Lavoro da remoto, educazione a distanza, yoga in videoconferenza: le abitudini imposte dalla pandemia sono cambiamenti che cercavano di farsi strada da tempo. Che ci isolino o rendano più liberi, nuovi modi di vivere la quotidianità potrebbero nascere proprio da questo momento.
In copertina e lungo il testo opere di Becky Suss
Il mondo che ci aspetta all’uscita dell’isolamento forzato nelle nostre case non sarà lo stesso che abbiamo lasciato dietro la porta, prima dei guanti, delle mascherine e dei gel disinfettanti. Al netto dei rassicuranti “tutto tornerà come prima”, è ormai chiaro che ci troviamo a cavallo tra un pre- e un post-, un momento storico al quale ci riferiremo con un prima e un dopo. Le analisi e le previsioni divorate in queste giornate dilatate cercano una visione di un mondo futuro che, lontani dalla fine della pandemia, non può essere che prematura, ma il momento che stiamo vivendo ci costringe da subito a sperimentare nuovi modi di intendere aspetti della nostra vita che ora ci troviamo a dover adattare alle condizioni del presente e che già spingevano per farsi strada da tempo.
La necessità di aumentare la distanza fisica tra le persone ha richiesto, laddove possibile, lo spostamento di lavoro, educazione e tempo libero verso il remoto. L’adattamento è stato certamente brusco, quello dell’emergenza che non permette di pianificare e costringe a un nuovo sistema improvvisato che può far rimpiangere il passato, ma allo stesso tempo il passaggio progressivo dai metodi più tradizionali era rallentato dalle abitudini e dai timori che in tempi normali frenavano di fronte al rischio del cambio radicale. In tutto questo improvviso scompiglio una precisazione d’obbligo va fatta a partire dalla terminologia. Dal momento in cui la pandemia ha tenuto tutti lontani dagli uffici, si è fatto un gran parlare del passaggio allo smart working, seguendo la consuetudine dell’abuso di anglicismi se non, nella confusione, di pseudoanglicismi. Lo smart working è una modalità di lavoro che non solo è flessibile riguardo al luogo di lavoro, lo è anche rispetto agli orari, ma soprattutto prevede una diversa mentalità e organizzazione aziendale. In Italia, la definizione legislativa corrispondente, secondo anche quanto riportato dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, usa invece la locuzione “lavoro agile”, salvandosi dall’esterofilia ma non dal facile fraintendimento con l’agile working (che a sua volta è un’altra cosa ancora). Senza entrare troppo nei dettagli della nomenclatura e della legislazione, quanto detto ci basta per specificare che in Italia, almeno nella gran parte dei casi, non c’è stato nessun passaggio allo smart working. E non è per nulla sorprendente che non si possa cambiare più di mezzo secolo di cultura aziendale nel giro di poche settimane; piuttosto, considerando che nella gran parte dei casi si è passati semplicemente a lavorare in orari d’ufficio da casa sarebbe corretto definirlo lavoro a distanza, o da remoto – se non ancora più precisamente “da casa” -, come tra l’altro è stato fatto anche nei giornali in lingua inglese, parlando di remote working senza dover conferire alcuna smartness. Ma anche questa forma di lavoro non deve essere confusa con quella dell’emergenza in cui si sono trovati catapultati in molti, chini su un portatile in un angolo del salotto con i bambini che chiedono attenzioni. Richiede regole e spazi appositi, oltre agli strumenti che non ci si farebbe mancare in un ufficio.
Cosa resterà di questo esperimento forzato una volta finita la pandemia? L’Italia è stata finora particolarmente restia ad adottare modalità lavorative diverse da quelle che intendono il lavoro terziario seduti alla propria scrivania sorvegliabili dal capoufficio. Secondo i dati Eurostat del 2018, solo il 3,6% degli impiegati italiani lavorava abitualmente a distanza contro il 5,1% della media europea e ben lontano dal 14% dei Paesi Bassi, in prima posizione. Forse possiamo attribuire questa refrattarietà al fatto che la classe dirigente italiana sia tra le più vecchie d’Europa o anche a un paese attaccato a un’idea un po’ folkloristica della “creatività italiana” ma che purtroppo è molto indietro quando si parla di innovazione. Ad emergenza finita forse si riuscirà a integrare stabilmente il lavoro a distanza come modalità lavorativa comune, comprendendo i benefici per tutti, lavoratori, imprese e città. Un impiegato che ha bisogno di un’ora per andare a lavoro – cosa tutt’altro che rara nei grandi centri – perde in un mese l’equivalente di un’intera settimana lavorativa delle canoniche 40 ore solo per spostarsi, senza contare le conseguenze dello stress del pendolarismo sul resto della giornata. L’effetto sulla qualità della vità di questo tempo da dedicare a se stessi sottratto alle nervose ore di punta dei treni stipati e degli ingorghi non solo è enorme a livello individuale ma è anche collettivo. Rendere i lavoratori meno dipendenti dal luogo e dagli orari significa decentralizzare e decongestionare le città, rendendo il traffico più leggero e distribuendo geograficamente la forza-lavoro con una ricaduta anche sul mercato immobiliare, riducendo il bisogno di vivere in prossimità dell’ufficio. Il caso più significativo e paradossale in questo senso è quello di San Francisco, centro innovativo per eccellenza con la più alta concentrazione di lavoratori specializzati nell’alta tecnologia degli Stati Uniti che godono di stipendi annuali a sei cifre (144.800 dollari, in media, che equivalgono a più di 130.000 euro) ma non sono in grado di comprare casa per i prezzi assurdi determinati dallo squilibrio tra domanda e offerta generato proprio dal successo del settore tech nella città, mentre per pagare l’affitto di un bilocale un lavoratore con salario minimo dovrebbe avere 4,7 impieghi a tempo pieno e migliaia di persone vivono in strada. Proprio dalla Silicon Valley si inizia a parlare sempre di più di lavoro distribuito: solo pochi mesi fa, il CEO di Twitter, Jack Dorsey, spiegava agli investitori l’intenzione di assumere personale che vive in altri stati o in altri paesi, senza che debbano risiedere a San Francisco ed essere ogni giorno in ufficio (e, ovviamente, potendosi permettere di pagarli di meno). Matt Mullenweg, creatore – tra altre cose – di WordPress, spiega che preferisce parlare di lavoro distribuito più che da remoto per enfatizzare che non aspira a un’azienda con un centro prioritario lontano dal quale lavorano altri impiegati a distanza, ma di un’organizzazione che mira a una struttura nella quale si lavora sullo stesso piano, non esiste un punto da cui essere “remoti” ma una distribuzione paritaria nello spazio. Certo, il lavoro a distanza implica aspetti negativi, come il rischio di sentirsi isolati o di non legare con i colleghi, ma anche questi problemi possono essere mitigati da nuove soluzioni, come tenere incontri periodici dal vivo e un’interazione online pensata anche per la socializzazione. Ma anche senza buttarsi direttamente nelle promesse del lavoro distribuito tra continenti e fusi orari diversi, si possono trarre gran parte dei benefici del lavoro da remoto offrendo ai lavoratori la possibilità di lavorare due o tre giorni alla settimana lontani dall’ufficio. Proviamo a immaginare città come Milano o Roma libere ogni giorno dal flusso dei lavoratori che possono restare a casa ma anche essere più flessibili rispetto a quegli impegni che di solito costringono ad acrobazie durante gli orari normali di lavoro, come andare in banca o dal medico.
Anche l’ambito educativo ha dovuto cercare di affidarsi a internet per non interrompere le lezioni e anche in questo caso ci troviamo di fronte a un sistema che aspetta solo di evolversi. I corsi di laurea che possono essere svolti completamente online già da tempo non sono un’idea da diplomificio e vengono offerti anche dalle università più prestigiose. Per garantirne la serietà, gli esami spesso sono supervisionati attraverso webcam e programmi specifici oppure sono l’unica parte del percorso che deve essere svolta esclusivamente di persona. I MOOC (Massive Open Online Course),corsi a distanza aperti a un gran numero di partecipanti grazie ai mezzi informatici, sono in crescita continua e sono forse la risposta più concreta alla domanda del lifelong learning, che non può essere certamente soddisfatta dai percorsi più tradizionali, strutturalmente non in grado di affrontare il numero di studenti ma neanche di offrire curriculum abbastanza flessibili da permettere di costruire un percorso formativo più individuale e che può continuare anche dopo la laurea, aggiungendo tasselli alla propria educazione. E se anche in questo caso si teme una perdita delle interazioni tra studenti e con i professori, una soluzione auspicabile sarebbe anche solo quella di spostare online parte delle lezioni frontali per concentrare invece il tempo passato in aula tra seminari e laboratori che possono appunto massimizzare gli scambi, la partecipazione e l’apprendimento attivo a scapito delle ore passate seduti ad ascoltare, magari stipati con altre centinaia di persone.
Il rischio di sentire la mancanza delle interazioni interpersonali è quello che preoccupa di più quando si vede internet sostituire percorsi già esistenti, ed è interessante come proprio internet abbia permesso di far diventare il social distancing un physical distancing. Un’app per videoconferenze è diventata improvvisamente l’ultimo modo per tenersi in contatto con gruppi di amici e le giornate di molti hanno iniziato a riempire un’agenda fitta di lezioni di ballo live su Instagram e yoga mattutino in streaming. Sarà stata la quarantena meno isolante della storia e forse anche di questo resterà qualcosa, che siano nuove abitudini nel seguire i nostri interessi o semplicemente un modo diverso di concepire lo spazio domestico più come luogo di attività che di riposo a cui tornare dopo una lunga giornata.
-->In pochi decenni internet ha cambiato il mondo più volte e continuerà a farlo. Possiamo temere che queste novità ci isolino, ma spesso chi lavora o studia a distanza non resta semplicemente a casa ed ecco che nascono anche opportunità per creare i propri spazi partendo da aggregrazioni volontarie, coworking o meetup, scegliendo le comunità di cui far parte piuttosto che trovarsele imposte dalle circostanze (è anche facile idealizzare i rapporti a scuola e in ufficio, ma a volte diventano realtà orribili da cui si vorrebbe scappare). Persino attività tradizionalmente solitarie come la scrittura possono diventare occasioni di socialità: in tutto il mondo si tengono eventi di persone che si raccolgono per un’ora in un posto tranquillo, che sia una biblioteca o un caffè, per scrivere in silenzio e poi socializzare e confrontarsi nel tempo successivo. Non diversamente, esistono eventi simili per programmatori. Insomma, una volta abbandonato il contenimento del luogo di lavoro, si apre un vero e proprio mondo di possibilità. In questo momento sarà difficile distinguere lo stress e l’isolamento delle restrizioni da quello che comportano nuove abitudini organizzate frettolosamente, e lo scetticismo per un cambio così radicale è inevitabile. Non c’è dubbio che i vantaggi del distanziamento vengano con nuovi problemi da risolvere, ma prima ancora c’è l’ombra della recessione che incombe e che potrebbe spazzare via qualunque spinta innovativa nel tentativo di salvare il salvabile, un rischio ancora più forte se si pensa di agire sulle criticità strutturali della nostra società che la pandemia ha solo evidenziato ma sono chiare da tempo. D’altra parte, invece, se le restrizioni attuali dovessero durare più a lungo di quanto previsto, in attesa di immunità di gregge e vaccini, la vita da remoto potrebbe iniziare a diventare una necessità inevitabile e restare, definendo una parte del futuro post-pandemia.
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