In Tibet il pensiero della morte è ancora molto presente, come si nota dalle infinite rappresentazioni di teschi e scheletri nei monasteri, mentre noi lo abbiamo reso qualcosa di cui vergognarci, da nascondere e ritardare il più possibile. Secondo Ariès, è proprio la continua negazione dell’ineluttabilità del trapasso a essere causa delle nostre nevrosi, del nostro malessere esistenziale e della nostra infelicità. La crisi dell’individuo moderno sembra combaciare con il rifiuto della fine.
IN COPERTINA, Yamāntaka (black thangka), Xi Hedao, 2007
Questo testo è tratto da “Il pensiero tibetano” di Dejanira Bada. Ringraziamo Giunti per la gentile concessione.
di Dejanira Bada
49 giorni nel bardo [bar do]
Per i tibetani – e per i buddhisti in generale – la vita umana non è altro che una scrupolosa preparazione alla morte. Nel buddhismo dell’ordine Nyingma esiste addirittura un’opera nata per guidare i morenti: il Bardo Thödol [Bar do thos grol], conosciuto in Occidente come Il libro tibetano dei morti.
È un testo misterioso, affascinante, enigmatico ed ermetico, che purtroppo ci è pervenuto solo in parte. Si dice che i suoi versi debbano essere recitati in un sussurro al morente per indicargli la giusta via verso la Chiara Luce, perché suggeriscono preghiere e mantra da recitare, divinità da visualizzare, immagini, luci e colori cui è bene prestare attenzione. Ma si dice anche che questi, a causa della forza del desiderio, della brama, dell’attaccamento alla vita, che in prossimità della morte seducono con tutta la loro potenza, avrà difficoltà ad ascoltarli: e allora dovrà impegnarsi, avere fede, essere devoto e saggio. Come chiarisce il testo, non tutti hanno la forza, la determinazione e il coraggio di farlo: «Con queste istruzioni anche chi è dotato delle più modeste capacità sarà salvo. E tuttavia alcuni, pur avendo ascoltato più e più volte queste parole, sgomenti dalla potenza demoniaca del loro karma o per avere infranto i voti, non riconoscono la luce e fuggono dai suoni e dall’esplosione radiosa, posseduti dagli incubi di avidità».
Mentre il corpo si decompone compaiono le visioni, che dovranno condurre alla purificazione del karma e aiutare la mente a tornare alla condizione originaria, che non è mai cambiata ma che a causa delle afflizioni e dei veleni era nascosta. Questa condizione naturale di cui si parla è la vacuità.
Leggiamo un’istruzione dal libro: «Oh figlio, ascolta senza distrarti. Fino a ieri le luci delle Cinque Famiglie ti sono apparse a una a una ma tu, per il cattivo karma che ti illude, ne hai avuto paura e sei giunto vagando fin qui. Se tu avessi riconosciuto quelle luci come vacue forme della tua mente ti saresti svegliato come Buddha nel corpo beato di una delle divine famiglie, liberandoti di una luce d’arcobaleno. Ora osserva con attenzione. Le Cinque Divine Famiglie sorgeranno insieme e con loro il profondo balenio delle Quattro Saggezze verrà a invitarti. Devi riconoscerlo».
In attesa della rinascita o della liberazione, il morto sta nel bardo, che come la mente non si trova in nessun luogo: ha le sembianze di un sogno. È declinato nel Bardo della Nascita, del Sogno, della Meditazione, della Morte, della Verità e del Divenire. Il morto ci può rimanere un attimo o sino a 49 giorni, durante i quali viene incoraggiato dal lama a non seguire il gioco illusorio dei pensieri. Se rimarrà calmo e non si aggrapperà a nulla, sarà libero. Se invece non seguirà correttamente le regole, rischierà di reincarnarsi in uno dei Sei Regni.
-->Il corpo si rifiuterà di scomparire, e così le emozioni, ma non bisogna farsi ingannare, bisogna concentrarsi solo sulla Chiara Luce (simile alla luce dei racconti di premorte), colei che illumina ogni altra luce. Il senso di tutto è qui, il senso stesso della pratica meditativa, che insegna a non seguire i pensieri, le sensazioni, le emozioni ma a osservare lo spazio infinito della mente. La meditazione come preparazione alla morte, momento in cui non si dovrà cedere all’inganno delle manifestazioni della mente, ma seguire la Chiara Luce senza titubanze, pena la reincarnazione, e dunque nuovamente sofferenza.
Servono ancora concentrazione e impegno. Il bardo può essere l’ultima grande esperienza, l’ultimo sforzo, l’ultimo avventuroso viaggio prima dell’estinzione. Se si sbaglia strada e non si riconosce lo stato primordiale della coscienza luminosa, e cioè, come abbiamo visto poco sopra, la condizione naturale della mente, che corrisponde alla vacuità, il lama indicherà la via per reincarnarsi in uno dei Regni e continuare a perseguire il Dharma.
La morte diviene così il palco di un teatro su cui balla la proiezione della vita, che gli spettatori devono guardare senza farsi coinvolgere, riconoscendo che lo spettacolo è solo finzione, che non vale la pena partecipare ancora. Chi riuscirà nell’impresa del non coinvolgimento, potrà fondersi al vuoto per l’eternità.
Non bisogna smarrirsi, non bisogna distrarsi. «Pur aggrediti da sette cani feroci, non si perdano le parole di questa Dottrina che apre la Via nell’attimo della morte. Neppure i Buddha dei Tre Tempi potrebbero svelare una Dottrina superiore a questa. Così termina l’essenza segreta di questo Grande Thödol, Suprema Liberazione con l’Ascolto, insegnamento del bardo che salva le creature».
Un corpo beccato dai corvi, dilaniato dai falchi
Ho trascorso molto tempo nei cimiteri e ancora oggi mi piace aggirarmi tra le lapidi in completa solitudine, osservare i volti delle persone che non ci sono più e contare gli anni che hanno trascorso sulla terra. Da bambina mi piacevano le streghe al punto tale da pensare di essere una di loro e da appena maggiorenne andavo a ballare la new wave con amici rockettari che si truccavano in stile Marilyn Manson, dipingendosi la faccia di bianco e pitturandosi le unghie di nero. La morte non faceva paura, anzi: da molti era vista come una salvezza, una liberazione dalle sofferenze della vita.
Quando in Namibia, durante un viaggio lungo la Skeleton Coast – dove dune altissime s’infrangono nel gelido Oceano Atlantico – trovai un teschio di otaria, delle vertebre e una scapola di delfino, fui felicissima. Mi sedetti a meditare spargendo intorno a me quelle ossa, guardando il sole calare e adagiarsi nel mare che col suo impeto mieteva da secoli migliaia di vittime. Una volta finito raccolsi tutto e portai quelle ossa a casa con me. Le ripulii per bene, le disinfettai, e poi le esposi nella mia wunderkammer insieme a rocce, sassi, sabbia, conchiglie e alla pietra proveniente dal campo base dell’Everest.
Viaggiando in auto sulle strade del Tibet, guardavo in alto tra le montagne perché sapevo che lì si tenevano i funerali dei defunti di molte comunità, e sognavo di prendervi parte. La guida mi aveva detto che era proibito, che il rito era riservato ai parenti più stretti del defunto, ma se ne avessi scorto uno avrei fatto di tutto per riuscire ad avvicinarmici. Proprio come avevo fatto a Varanasi, quando di notte avevo camminato tra le pire nonostante, almeno di giorno, fosse cosa vietata ai turisti.
In Tibet i defunti vengono portati in cima a una montagna dentro a un sacco bianco, scuoiati, fatti a pezzi e dati in pasto agli avvoltoi. È un rito che prende il nome di sepoltura celeste, jhator [bya gtor], una pratica che per molti occidentali è orripilante ma che per i tibetani, che non danno nessun valore a un corpo morto, è consuetudine. C’è da considerare anche che il territorio roccioso e spesso ghiacciato del Paese non offre la legna necessaria alle cremazioni e scavare le fosse è pressoché impossibile. Ogni bene del defunto viene poi regalato ai monasteri o bruciato insieme alle ossa avanzate dagli avvoltoi. Non si preserva nulla.
Anche la defunta madre del mio amico Thonla fu portata in cima a una montagna e data in pasto agli avvoltoi. Lui aveva circa undici anni. Dice che solo guardando il volto di sua zia riesce a rammentarsi vagamente quello della madre, anche perché in Tibet l’usanza di conservare foto non esiste. Thonla oggi un po’ ci invidia la nostra bella abitudine di custodire qualche ricordo dei defunti, anche se non conosce il significato spirituale che gli attribuiamo.
Il pittore cinese Liu Xiaodong è stato capace di immortalare, con ineguagliabile espressività e realismo, un funerale tibetano. Nel dipinto Sky Burial, infatti, in una valle verde attraversata da corsi d’acqua e sovrastata dalle montagne, si stagliano in primo piano gli avvoltoi, che pasteggiano ammassati su una roccia dove giace quello che ha tutta l’aria di essere un corpo. Alcuni volteggiano in cielo, aspettano il proprio turno, volano via. Altri ancora arrivano da lontano. A sinistra, degli uomini in piedi osservano indifferenti la scena.
È il ciclo della vita. L’andare e venire nel mondo. In quei corpi non ci sono le persone amate, perché il loro flusso mentale è già altrove, in viaggio, in attesa di liberazione o di rinascita. Non c’è attaccamento, non c’è nulla. Nel discorso sui Quattro Fondamenti della Presenza Mentale, il Buddha consiglia al praticante di paragonare il proprio corpo a un cadavere, immaginandolo in un cimitero «Beccato dai corvi, dilaniato da falchi, avvoltoi, sciacalli, infestato da larve e vermi», perché questa è la fine inevitabile di ognuno di noi e dobbiamo imparare ad accettarla, e prima ancora ad accettare l’inesorabile dissoluzione della carne.
Il fatto che i tibetani si preparino tutta la vita a questo momento può sembrare sconvolgente: siamo abituati a fare della morte il tabù per antonomasia. Come tutti gli argomenti che ci spaventano, preferiamo non parlarne, relegando il tema al campo dell’ignoto. Ma così facendo ci allontaniamo sempre di più dall’apprezzare e godere la vita stessa.
La morte è assurda e bellissima
Nel libro Storia della morte in Occidente, Philippe Ariès sostiene che mai come oggi la morte è stata cancellata dalle nostre vite e che il problema sarebbe da ricondurre all’incapacità di accettare il fallimento. Le prospettive di vita si sono allungate: grazie alla ricerca scientifica arrivare a novant’anni è sempre più facile, e di conseguenza la fine dei giorni sembra lontana, qualcosa a cui non è necessario prestare attenzione. Così, quando si presenta, ci pone per la prima volta di fronte agli obiettivi mancati, ai rimpianti, e noi, manchevoli di una spiritualità profonda, non sopportiamo di non aver dato abbastanza spazio ai sogni della gioventù e cadiamo nella depressione e nella frustrazione più buie.
Se quindi in Tibet il pensiero della morte è ancora molto presente, come si nota anche dalle infinite rappresentazioni di teschi e scheletri nei monasteri, noi lo abbiamo reso qualcosa di cui vergognarci, da nascondere e ritardare il più possibile. Secondo Ariès, è proprio la continua negazione dell’ineluttabilità del trapasso a essere causa delle nostre nevrosi, del nostro malessere esistenziale e della nostra infelicità. La crisi dell’individuo moderno sembra combaciare con il rifiuto della fine.
Sarebbe interessante provare a porci al cospetto della meditazione come a una preparazione alla morte, o a un metodo per ritrovarla, osservarla, accettarla, per dare un’occhiata sul vuoto. In fondo il rischio della continua negazione è il nichilismo estremo: e allora meglio intraprendere un percorso personale di ricerca interiore, invece di attaccarsi alla vita con le unghie e arrivare alla fine senza nemmeno la consapevolezza di aver vissuto. Anche se non siamo alla ricerca di nessun Dio o di una spiritualità in particolare, la meditazione ci insegna a fermarci, a entrare in contatto con noi stessi, e ci pone al cospetto di quello che sentiamo e proviamo veramente, conducendoci a quelle domande che cerchiamo inutilmente di ignorare: chi siamo? Dove stiamo andando? Perché siamo qui? Che senso ha? C’è vita dopo la morte?
A molti non piace fermarsi dinanzi al vuoto, nel silenzio, e percepire l’acquietarsi dei pensieri. Perché fa paura, proprio come fa paura la morte: non sappiamo di cosa si tratta. Ma farlo può aiutare a recuperare il rapporto con l’ignoto, permettendoci di guardare in profondità con coraggio.
Non dobbiamo ricordarci della morte solo quando si materializza davanti a noi, attraverso un incidente d’auto o un tumore terminale, ma sempre. Alleniamoci allora per reintrodurla nelle nostre vite. Non pensiamo che sia obbligatorio o necessario cercare o credere in un Dio per analizzarla e farsi un’idea; non lo è. L’importante è pensarci, senza negazione.
Lo scrittore Albert Camus sosteneva che «Una morte prematura è irreparabile», ma anche che non accettare l’assurdità del vivere e del morire, non imparare a esistere con «pacata indifferenza», con quel giusto distacco che insegnano anche i tibetani, con la consapevolezza di essere condannati a morte, lo è ancor di più. E infatti si stupiva che tutti vivessero come se nessuno sapesse di dover morire, un po’ come Yudhisthira, uno dei protagonisti del Mahābhārata, il più grande poema epico indiano, che diceva: «Giorno dopo giorno, ora dopo ora, gli uomini muoiono e i loro cadaveri sono portati via. I vivi osservano, eppure non pensano che un giorno o l’altro anch’essi moriranno. Credono invece di vivere per sempre. È questa la cosa più stupefacente al mondo». In Il Mito di Sisifo, Camus immagina Sisifo felice nonostante questi sia costretto a riportare la sua pietra in cima alla montagna in eterno: questo perché il macigno è cosa sua, il suo destino gli appartiene. In effetti, per lui il destino è questione di uomini e non di Dio. Bisogna imparare a dare valore a quello che si fa solo per il fatto che è vita, che si è in vita. La vita è qui e ora. L’universo è senza padrone, ma per Sisifo nulla è sterile, nulla è futile. La montagna che risale, la terra, la roccia, la lotta verso la cima: quello è il suo mondo, ed è abbastanza da riempirgli il cuore. L’adulto che è cosciente dell’assurdità del morire non pensa all’avvenire, e il ragazzo non si augura di diventare presto grande: entrambi vivono il proprio presente godendone il più possibile.
La routine della vita continua senza intoppi fino al momento in cui non ci si ferma a chiedersi perché, finché non ci si siede su un cuscino a meditare. È in quel momento che cessano gli automatismi e si comincia a prendere consapevolezza della vita e della morte. Per Camus, ascoltare la propria inquietudine è già di per sé una rivolta positiva, un modo per reagire e non abbandonarsi all’annichilimento.
La vita va vissuta, anche se non dovesse avere un senso: bisogna accettarne pienamente il destino.
Vivere è realizzare l’assurdo, è una sfida. Occorre farlo.
Anche se la morte è l’aguzzino che attende implacabile di condannarci.
Il contributo è prezioso perché dona una via di soluzione al quesito sul significato della vita.
Leggendolo mi è sorto il ricordo di Marco Aurelio e della sua opera “meditativa” presso il campo di battaglia del Danubio. Anch’egli si “preparava alla morte” con lucidità e un continuo percorso interiore (talvolta ripetitivo per consolidarsi nella mente senza distrazioni dovute al giornaliero esercizio del potere imperiale in ambito bellico). Anch’egli viveva ogni giorno accanto alla morte ineluttabile dando importanza essenziale al valore del “qui e ora”.