile, che lascia essere, un vedere che, per cosí dire, diventa oggetto. Bisogna osservare l’acqua come l’acqua osserva l’acqua. Si realizzerebbe un’osservazione perfetta se l’osservatore divenisse, per cosí dire, della natura dell’acqua. Questa osservazione vede l’acqua nel suo esser-cosí.
La vacuità è una gentile in-differenza nella quale chi guarda è nello stesso tempo ciò che è guardato: “L’asino guarda nel pozzo e il pozzo nell’asino. L’uccello osserva il fiore e il fiore osserva l’uccello. Tutto questo è il ‘raccoglimento nel risveglio’”. L’uccello è anche il fiore; il fiore è anche l’uccello: la vacuità è l’Aperto che permette una compenetrazione reciproca. Essa istituisce la gentilezza amichevole. Ogni cosa rispecchia in sé il tutto; il tutto abita in ogni singola cosa: non c’è nulla che si ritragga in un isolato per-sé.
Tutto fluisce. Le cose trapassano l’una nell’altra, si mescolano fra loro. Cosí l’acqua è dovunque: “Che ci siano luoghi in cui l’acqua non possa arrivare è il falso insegnamento dei non-buddhisti. L’acqua penetra le fiamme, penetra cuore e mente; penetra il discernimento e la saggezza illuminata della natura-di-Buddha”. La distinzione fra “natura” e “mente” è eliminata. Per Dogen, l’acqua è il corpo e la mente dei saggi. Per i saggi che vivono nel cuore delle montagne, queste sono il loro corpo e la loro mente: “Dovremmo ricordarci che le montagne e i saggi hanno natura simile”. La pratica deve consistere nel fatto che i monaci che vivono nelle montagne diventano della natura della montagna, assumono il volto della montagna.
Trasformare semplicemente una montagna in un fiume sarebbe una “magia”. La “magia” trasforma una sostanza in un’altra. Ma non trascende la sfera della sostanza. Invece, le “montagne che scorrono” di Do1gen non scaturiscono da una trasformazione magica di questo tipo. Rappresentano piuttosto una visione ordinaria della vacuità in cui le cose stanno fra loro in un rapporto di reciproca compenetrazione:
Nella verità autentica non ci sono né magia, né misteri, né prodigi. Chi lo pensa si mette sulla strada sbagliata. Nello zen ci sono tuttavia giochi di prestigio di ogni tipo: per esempio far spuntare il monte Fuji dal paiolo, spremere acqua dalle molle per il fuoco roventi, sedersi dentro ceppi d’albero oppure far cambiare di posto due montagne. Ma ciò non è magia, non è niente di miracoloso, ma una comune banalità.
In un pruno abitano primavera e inverno, vento e pioggia. Il pruno è anche la fronte di un monaco. Ma si ritira anche tutto nel suo profumo. Il campo della vacuità non conosce la costrizione del vincolo identitario:
Il vecchio pruno […] è libero da ogni costrizione. Fiorisce in modo del tutto improvviso e reca con sé frutti. Talvolta realizza la primavera e talvolta l’inverno. A volte subisce un vento impetuoso e altre una pioggia violenta. Talvolta è la fronte di un semplice monaco e talvolta l’occhio del Buddha eterno. Talvolta si mostra fra erbe e alberi e talvolta è solo puro profumo.
Qui non si ha a che fare con un discorso “poetico”, a meno che poetico non designi una condizione dell’essere in cui si è allentato lo schema identitario, la condizione cioè di una particolare in-differenza in cui il discorso, per cosí dire, fluisce. Questo discorso corrisponde al fluido paesaggio del vuoto. Nel campo della vacuità, le cose escono dalla cella d’isolamento dell’identità per entrare in una uni-totalità, nella libertà e scioltezza di una reciproca compenetrazione.
Come accade quando il bianco onnipervadente della neve immerge le cose in un’in-differenza. Infatti è difficile distinguere fra il candore di un fiore e il bianco della neve che vi è caduta sopra: “Neve sulle infiorescenze del canneto; difficile distinguere dove cominciano i fiori e dove finisce la neve”. Il campo della vacuità è sotto certi aspetti senza-confini. Interno ed esterno si compenetrano: “Neve negli occhi, neve nelle orecchie: è proprio cosí, quando si dimora nella contrada dell’unico colore [cioè del vuoto]”.
Di certo, la “monocromia” del vuoto uccide i colori che si chiudono rigidamente in se stessi. Eppure questa morte al contempo li ravviva: guadagnano in ampiezza e profondità, o in silenzio. La monocromia non ha dunque niente da spartire con l’unità monotona, priva di differenze e di colori. Si potrebbe dire: il bianco ovvero il vuoto è lo strato profondo, l’invisibile spazio di respiro dei colori, e dunque delle forme. Il vuoto li immerge in una specie di assenza. Ma questa assenza li solleva al contempo in una singolare presenza.
Una presenza massiccia che, fosse solo “presente”, non respirerebbe. Nel campo della vacuità, la compenetrazione reciproca non comporta alcuna confusione di figura o forma. L’aspetto delle cose vi è conservato. Il vuoto è forma: “Il maestro Yunmen disse una volta: La vera vacuità non annienta ciò che è. La vera vacuità non è diversa da ciò che ha forma”. La vacuità impedisce soltanto che la singola cosa s’irrigidisca in se stessa. Scioglie la rigidezza propria della sostanza.
Gli enti fluiscono l’uno nell’altro, senza per questo fondersi in un’“unità” dal carattere di sostanza. Nello Sho-bo-genzo si legge:
L’uomo risvegliato è come la luna che si riflette nell’acqua (letteralmente: che dimora, che abita): la luna non si bagna, e l’acqua non è perturbata dalla luna. Sebbene la luce lunare sia vasta e grande, può essere contenuta in poca acqua. La luna e il cielo abitano in una goccia di rugiada e in un filo d’erba, in un’unica goccia d’acqua. L’illuminazione non manda in frantumi il singolo essere, cosí come la luna non trafigge l’acqua. Il singolo essere non turba lo stato d’illuminazione, cosí come una goccia di rugiada non turba il cielo e la luna.
Il vuoto non è dunque la negazione del singolo. La visione illuminata vede ogni ente rilucere nella sua unicità. E nulla domina. La luna resta in rapporto gentilmente amichevole con l’acqua. Gli enti abitano l’uno nell’altro, senza imporsi, senza ostacolarsi.
Di un convolvolo
l’unico profondo calice respira
il colore del lago di montagna…
Buson
Il vuoto o il nulla del buddhismo zen non è dunque una semplice negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di scetticismo. Rappresenta piuttosto un’estrema affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea tensioni oppositive, è negata. L’apertura, la gentilezza del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è “nel” mondo, ma che nel suo fondo è il mondo, che nel suo strato profondo respira le altre cose o procura loro lo spazio di soggiorno. Cosí in una cosa abita il mondo intero.
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