Un racconto filosofico di Riccardo Manzotti attorno a una colonscopia – o, a ben vedere, attorno a una domanda fondamentale sulla coscienza.
IN COPERTINA e lungo il testo, The Anatomy Lesson of Dr. Nicolaes Tulp, Rembrandt, 1632
Di Riccardo Manzotti
Qualche settimana fa, passata la boa dei cinquantatre anni, ho cominciato a sentire una fastidiosa sensazione al fianco destro. Che fare? Ignorare o chiedere al medico? Nel dubbio chiedo e non avendo trovato alcuna spiegazione il dottore mi consiglia di farmi fare una colonoscopia; sempre meglio escludere le eventualità peggiori. Così, consultato il centro prenotazioni della sanità, mi informano che il primo ospedale libero è quello di Volterra. Accetto immediatamente e così, dopo qualche giorno, risalgo con la mia macchina i tornanti che disegnano le balze per arrivare puntualmente all’appuntamento.
Lasciata la vettura al parcheggio, prenotazione alla mano, mi inoltro in un dedalo di piccoli edifici contrassegnati da cartelli minimalisti: chirurgia, ostetricia, prelievi. Finalmente trovo quello che cercavo: il reparto di endoscopia e chirurgia digestiva. Non ha un aspetto rassicurante. Le tapparelle un po’ sghembe chiudono le finestre con indolenza imprecisa. Le pareti sono scrostate in grandi macchie impressioniste e l’erba cresce anarchica nelle aiuole. Sperando che i sempre citati tagli al bilancio della sanità non abbiano pregiudicato le attrezzature mediche, entro. Fortunatamente l’interno è in condizioni migliori; mi fermo davanti alla porta del reparto e aspetto di essere chiamato. Davanti a me, un signore anziano, direi sulla settantina, aspetta tenendo tra le mani una ricetta molto simile alla mia. Non ho motivo per iniziare una conversazione, mi siedo e aspetto. Dopo poco arriva un’infermiera attempata che mi consegna un modulo cartaceo e mi chiede di firmarlo. Firmo tre volte per certificare il mio desiderio di essere sottoposto alle cure del caso e di sollevare l’ospedale da ogni rischio legale. Niente di strano. Nel frattempo, il signore anziano viene fatto entrare. Memorizzo mentalmente l’ora per vedere quanto tempo starà dentro e quindi fare una stima di quanto tempo sarò nelle mani dei dottori dopo di lui, ma inaspettatamente la mia ipotesi viene smentita perché il signore esce quasi subito. Ok, tocca a me. L’infermiera attempata mi fa spogliare e mettere un grembiule completamente aperto sulla schiena. Logico. Mi chiede se ho bisogno di fermarmi al bagno e, in effetti, nonostante sia da un paio d’ore che non bevo sento l’impulso a orinare. Logico anche questo. Faccio una piccola pausa al bagno ed entro nell’ambulatorio.
Aggiungo qualche informazione di contorno: alla colonoscopia non si arriva impreparati. Trattandosi di un esame che esplora l’intestino nella sua parte finale e più grande, ovvero il colon, è indispensabile dedicare qualche giorno a una serie di pratiche che consentano di svuotarlo e pulirlo il più accuratamente possibile da ciò che, nel funzionamento quotidiano, vi transita, ovvero le feci in vario stato di assimilazione ed espulsione. Per arrivare puliti all’esame si segue una dieta scrupolosamente priva di fibre e altri alimenti a transito lento, si digiuna nelle ventiquattro ore precedenti e ci si sottopone a una procedura lassativa che consiste in un lavaggio intestinale eseguito ingurgitando quattro litri di una soluzione di sali di sodio che svuotano e puliscono completamente l’intestino: come una grande piena che porta via tutto quello che normalmente percorre le nostre viscere. Avevo fatto tutto con grande cura.
Mi accoglie una seconda infermiera molto cortese che mi fa coricare sul lettino verde. Dopo avermi inserito un ago nel braccio, mi dice: «non lo useremo, ma nel caso che dovesse svenire, le daremo qualcosa per aiutarla». Mentalmente penso con spavalderia che sicuramente non ne avrò bisogno «Stia tranquillo – aggiunge – la procedura è rapida, circa dieci minuti. È possibile che senta male quando il colonoscopio dovrà passare nelle curve dell’intestino, ma non si preoccupi, una volta superato le curve strette, il fastidio diminuirà rapidamente!» Dieci minuti – penso io – non sono poi tanti. Fossero anche il doppio, che sarà mai. Nessun accenno a sedarmi o dare dell’anestetico. Bene. Non ne avevo alcuna intenzione.
Da qualche sommaria, e volutamente non troppo approfondita lettura su internet, ho ricavato qualche nozione elementare sul mio intestino e sulla procedura. L’entrata sarà ovviamente l’ano anche se, a rigore, sarebbe un’uscita. Una volta entrati si incontra un primo tratto, il retto, che poi lascia il posto al colon vero e proprio, che sostanzialmente è fatto come due colonne e un architrave. La colonne si percorrono su e giù. Complessivamente il colon fa da cornice all’intestino tenue con tre segmenti: il primo (a sinistra) in salita, il secondo in orizzontale (appena sopra l’ombelico) che corre da sinistra a destra, e l’ultimo (a destra) in discesa. Ora, quanto detto non è del tutto vero perché è relativo, come del resto tutto nella vita, alla direzione in cui lo si percorre. Quindi la descrizione è relativa al colonoscopio, che dovrà entrare e percorrere il colon in senso contrario rispetto a quello delle feci. Questi lunghi tratti rettilinei sono uniti da snodi, detti flessure, che sono la parte più difficile da superare, ma niente di impossibile.
Cercando di non pensare troppo a quanto sia difficile per un tubo fare una curva ad angolo retto (la famosa flessura), rimango disteso sul fianco sinistro e aspetto con fiducia. Sono tranquillo. Dopo un paio di minuti arriva la dottoressa e un altro infermiere. Ci salutiamo. Mi chiede come mai ho richiesto una colonoscopia e se è la prima volta. Le racconto del mio dolore durante gli ultimi mesi e le confermo di non aver mai fatto questo esame. Con entusiasmo le assicuro di avere seguito scrupolosamente la preparazione. Non reagisce… forse mi aspettavo qualche conferma del mio impegno e mi i vergogno un po’ di avere avuto aspettative da scolaretto diligente. Non mi vergogno affatto del mio corpo seminudo invece. Se devo essere sincero, mi sento come quando porto l’auto a riparare e, posta sul carroponte, il mezzo viene mostrato nei suoi ingranaggi e meccanismi, normalmente nascosti quando si guida. Anche il mio corpo ha i suoi meccanismi, le sue fonti di energia e i suoi prodotti di scarico e non ho motivo di essere in imbarazzo più di quanto debba essere imbarazzato a mostrare la marmitta o l’albero a canne della mia automobile.
Mentre finiscono di preparare gli strumenti, la dottoressa nota uno dei miei tatuaggi, quello sull’avambraccio sinistro e mi chiede che significato abbia. Le accenno che sono un filosofo e che quel tatuaggio è una specie di riassunto della mia teoria, ma non abbiamo tempo per approfondire. Ormai tutto è pronto, i famosi “dieci minuti” stanno per avere inizio. La scena è dominata davanti a me e alla dottoressa da uno grande schermo piatto che mostra le immagini proveniente dalla piccola camera al termine del tubo del colonoscopio, in pratica un occhio artificiale che entrerà nel mio intestino e che ci permetterà di guardare dentro il corpo, come un lungo verme (non piatto) di circa un metro e mezzo. Al momento, il “verme” è arrotolato, l’occhio si trova sopra un vassoio sterile e sullo schermo si vede una immagine monotona, ma sono sicuro che presto lo schermo mostrerà qualcosa di più interessante. Il verme, mi viene spiegato, non ha solo un occhio, ma, a seconda delle esigenze, anche una bocca fatta da vari strumenti come una pinza, un bisturi, un piccolo cappio per rimuovere eventuali polipi. Speriamo bene. Respiro profondamente e aspetto. Ancora qualche momento e si comincia.
-->In fondo, rimugino, il nostro corpo filogeneticamente è ancora un verme arrotolato dentro il nostro addome e torace e dotato di un esoscheletro che gli permette di manipolare il mondo attraverso gli arti. Ovviamente so che, relativamente al corpo, il nostro sarebbe un endoscheletro, ma relativamente al tubo faringe-stomaco-intestino, rimane fuori e l’anellide primordiale è ancora dentro il nostro corpo che ingurgita, assimila, scarta ed espelle. Siamo vermi, in fondo. Guardo l’endoscopio con il suo occhio. Non siamo così diversi.
Sono interrotto dalle mie riflessioni dalla dottoressa o dall’infermiere (non vedo girato come sono) che applica abbondante e benvenuto lubrificante per rendere il tutto più agevole.
«Si rilassi» mi sento dire e mi chiedo chi mai riesca a seguire questa indicazione.
La dottoressa si accinge a inserire lo strumento. Le immagini sullo schermo mostrano un ingrandimento impietoso delle mie natiche. In un attimo la soglia è superata e le immagini sullo schermo non mostrano più un corpo umano, ma l’interno di un verme costellato di fasce muscolare. Qualcosa a metà tra l’interno dell’astronave Nostromo concepita dalle fantasie di H. Giger alla balena di Pinocchio. Ouch!
La dottoressa si concede una battuta
«E adesso ha inizio il viaggio meraviglioso dentro Riccardo Manzotti»
Ma la frase invece mi colpisce di più del colonoscopio nell’ano.
«E no! Non dentro Riccardo Manzotti – non posso fare a meno di obiettare – dentro il corpo di Riccardo Manzotti, semmai»
La dottoressa sembra interessata e, senza interrompere di manovrare con perizia lo strumento, controribatte,
«ma se non è il suo corpo, che cosa è Riccardo Manzotti?»
«Dottoressa, lei dice “io ho un corpo” o “io sono un corpo”?»
Sento un momento di esitazione, non so se dovuto alla domanda o al fatto di dover manovrare il colonoscopio attraverso il passaggio tra l’ultima parte dell’intestino, il retto, e l’inizio del Colon. Prima curva pericolosa.
«In effetti ha ragione, dico “ho un corpo” e quindi?»
«Quindi se lei ha un corpo e non è un corpo … ouch – a questo punto credo che il colonoscopio avesse iniziato il primo tratto del Colon vero e proprio, il tratto in salita – lei e il corpo siete due entità distinte»
«Ammettiamolo pure, ma se è così, allora che cosa è lei? Uno spirito?»
Avverto contemporaneamente la risalita del colonoscopio (e lo vedo nello schermo gigante) e l’insidia nella domanda. Non sento molto fastidio e quindi mi concentro sulla seconda.
«lo so che voi dottori siete fissati con il corpo perché lo avete sempre fra le mani – mi chiedo se sia il momento adatto per polemizzare con la categoria – ma guardi che io non credo nell’anima, sono un filosofo completamente fisicalista, cioè per me tutto è fisico»
La dottoressa manipola ancora la pistola del colonoscopio e borbotta qualcosa che non capisco se sia una obiezione ontologica o un’indicazione per l’infermiere. Allora mi permetto di continuare.
«Quando lei pensa alla sua esperienza, che cosa trova? Gli organi che ha studiato e che cura tutti i giorni, oppure le cose che ha intorno a sé? Questo schermo? La finestra? Le nuvole? Gli strumenti?»
«Un attimo di pazienza, che superiamo il punto difficile»
Mi chiedo se intende il problema difficile (l’hard problem di Chalmers) o il prossimo snodo? Quello tra il colon in salita e il colon orizzontale? Prima curva pericolosa! Ouch! Ouch! Era il secondo. Perdo per un attimo il filo del discorso e ansimo (poco dignitosamente devo ammettere). Fa male! Ma che cosa è il dolore se si è sicuri che non fa male? E poi è un dolore mai provato prima. Una sensazione nuova. Un qualia originale. Gemo ancora, ma sono affascinato.
«Stia tranquillo, cerchi di rilassarsi il più possibile! Siamo passati – conferma ottimista la dottoressa – stiamo andando come dei treni.»
Sono moderatamente tranquillizzato dall’informazione.
«Quanto alla sua domanda, le do ragione, non trovo quasi mai il corpo, ma il mondo esterno. La mia casa, le altre persone, il cielo, le nuvole. Ma questo che significa?»
«Questo significa che lei non è né uno spirito né un corpo, lei è il mondo» riesco a dire tra un gemito e l’altro. A questo punto devo confessare con imbarazzo che comincio ad avere un calo di pressione e la mia forza argomentativa ne risente un pochino.
Sullo schermo le immagini mostrano una rosea galleria apparentemente infinita che si perde in una oscurità minacciosa. Ammetto di essere piacevolmente sorpreso da quello che vede. Le pareti interne del mio colon sono lisce e omogenee. Sembra la pelle di un bambino. Mai avrei pensato di avere un colon esteticamente così piacevole. La pressione però sta calando.
Siamo in fondo al tratto rettilineo. Come in una montagna russa dobbiamo affrontare l’ultima discesa, preceduta dall’ultima flessura. Altra curva pericolosa. Sudo leggermente. Altro punto doloroso, anche se non lo definirei esattamente come un dolore preciso. La sensazione è forte. Sento che l’infermiere dice alla dottoressa che potrei svenire. Proprio io! Che smacco! Mi collegano a una flebo con una soluzione diluita di atropina (credo).
La dottoressa mi appoggia una mano sulla fronte e mi dice gentilmente,
«Tranquillo, è stato bravissimo. Siamo in fondo. Adesso non sentirà più niente e tornando indietro eliminiamo un piccolo polipo che abbiamo trovato»
La sensazione di svenimento sparisce rapidamente grazie alla atropina. Lascio che la dottoressa completi la procedura e rimuova il polipo. Preferisco non impegnarla in questioni metafisiche. Piano piano il verme del colonoscopio si ritira ripercorrendo a ritroso il mio intestino e mostrandomi sullo schermo uno spettacolo affascinante. Archi rosati e superfici lisce. Anche il polipo sembra relativamente piccolo e non minaccioso. Uno strumento esce dalla bocca del verme colonoscopico e lo rimuove facilmente.
Mentre lo strumento continua la sua ritirata, ripresomi dal momentaneo mancamento, rifletto sulla situazione. Il colon che vedo sullo schermo è un oggetto tanto come i bisturi che vedono sul tavolino di fianco. Vedere il colon sullo schermo è un altro modo per percepirlo. Averlo sentito direttamente nel momento in cui il colonoscopio superava le flessura, seppure spiacevole, è stato un altro modo per percepirlo attraverso la resistenza meccanica che esercitava nei confronti di un corpo estraneo. Due modi diversi per lo stesso oggetto, il colon, di essere percepito da me: come immagine rosata o come insieme di resistenze meccaniche. Nel secondo caso, il contatto era più intimo? Ero forse il mio colon quando sentivo il colonoscopio superare le flessure? No. O, per lo meno, non da un punto di vista fenomenologico. E il fatto che io avessi un’istintiva di avversione per lasciare che un oggetto percorresse il mio colon non implica affatto che io sia il mio colon. Anzi, devo dire che sia la caverna organica che vedo sullo schermo che il movimento dentro il mio intestino non sono affatto me. Io non sono loro. Sono cose che sono parte del mondo che vedo.
Il punto che mi sentivo di fare, e che avrei voluto ribadire alla dottoressa, era che tra me e il mio corpo non c’era una relazione più intima di quella che c’era tra me e il tavolo o tra me e il mio corpo visto attraverso l’occhio del colonoscopio. Infatti, vedere la flessura colica sinistra sullo schermo era sicuramente qualcosa di inusuale, ma non diverso dal percepire la flessura colica contrarsi intorno al colonoscopio. Anzi, anche la seconda sensazione era sicuramente qualcosa di altrettanto inusuale per me, dato che nessuno oggetto aveva mai risalito il mio intestino!
È chiaro che se io assumo che il corpo sia io, quello che accade dentro il corpo accade dentro di me. Ma non sentivo affatto le cose in questo modo. Il fatto che la dottoressa e l’infermiere fossero in condizioni di controllare e manipolare il mio corpo, sia attraverso l’atropina somministrata che attraverso strumenti meccanici come il colonoscopio, diminuivano con chiarezza la presunta associazione tra il mio corpo e me. Io restavo indiscutibilmente io, mentre il mio corpo veniva aperto, tagliato, visualizzato, sistemato, aggiustato.
La possibilità di accedere al corpo lo rendeva molto simile al caso, cui avevo pensato all’inizio, della mia automobile sul carroponte del meccanica. Mentre il colonoscopio era ormai quasi completamente fuoriuscito, il mio corpo era diventato proprio come gli altri oggetti nella stanza; un oggetto fra gli oggetti; un oggetto che, per i famosi “dieci minuti” (in realtà con il mio mezzo svenimento e con la rimozione del polipo erano diventati una mezz’ora), era stato gestito e, di fatto, posseduto dal personale medico di Volterra.
Ovviamente il corpo è il primo oggetto che incontro, ma proprio per questo è trasparente, quando tutto va bene. Di solito l’occhio non si vede, il naso non si odora, la lingua non si gusta. E meno male. Ma quando qualcosa va male, ecco che vediamo il giallo del cristallino, il muco nelle narici, il corpo estraneo nel colon. Sono casi in cui il corpo diventa oggetto e non solo condizione di esistenza.
Ecco, lo strumento è finito. La dottoressa mi dice che sono stato molto bravo e io mi chiedo se lo dice a tutti. Mi dice di aspettare qualche minuto prima di alzarmi e poi di poter andare a rivestirmi. La ringrazio.
Prima di salutarmi e di andare nell’ambulatorio di fianco per ripetere la stessa procedura, si ferma un attimo e mi chiede:
«Ma se siamo gli oggetti che percepiamo, allora oggi le ho fatto percepire il suo intestino e oggi è stato il suo intestino? Ho capito bene? È questo che dice il suo tatuaggio?»
La guardo con interesse. Pensavo che avesse parlato con me solo per mettermi a mio agio e sopportare meglio la procedura. E, per di più, ha proprio ragione. Ha compreso la mia ipotesi meglio di me.
«Ha ragione! Oggi sono stato il mio intestino!»
Riflette un attimo e poi, con un sorriso, scivola nell’altro ambulatorio. Resto solo sul lettino. Aspetto qualche minuto, poi mi alzo e vado a rivestirmi. Per quanto il mio colon fosse bello, oggi voglio essere Volterra, le balze, il cielo della Toscana. Io sono il mondo, non il mio corpo. Io non sono il mio colon, io sono nuvola.
Spero vivamente che Vincenzo Tagliasco (ovunque egli sia e se ciò in qualche modo fosse possibile) non possa mai avere coscienza di quanto scritto in questo articolo. Ma forse, se ciò avvenisse, dopo aver serrato le mascelle per il disagio, si lascerebbe andare a una amara e fragorosa risata e lascerebbe che il tempo seppellisca anche questo.