Essere di nessuna chiesa significa tollerare ogni chiesa, riconoscendone il diritto all’espressione anche nel libero atto di prenderne le distanze. In questo senso, l’indifferenza è la migliore garanzia di una piena fioritura umana.
IN COPERTINA e nel testo: Anonimo XIX sec., Eruzione del 1839 , Asta Pananti in corso
Questo testo è tratto da “Di nessuna chiesa” di Giulio Giorello, ringraziamo Cortina editore per la gentile concessione
di Giulio Giorello
“I legittimi poteri di governo si estendono solo a quegli atti che recano offesa agli altri. Ma non ci reca offesa che il nostro vicino sostenga che ci sono venti dei o che non ce ne è nessuno.” La tesi (1781) di Thomas Jefferson, aristocratico della Virginia e poi terzo presidente usa, suonava già piuttosto anticonformista alle orecchie di alcuni tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. Oggi, in piena normalizzazione, rivela un carattere ancor più dirompente. Le libertà che cediamo all’autorità politica nel patto tra Stato e cittadini non possono mai per Jefferson includere i “diritti della coscienza”; né i “legittimi poteri del governo” possono punire le scelte religiose come se fossero delle “offese ad altri” (purché, ovviamente, l’eretico “non mi azzoppi o derubi”).
Ritroviamo qui quella concezione dell’indifferenza che nella contrapposizione tra Riforma e Controriforma aveva portato spiriti religiosi, prima ancora che liberi pensatori, a non discriminare entro i cristiani (e talvolta tra cristiani e altri) su questioni di dottrina, aspetti del culto e problemi di organizzazione ecclesiale. “Differenze” di cui non era facile la valutazione sotto il profilo teologico non dovevano tramutarsi in elementi di divisione politica. Per Jefferson, infine, solo la libera disamina di tali differenze, o più laicamente l’esplorazione dei diversi stili di vita, consentiva di godere appieno la stessa esperienza religiosa. Ciò vale anche in filosofia, e persino in scienza: “Galileo fu sottoposto all’Inquisizione per aver sostenuto che la Terra era una sfera: l’autorità politica del suo tempo aveva dichiarato che essa doveva essere piatta come un tagliere, e Galileo fu costretto all’abiura. Il suo errore alla fine però prevalse, e la Terra divenne un globo. Cartesio sostenne poi che essa era fatta ruotare intorno al suo asse da un vortice. Il governo sotto cui viveva fu però abbastanza avveduto da capire che ciò non rientrava nella sua giurisdizione; altrimenti, tutti noi saremmo stati costretti a credere d’autorità nei vortici. Di fatto, questi sono stati demoliti, e il principio newtoniano della gravitazione appare ora avere una base razionale molto più solida che se si fosse intromesso il governo e ne avesse fatto un articolo di fede. È solo l’errore che ha bisogno del sostegno dell’autorità politica. La verità può reggersi da sola”.
Si perdoni a Jefferson una certa disinvoltura nell’esemplificazione storica (ai tempi di Galileo non era in questione la forma della Terra, bensì il suo movimento). Il punto è però che l’indifferenza giuridica teorizzata dal virginiano viene sovente fraintesa da chi la riduce a rivendicazione della “priorità” della democrazia sulla libertà nell’accezione filosofica sopra precisata. Di contro, essa andrebbe combinata con la pratica della tolleranza concepita come componente costitutiva di un “patto” rispettoso delle scelte dei singoli contraenti. È solo tale componente che rende gli aderenti al patto non sudditi, bensì cittadini di una società aperta e libera.
“Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non è scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci ferite, non versiamo sangue? Se ci avvelenate, non veniamo a morte? E se ci fate torto, non dovremmo vendicarci?”
Nel 1791 Theobald Wolfe Tone, protestante della Chiesa d’Irlanda, sostituì nel lamento di Shylock (Il mercante di Venezia, atto III, scena I) ebreo con cattolico, dando così voce alla maggioranza dei suoi compatrioti allora sottoposti a un vero e proprio regime di apartheid. “Forse un cattolico porta in fronte il marchio della Bestia come Caino?” Non sfugga il riferimento a Genesi 4,14-15. Tone doveva delineare un programma di riforme in cui la tolleranza reciproca costituiva la piattaforma politica – e lottare fino alla morte (1798) per una libera Irlanda in cui nessuno, di qualsiasi matrice religiosa fosse (cattolico romano, Chiesa di Stato, presbiteriano, ebreo, musulmano e – perché no – ateo) venisse discriminato.
Tone rientrava in quella tradizione politica delle isole britanniche che faceva del patto tra le varie componenti del popolo la fonte dei vincoli che avrebbero dovuto impedire a qualsiasi governo di disporre di un potere assoluto. Forse, aveva preso alla lettera la vecchia battuta di Cromwell, quando questi si era scagliato contro i membri del parlamento inglese e i loro alleati scozzesi disposti a esigere ampia libertà per loro, senza concederla ad altri. Certo, Oliver nella pratica politica e militare non era stato all’altezza del suo motto – escludendo di fatto dalla contrattazione i cattolici (e lo provò sulla propria carne la popolazione d’Irlanda!). Tuttavia, quello che Tone ancora ci dice è che un patto senza tolleranza è nullo e vuoto, non foss’altro perché chi tende a schiacciare la libertà degli altri finisce col compromettere la propria.
-->La tolleranza non è un’utopia irrealizzabile in alcun luogo e in alcun tempo, ma uno strumento efficace perché possa nascere e conservarsi una società libera e aperta – libera, in quanto ammette per qualsiasi opinione o forma di vita il diritto a una pubblica difesa; aperta, in quanto è costitutivo del patto il rispetto di chi opta per entrare come di chi opta per uscire. Occorre ricordarlo oggi più che mai, poiché da destra come da sinistra, da reazionari come da progressisti, da chierici come da “laici”, la tolleranza viene sospettata di paternalismo, condiscendenza e (più o meno celato) senso di superiorità. Il ritornello è sempre lo stesso: si tollera quello che non si ama, e solo quando non lo si considera pericoloso per la costellazione dei propri pregiudizi. Menti più raffinate ci ripetono che la tolleranza è ostacolo a una genuina partecipazione, e che pertanto occorrerebbe andare oltre, in un coinvolgimento reciproco che offra a chiunque la possibilità di integrarsi – senza lasciare ad alcuno la libertà di sottrarsi. Questo sogno da “anime belle” ha sempre di più la parvenza dell’incubo da cui vorrei destarmi – per dirla con il Dedalus di Ulysses. Altro che dittatura (inesistente) del relativismo. Come si può pretendere di andare oltre la tolleranza se non si è prima cominciato a praticarla?

Credo avesse ragione Feyerabend quando invitava a lasciar agire le persone “come se fossero virtuose senza esserlo”. Una società aperta e libera dovrebbe disporre di strutture protettive atte a garantire la tolleranza e a scoraggiare non solo l’intollerante, ma qualsiasi “ingegnere di anime” che, spinto da irrefrenabile “altruismo”, voglia imporre le proprie ricette per plasmare l’uomo o la donna “nuovi”, costringendoli a scegliere quello che lui giudica essere il bene. È facile citare il vecchio Tribunale dell’Inquisizione o i totalitarismi “classici” che il secolo scorso ha conosciuto. Ma c’è anche un’intolleranza democratica, spesso coperta da urgenza pedagogica.
Nel Razzismo spiegato a mia figlia (1998) di Tahar Ben Jelloun troviamo questo aureo dialoghetto: “La bambina: ‘Babbo, adesso dirò una brutta parola: il razzista è un porco!’. Il genitore: ‘La parola non è abbastanza brutta, bambina mia, ma mi sembra appropriata’”. Lo sarà forse per chi considera il razzista un “anormale”, anzi un “malato”. Ma come curarlo? Con l’ospedale psichiatrico? O con la lettura coatta dei libri di Ben Jelloun?
La società cui penso dovrebbe essere deputata a intervenire con la massima efficacia su chiunque (razzista dichiarato o meno) nuoccia agli altri, minoranze o maggioranze che siano, ma non a stabilire sanità e follia, a modellare mentalità e a frugare nelle coscienze. E mi dà motivo di gioia che qualsiasi forma di apartheid venga smantellata, anche col ricorso all’uso della forza. Da questo punto di vista trovo sempre pregnante la lezione di Luigi Einaudi, per cui anche i migliori sentimenti non possono essere imposti dall’alto: “È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso discussioni e lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità può essere ottima: ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì contro c’è il muro ed è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere entrambi i contendenti”.
Voci come quelle di Jefferson, di Tone e addirittura di Einaudi ci suonano a un tempo lontane e vicine. Lontane, perché l’indifferenza e la tolleranza di cui ci parlano sembrano agli antipodi degli stereotipi e modelli correnti. Vicine, perché ci forniscono una chiave per sciogliere l’apparente contraddizione che pare tormentare spiriti religiosi e laici. Può reggere una società aperta e libera etsi Deus non daretur? C’è un non di troppo. La vera questione è se si possa dare una società aperta e libera etsi Deus daretur. È il progetto che gli altri hanno su di noi di salvezza eterna (oppure, in una versione più pallida, di correttezza politica) a costituire il problema. Qualcuno, prendendo spunto da una battuta di Voltaire o di Sir Bertrand Russell, potrebbe essere tentato di concludere di fronte a tanta salvifica arroganza: Écrasez l’infâme! Penso, invece, che si debba avere nei confronti del fanatico (anche di quello “laico”) lo stesso atteggiamento che dovremmo avere nei riguardi del razzista, con buona pace di Ben Jelloun. Strutture protettive contro i crimini, ma nessuna pretesa di “cura” o di “normalizzazione”.
L’indifferenza di matrice jeffersoniana, la tolleranza di Tone, l’equilibrio di Einaudi non portano a una qualche forma di ateismo di Stato o a un laicismo alla francese, che vieta questo o quel segno esplicito di adesione a una confessione religiosa in nome di una comune sensibilità. Che liberté è mai quella che consente di indossare di tutto, eccetto i simboli della propria fede? Che relega il credere a fatto privato, senza concedere l’opportunità di una pubblica testimonianza? Essere di nessuna chiesa significa tollerare ogni chiesa, riconoscendone il diritto all’espressione anche nel libero atto di prenderne le distanze. In questo senso, l’indifferenza è la migliore garanzia di una piena fioritura umana.
Andrea Emo amava scrivere nei suoi diari filosofici (che non voleva nemmeno destinare alla pubblicazione) che molte delle grandi parole su cui noi ci arrovelliamo – come, per esempio, tolleranza e libertà – assomigliano a organismi viventi, e traggono alimento, per così dire, dalla loro stessa ambiguità. Le soluzioni che via via vengono proposte sono destinate prima o poi a prestare il fianco alle obiezioni: eppure, non per questo smettiamo d’essere “cacciatori di chimere”. È lo spirito del fallibilismo, cui per anni Marco Mondadori e io abbiamo dedicato le nostre riflessioni. Non andremo più a caccia insieme, poiché Marco è mancato il giorno di Pasqua del 1999. Mi resta quel duplice vincolo che, presentando insieme il saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, avevamo delineato per far fronte alle difficoltà di una società aperta e libera: I. Ciascun individuo deve avere un uguale diritto al sistema totale massimo di uguali libertà fondamentali compatibile con un simile sistema di libertà per tutti; II. La libertà può essere ristretta solo a vantaggio della libertà stessa.
Lettura durissima, solo apparente l’ agilità. Necessaria una erudizione complessa, che abbia attecchito attraverso stratificazioni successive, ripetute ed estese. È, però, a mio avviso, l’ unico modo per dare una qualche dignità alla “religione”, qualunque essa sia e voglia significare