Siamo a un nuovo commento a un canto della Divina Commedia: il nostro progetto, che chiamiamo “CCC”, prevede di far commentare tutti i cento canti da altrettanti scrittori e scrittrici contemporanee. Questo è il commento al quattordicesimo canto del purgatorio.
IN COPERTINA e nel testo una rappresentazione del purgatorio di botticelli.
di Michele Maestroni
Con il contributo di
Per quanto riguarda il girone dell’invidia, il XIII poteva essere considerato il Canto che raccoglieva ed esauriva tutte le tematiche religiose e civili legate a quel peccato: la descrizione della cornice e dei peccatori, e le parole di madonna Sapìa, non solo hanno costituito uno degli episodi più commoventi di tutta l’ultima cantica (non a caso posto parallelo al XIII dell’Inferno, l’episodio del suicida Pier delle Vigne), ma lasciano davvero ben poco da dire sullo stesso argomento. Proprio per questo, Purgatorio XIV, che è il secondo canto dedicato agli invidiosi, nasce suo malgrado già all’ombra del precedente, quasi sul rovescio della stessa balza; e in questa posizione scomoda e risicata deve ugualmente essere funzionale alla struttura discorsiva della Commedia intera, e, insieme, rispecchiare le ambizioni di Dante poeta e di quella «navicella del mio ingegno» che naviga a vele alte fin dall’inizio.
Partendo da questi due presupposti, mi immagino Purgatorio XIV come una di quelle vecchie B-side track, quando ancora le canzoni venivano incise sui due lati diversi del vinile o della cassetta musicale. In origine, il pezzo B-side veniva posto sul retro del supporto per scelte di mercato: le case discografiche, infatti, dedicavano il risalto del lato A alle canzoni più inclini a riscuotere il successo commerciale, con alte rotazioni e (sperati) numeri di vendita da capogiro, grazie al loro stampo marcatamente pop e facilmente apprezzabile. Al lato B, detto anche flipside, veniva così assegnato il pezzo meno importante perché più lontano dal gusto del pubblico-tipo di quell’artista o quella band: tracce sperimentali, atipiche, o semplicemente lavori ritenuti minori, su cui l’etichetta discografica puntava meno; pezzi in secondo piano, sul rovescio del supporto, schiacciati dal lato precedente a loro per importanza e ordine alfabetico. E, proprio per questo, più stuzzicanti, curiosi e imprevedibili, liberi dalle aspettative del mercato musicale e degli ascoltatori.
Tornando alla Commedia, il canto XIV del Purgatorio è un canto polimorfo, imprevedibile, oserei dire sorprendente e, per certi versi, molto strano e lontano rispetto al ben più noto precedente, proprio come una traccia B-side di un metaforico singolo a 45 giri sugli invidiosi. Il canto XIII è concluso, il lettore gira la pagina, capovolge il lato, e le terzine ricominciano da capo; ma il racconto che leggerà e ascolterà dalla voce di due nuovi dannati è ben diverso.
Come Madonna Sapìa conclude il suo accorato appello, altri due invidiosi puniti prendono la parola, e si chiedono chi sia «costui che ‘l nostro monte cerchia / prima che morte li abbia dato il volo, / e apre li occhi s sua voglia e coverchia»; la curiosità è tale che uno dei due ciechi si spinge a fermare Dante per chiedergli «onde vieni e chi se’». Il poeta, ormai abituato a questo tipo di primo approccio, per cui in modo abbastanza disinvolto, non risponde con il suo nome; piuttosto, preferisce dipingere la sua origine con la topografia, descrivendo in pochi versi il corso di «un fiumicel». Una delle due anime capisce che si tratta dell’Arno, ma l’altra non si spiega come mai il vivo non abbia voluto nominarli apertamente.
Nella dimensione dell’anonimato e del riserbo si svolgono così le primissime battute del canto: Dante non dice né il suo nome né quello del fiume Arno, e nemmeno le due anime si identificano. Una situazione atipica, se si considera che fin dall’inizio dell’Inferno il nome delle anime ha un ruolo fondamentale negli incontri che il poeta fa nell’aldilà, sia che i dannati si identifichino controvoglia o smaniosi di essere ricordati da chi è ancora vivo, sia che Dante li riconosca per primo. Ed è proprio nel pronunciare il nome dell’Arno che lo stallo comunicativo viene scardinato, e una delle due anime apre la pronunziazione di un’invettiva alla Toscana inaspettatamente violenta e cruda per essere un canto del Purgatorio.
Avviene, infatti, un vertiginoso abbassamento della lingua dantesca, che torna pericolosamente vicina alle tonalità tipicamente infernali: la terra toscana diventa una «misera valle» senza virtù, i cui abitanti «hanno sì mutata lor natura». Le località vituperate non vengono, di nuovo, menzionate apertamente, ma individuate dal corso del fiume, che inizia il corso tra i porci del Casentino, vira ad Arezzo città di botoli ringhiosi, s’ingrossa dove trova i lupi di Firenze e finisce a Pisa, tana di volpi feroci e fraudolente.
-->Nel bel mezzo della salita purgatoriale, quindi, si spalanca di nuovo e all’improvviso tutto quell’immaginario impregnato di violenza e disperazione che eravamo convinti di esserci lasciati alle spalle, nelle profondità infernali. Trasportati di terzina in terzina da questa impietosa rassegna delle terre toscane, brutalizzate dai vizi di uomini-animali che fuggono la virtù «come biscia», è facile traslare questo termine sull’Arno stesso, immaginandolo a sua volta come un serpente che scivola, spirante e velenoso, nel solco della «maledetta e sventurata fossa». E come un fiume, le immagini e i toni si gonfiano di brutalità e crudezza, fino a sfociare in una carneficina: il dannato, infatti, profetizza l’avvento di Fulcieri da Calboli, avversario dei guelfi bianchi: «cacciator di quei lupi» anch’egli ferino, che vende la carne dei nemici e li uccide «come antica belva», e «sanguinoso esce de la trista selva».
Arrivato all’apice di queste sonorità quasi da musica deathcore, l’interlocutore di Dante procura un altro brusco strappo al canto, stavolta verso l’alto, togliendolo dall’Inferno e riportandolo sul monte del Purgatorio: il ritmo viene troncato, l’aria riprende quella nostalgia trasparente che è la marca principale della seconda cantica. I due invidiosi si identificano: Guido del Duca e Riniero da Calboli, entrambi signori in Romagna. La pronuncia dei propri natali, anche qui tratteggiati con brevità ed efficacia («tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno»), dà il La a una nuova invettiva, questa volta dalla fibra decisamente più elegiaca e malinconica: il lamento della scomparsa di quelle che un tempo furono le famiglie nobili e cortesi della Romagna, ora ricoperta invece di «venenosi sterpi».
L’utilizzo di espressioni provenienti dal regno vegetale connota il nuovo discorso di Guido del Duca di un colore totalmente diverso da quello della metafora bestiale precedente. Le dinastie cortesi romagnole sono piante appassite ed estinte, che non produrranno più nuovi semi: il termine su cui verte tutto il significato della lamentazione è «rallignare», che significa mettere radici e attecchire, e richiama il termine, morfologicamente prossimo, «lignaggio», dinastia. Così, mentre Guido del Duca elenca la mancanza di nuovi «Lizio e Arrigo Mainardi / Pier Traversaro e Guido di Carpigna», le sue parole, fino a prima accese dallo sdegno verso la Toscana, ora si rompono nel pianto di una Romagna che ha conosciuto – e il verso verrà ripreso da Ariosto – «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ‘nvogliava amore e cortesia» e che ora è terra ospitale solamente per cuori malvagi e aspirazioni signorili degne del demonio.
Purgatorio XIV scivola su queste note di archi, grondanti lacrime e rammarico, verso la fine: ma, ancora una volta, Guido del Duca interrompe il suo parlare, e chiede a Dante di essere lasciato piangere da solo. E ancora una volta, il Canto muta di sonorità: mentre Dante e Virgilio se ne vanno, «folgore parve quando l’aere fende», e due voci, una dopo l’altra, prorompono come tuoni. Sono due esempi, spaventosi nella loro rapidità, di invidia punita, e si palesano quasi in forma di motti: Caino con una frase biblica («Anciderammi qualunque m’apprende») e Aglauro, che racconta il mito della sua trasformazione in statua da parte di Mercurio perché invidiosa dell’amore del dio per la sorella Erse (Ovidio, Metamorfosi, II 708-832).
Si è già detto molto, durante i vari commenti, sulla qualità ibrida della cantica del Purgatorio: un percorso ascensione fisica e purificazione morale verso il Paradiso che però, come accadeva nell’Inferno, avviene attraverso gli incontri di figure ancora dannate e punite, e che si rivolgono al poeta con la voce carica di tristezza e tragedia. In questo senso, Purgatorio XIV è forse il canto che mette meglio in mostra la natura intrinsecamente sperimentale e potenzialmente eclettica della cantica, mostrando come, da quella dimensione a metà tra l’estremo dannato e quello beato, è facile ricadere nell’Inferno mentre si aspira al Paradiso. Il monte del Purgatorio è un terreno su cui Dante si diverte a combina atmosfere diverse e sonorità tratti discordanti: un garage da cui, a volte, escono pezzi che saranno pure meno noti ai lettori e studiati dalla critica; ma, se si ha la pazienza di girare pagina e lato, possono risultare essere scoperte sorprendenti.
Il canto, integrale
Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e molti altri.
“Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?”.
“Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’ lo”.
Così due spirti, l’uno a l’altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse l’uno: “O anima che fitta
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai”.
E io: “Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr’esso rech’io questa persona:
dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
ché ’l nome mio ancor molto non suona”.
“Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
con lo ’ntelletto”, allora mi rispuose
quei che diceva pria, “tu parli d’Arno”.
E l’altro disse lui: “Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com’om fa de l’orribili cose?”.
E l’ombra che di ciò domandata era,
si sdebitò così: “Non so; ma degno
ben è che ’l nome di tal valle pèra;
ché dal principio suo, ov’è sì pregno
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro,
che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là ’ve si rende per ristoro
di quel che ’l ciel de la marina asciuga,
ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond’ hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant’ella più ’ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
Né lascerò di dir perch’altri m’oda;
e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva”.
Com’a l’annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch’ascolta,
da qual che parte il periglio l’assanni,
così vid’io l’altr’anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de l’una e de l’altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlòmi
ricominciò: “Tu vuo’ ch’io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo’ mi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch’io fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni ’l core
là ’v’è mestier di consorte divieto?
Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s’è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov’è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d’Azzo che vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l’una gente e l’altra è diretata),
le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
che ne ’nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non fuggi via,
poi che gita se n’è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s’impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d’essi testimonio.
O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m’ ha nostra ragion la mente stretta”.
Noi sapavam che quell’anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
’Anciderammi qualunque m’apprende’;
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:
“Io sono Aglauro che divenni sasso”;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era l’aura d’ogne parte queta;
ed el mi disse: “Quel fu ’l duro camo
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne”.
A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.
Il canto numero XV del sarà commentato da Giovanni Ceccanti.
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