J.R.R. Tolkien e le donne



I personaggi femminili nei testi di Tolkien sono pochi, ma importanti e ben lontani dai consueti cliché letterari e di genere.


In copertina: Ernesto Treccani, Volto, Asta Pananti 14 Giugno 

Questo testo è un estratto da “Il fabbro di Oxford” di Wu Ming 4, ringraziamo Eterea per la gentile concessione


di Wu Ming 4

Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere.

Christa Wolf, Cassandra – 1983

 

Complementarietà

L’importanza dei personaggi femminili nel legendarium tolkieniano è inversamente proporzionale al loro numero. Le donne sono poche ma buone. Basti pensare ai due romanzi pubblicati in vita da Tolkien, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Nel primo non compaiono personaggi femminili, tutt’al più sono evocati; nel secondo i personaggi femminili, per quanto siano importanti e pesino molto sulla vicenda, sono pochi e non sono protagonisti della storia. La Compagnia dell’Anello è formata esclusivamente da maschi. Ci si è interrogati a lungo sui motivi di questa scelta. Si potrebbe attribuire alla formazione dell’autore: Tolkien era nato in epoca vittoriana e aveva ricevuto un’educazione conservatrice, di conseguenza la sua letteratura rispecchierebbe una visione del mondo fortemente maschilista. Personalmente credo piuttosto che i motivi di questa scelta siano letterari, cioè dovuti al fatto che i modelli a cui Tolkien si è ispirato e che ha tradotto in una narrativa moderna sono quelli della letteratura medievale, quindi il romance cavalleresco, i poemi e le saghe nordiche, che hanno quasi sempre protagonisti maschili.

Prima di prendere in esame la costruzione dei personaggi femminili da parte di Tolkien, occorre mettere a fuoco un motivo portante nella sua narrativa, che riguarda precisamente la relazione tra i due generi. È il tema della complementarietà, presente già nella cosmogonia tolkieniana, benché essa si ispiri al modello patriarcale ebraico-cristiano. C’è un Creatore, Eru Ilúvatar, che significa “il solo, padre di tutto”, e ci sono le sue emanazioni, gli Ainur, gli angeli, alcuni dei quali, dopo avere partecipato attraverso la grande musica alla creazione del mondo, decidono di stabilirvisi. Ebbene, quando gli Ainur si stabiliscono nel mondo acquisiscono un genere. In realtà ci viene detto che ce l’hanno già in potenza, ma nel mondo si esprime anche nell’aspetto di Valar e Valiër, che corrispondono a grandi linee a quello che potrebbe essere un pantheon pagano. Infatti viene detto nel Silmarillion che gli uomini li chiamano anche “déi”. Ognuno e ognuna di loro ha un proprio ambito di pertinenza, ma sulla base di una suddivisione in coppie. Soltanto due di loro restano single, per così dire, Ulmo e Nienna, ma guarda caso sono un maschio e una femmina anch’essi, quindi la simmetria viene rispettata. Tutti gli altri formano coppie, la più importante delle quali è composta da Manwë e Varda, due divinità celesti. Manwë è al vertice del pantheon, è quello tra i Valar che ha un filo diretto con Ilúvatar, ma sempre nel Silmarillion viene detto che soltanto quando è insieme alla sua compagna Varda raggiunge il massimo della sua potenza. Chi invece è senza dubbio spaiato è l’angelo caduto, il corrispettivo di Lucifero nella mitologia ebraica, cioè Melkor, e così il suo attendente, Sauron, che è un Maia. I Maiar sono angeli di grado minore rispetto ai Valar, e anch’essi sono maschi e femmine, anche se non ci viene detto quanti siano e solo di alcuni ci viene detto il nome. Dunque i “cattivi” nel mondo immaginario tolkieniano sono entrambi maschi e non rispondono al principio di complementarietà tra i generi. Questo principio agisce anche dentro ciascun singolo personaggio – a prescindere dal suo essere maschio o femmina – nel quale deve esserci un equilibrio tra gli aspetti che vengono convenzionalmente definiti maschili e quelli che vengono convenzionalmente definiti femminili. L’equilibrio è dato dal compensarsi vicendevole tra l’attitudine all’azzardo, all’uso della forza e dell’ingegno, da un lato, e la saggezza, la riflessione, la cura, dall’altro. Attitudine maschile e attitudine femminile devono fare in egual misura parte del carattere dei personaggi affinché essi si rivelino positivi e riescano a perseguire il bene. Quando questo equilibrio non c’è i personaggi falliscono, cedono al male.

Maschile vs femminile

Per dimostrare il funzionamento di questo principio si possono fare alcuni esempi di personaggi maschili, prima di arrivare a parlare di quelli femminili. Si potrebbe partire da un Elfo piuttosto famoso, Fëanor, il creatore dei gioielli noti come Silmaril, il quale si innamora della propria creazione, del frutto della propria arte. Fëanor è un grande artista, ha un estro artigiano tanto sviluppato almeno quanto piccola e repressa è la sua componente femminile, e quando il prodotto della sua arte gli viene sottratto da Melkor, che ruba i Silmaril e li porta nella Terra di Mezzo, Fëanor è ossessionato dall’idea di recuperarli. È disposto a tutto per riuscirci, anche a violare il divieto dei Valar e a imporre la propria volontà sugli altri, perfino a commettere fratricidio. Fëanor avrebbe una controparte in sua moglie, Nerdanel, che è detta “la Saggia”, e che vorrebbe trattenerlo, ma la voce femminile accanto a lui non trova sponda nel lato femminile dentro di lui, perché quest’ultimo è stato completamente soffocato. Quindi Fëanor guida una rivolta contro i Valar, aggredisce gli Elfi Teleri per ottenerne le navi e raggiungere la Terra di Mezzo. La moglie non lo seguirà in questa impresa. Il vincolo coniugale non può imporle di seguire il marito se non ne condivide le azioni e le intenzioni. E nella Terra di Mezzo Fëanor incontrerà la propria nemesi, coinvolgendo perfino i figli in una guerra disastrosa contro Melkor. Un altro esempio piuttosto esplicito è l’Elfo Thingol, il padre di Lúthien, sul quale torneremo più avanti. Thingol è il tipico padre padrone che vuole decidere il destino della figlia. Anche lui avrebbe nella moglie Melian una controparte saggia, ma non l’ascolta, e come Fëanor farà una brutta fine, guarda caso per una vicenda legata a gioielli di grande valore. Si potrebbe citare anche Aldarion, uno dei re di Númenor, detto il Marinaio, la cui ossessione è appunto quella di viaggiare per mare. I suoi viaggi durano anni, è incapace di restare fermo, quasi si trovasse meglio sull’acqua che sulla terra ferma. Sua moglie Erendis è esattamente l’opposto, è legata alla terra e vuole piantare radici. In questo caso però l’opposizione non produce complementarietà, perché marito e moglie non si vengono incontro a mezza via, bensì ciascuno dei due rimane arroccato in difesa del proprio essere, quindi il loro rapporto rimane privo di equilibrio. La figlia della coppia viene cresciuta dalla madre in una sorta di gineceo, tenuta lontana dagli uomini, a causa della profonda delusione di Erendis verso il genere maschile. Poi il padre torna dai suoi viaggi e porta via di forza la figlia, perché intende stabilire una discendenza femminile nel regno e metterla sul trono, per poi costringerla a sposare un uomo che non ama. È una storia tragica per tutti, piena di sofferenza e senza consolazione alcuna.

Infine, si potrebbe ricordare una coppia antitetica di personaggi maschili che esemplificano perfettamente l’equilibrio e il disequilibrio di maschile e femminile nel proprio animo. Vale a dire Bilbo Baggins e Thorin Scudodiquercia. Thorin, principe dei Nani, ha sulle spalle tutto il peso del patriarcato. Il suo nome compare in una discendenza maschile: Thorin figlio di Thráin figlio di Thrór. È questo albero genealogico patriarcale a imporgli di tornare a essere Re sotto la Montagna e a spingerlo verso le proprie ossessioni. Non ci sono donne intorno a lui e la componente femminile del suo carattere è totalmente repressa. Bilbo, al contrario, ha un padre assai poco noto, e una madre invece “famosa” (anche se non sappiamo perché). Sua madre Belladonna ha fatto parlare di sé in qualche modo, ed era una Took, cioè parte di una famiglia stravagante. C’è una strana inversione dei ruoli, a dimostrazione del fatto che la componente maschile e femminile non è legata necessariamente al genere. Il padre di Bilbo era un conformista, mentre la madre era più intraprendente, l’avventura di Bilbo corrisponderà a una crescita personale che lo porterà a trovare un parziale equilibrio tra le due eredità. Un ulteriore esempio di coppia antitetica in questo senso sono i fratelli Boromir e Faramir, orfani di madre. Il primogenito Boromir è il favorito del padre, e per lui l’universo femminile non esiste. La sua vita è fatta di battaglie, difesa della terra patria, messa alla prova del proprio valore guerriero. Faramir ha invece un lato femminile molto sviluppato, che non fa di lui un combattente meno valente, ma senz’altro più riflessivo e saggio; è un intellettuale. Boromir cede alla tentazione dell’Anello e cerca di toglierlo a Frodo, mentre Faramir resiste e addirittura decide di lasciare andare liberi Frodo e Sam con l’Anello. Faramir rappresenta un buon equilibrio tra maschile e femminile ed è uno dei personaggi positivi del Signore degli Anelli, di quelli che erediteranno la terra, per usare un’immagine evangelica.

Galadriel

Veniamo ora agli esempi di personaggi femminili, per i quali l’equilibrio tra le due componenti è altrettanto significativo, evidentemente. Galadriel è senza dubbio uno dei personaggi femminili più importanti nel Signore degli Anelli. Il nome Galadriel, riferito alla lucentezza dei suoi capelli, non è quello originario. Il nome paterno è Artanis, che significa “nobile donna”, mentre quello materno è Nerwen, cioè “ragazza-uomo”. Pare che il motivo di questo nome fosse la sua alta statura, nonché il suo carattere forte, che le consentiva di competere sia con gli atleti sia con i saggi. Quindi Galadriel ha in sé ben radicate le due componenti maschile e femminile. Il racconto ci dice che è bella, ma di una bellezza particolare, cioè «pericolosamente bella». Il pericolo in questione è rappresentato dalla sua capacità di comprendere la mente altrui. Galadriel legge l’animo degli altri, capisce quali sono le pulsioni o le ossessioni delle persone che si trova davanti. A questa capacità empatica, che potremmo ascrivere al femminile, aggiunge un’intraprendenza tipicamente maschile. Infatti quello che lei desidera più di ogni altra cosa è l’indipendenza, vivere senza tutela di sorta. In questo consiste anche il suo peccato d’orgoglio, dato che la libertà assoluta è una pretesa utopistica. Galadriel è disposta a tutto per essere libera, tanto da sfruttare l’occasione della rivolta di Fëanor per lasciare Valinor e raggiungere la Terra di Mezzo. E quando – dopo la rovinosa guerra mossa da Fëanor nella Terra di Mezzo e il cataclisma prodotto dall’intervento dei Valar per castigare Melkor – ci sarà una sorta di indulto per i ribelli, con la possibilità di tornare indietro, Galadriel per orgoglio rifiuterà e sceglierà di restare nella Terra di Mezzo. Tornerà a Valinor soltanto dopo avere resistito alla tentazione dell’Anello, quando Frodo glielo offre. Nel frattempo Galadriel costituisce il proprio regno nel Bosco d’Oro, Lórien, che guarda caso verrà definito «bello e pericoloso», a sua immagine e somiglianza.

L’accostamento tra bellezza e pericolosità proviene evidentemente dalla letteratura medievale. La regina degli elfi o delle fate, la Faerie Queen, è sempre portatrice di una bellezza ambigua, sottilmente minacciosa. Gli studiosi dell’opera di Tolkien hanno scovato alcuni possibili riferimenti medievali per la figura di Galadriel. C’è una ballata scozzese, che si intitola Thomas the Rymer, che ha anche una versione romance-cavalleresca, Sir Thomas of Erceldoune, e racconta la vicenda di un poeta scozzese e del suo incontro con la Regina degli elfi, la quale gli dona la capacità profetica. La capacità di preveggenza è associata anche a Galadriel, in effetti, nell’episodio dello Specchio. C’è anche un altro poema cavalleresco del tardo XIV secolo, Sir Launfal, che racconta la storia di un cavaliere arturiano meno famoso degli altri, il quale ha una storia d’amore con una dama fatata, la figlia del Re di Faerie. Lei gli dona degli oggetti magici, proprio come Galadriel darà ai membri della Compagnia dell’Anello oggetti indispensabili per portare a termine la loro missione. La differenza con le opere medievali sta nel fatto che in quei casi c’è un elemento di erotismo che in Galadriel non si riscontra. Galadriel è sposata con Celeborn, e non flirta con altri personaggi, benché vi sia un’evidente traccia d’amor cortese nel rapporto di devozione che il nano Gimli instaura con lei. Ma soprattutto c’è una figura alla quale il personaggio di Galadriel sembra essere debitore, e cioè la Fata Morgana, o Morgan Le Fay, che è bella e pericolosa per antonomasia, ed è la rivale del re sacro Artù, nonché sua sorella. Morgana è la maga che inganna i cavalieri arturiani, spesso traendoli nella foresta, scenario del mondo rovesciato. Galvano, nel celebre poema Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che Tolkien aveva studiato a lungo, viene ingannato da Morgana, appunto. Un’eco di questa figura è riscontrabile nella fama negativa che ha Galadriel. Soprattutto a Gondor girano delle voci sul suo conto. Vermilinguo la definirà «la Strega del Bosco d’Oro»; Faramir la chiamerà «Maestra di Magia del Bosco d’Oro», e si dice anche che pochi sono tornati immutati dal suo reame.

Tolkien ha tenuto presenti questi elementi, ma li ha anche rimessi in gioco in un personaggio diverso, molto più complesso. In cosa consiste la pericolosità di Galadriel? Galadriel non è una strega, non è un’ingannatrice, non è nemmeno un’Eva tentatrice. Il pericolo che si corre incontrandola è che lei legga i più reconditi desideri e timori dell’animo umano: «Non so se sia pericolosa», disse Sam. «Mi ha colpito il fatto che la gente porta con sé il proprio pericolo. E poi lo ritrova a Lórien. Perché se l’è portato dietro. Ma forse la si potrebbe definire pericolosa perché è talmente forte in se stessa. Ci si potrebbe infrangere e distruggere contro di lei come una nave contro una roccia e annegarvi come un hobbit in un fiume. Ma né la roccia né il fiume sarebbero da biasimare». Non c’è biasimo. Non c’è misoginia. È il cavaliere che entra nel bosco a portare il pericolo con sé, ovvero dentro di sé, non già la fata che lo minaccia. Questo è un grosso cambiamento rispetto al tema medievale di partenza; infatti quando Galadriel e Celeborn accolgono la Compagnia, lei passa in rassegna tutti i compagni e legge l’animo di ciascuno, e ognuno di loro, sentendosi esposto, avrà un certo pudore a parlare di questa cosa. Va da sé che Galadriel non è in alcun modo sottomessa al marito. La prima volta che compare zittisce Celeborn che sta rimproverando l’operato di Gandalf per la sua decisione di passare attraverso Moria; Galadriel dice al marito che al posto di Gandalf lui avrebbe fatto la stessa cosa. Non è nemmeno casuale che sia lei a stabilire un rapporto con Gimli, rompendo l’atavica diffidenza tra Nani ed Elfi. Dal punto di vista diplomatico sopravanza decisamente il marito, tanto che l’ha perfino preceduto a Lórien attraversando Moria, cioè una città dei Nani. Ed è lei ad avere al dito l’Anello Bianco, Nenya: il forgiatore degli anelli, Celebrimbor, glielo ha dato in custodia. E a lei Frodo offre l’Unico Anello, dicendole: «Sei saggia, e intrepida, e bella, Dama Galadriel», laddove “bella” traduce il termine fair, che qui andrebbe inteso nella sua doppia accezione – intraducibile in italiano – che associa la bellezza alla giustizia, la grazia all’equità, qualcosa di simile al concetto greco classico di kalòs kai agathòs.

Qual è la reazione di Galadriel davanti all’offerta di Frodo? Una risata. Galadriel ride davanti all’ironia della sorte: è venuta nella Terra di Mezzo per costruire un proprio regno indipendente, e adesso le viene offerto molto di più; ora potrebbe diventare davvero una regina «bella e terribile come la Mattina e la Notte». Ma abbiamo visto che Galadriel è anche saggia, in lei gli aspetti maschili, come il desiderio di potere, sono controbilanciati da una saggezza femminile. Lei sa che come regina della Terra di Mezzo diverrebbe rapidamente una versione femminile di Sauron, quindi rifiuta l’offerta. Dopodiché, Galadriel si rende conto di ciò che ha fatto e le scappa nuovamente da ridere, perché il destino le risulta davvero beffardo, e dice: «Perderò i miei poteri, e me ne andrò all’Ovest, e rimarrò Galadriel». Galadriel dunque sceglie di restare se stessa e lo fa senza condizionamenti, in solitudine, nello spazio privato della propria coscienza. Esercitando correttamente il libero arbitrio dimostra anche uno spessore morale che è prerogativa soltanto delle personalità migliori dell’epopea dell’Anello. Siamo già molto lontani dai modelli medievali: qui vediamo all’opera l’ingegno narrativo di Tolkien e la sua capacità di mettere i propri personaggi davanti al dilemma, alla scelta, che li rende eticamente grandi.

Ernesto Treccani, Volto

Éowyn

Un altro personaggio femminile del Signore degli Anelli di cui è necessario parlare è Éowyn. Quando appare la prima volta, Éowyn non è bella e pericolosa, bensì «bella e fredda». Del resto, sarà una donna guerriera, e celerà la propria identità sotto il nome di Derhelm, che in antico inglese significa “protettore nascosto”, che è in effetti il ruolo che lei avrà nei confronti dello hobbit Merry e di re Théoden, suo zio.

In questo caso Tolkien ha potuto attingere a una quantità di fonti. Già nei poemi omerici e nell’Eneide compaiono donne guerriere; nel ciclo della guerra di Troia troviamo la vergine Pentesilea, regina delle Amazzoni che combatte insieme ai Troiani contro gli Achei, e muore in battaglia uccisa da Achille. Una versione di questa leggenda è davvero truculenta, perché vuole che Achille, togliendo l’elmo a Pentesilea dopo averla uccisa, si innamori istantaneamente di lei e addirittura compia un atto di necrofilia. Nell’Eneide compare una figura analoga, l’amazzone Camilla, che combatte contro i profughi Troiani; anche lei viene uccisa sul campo. Nell’antichità la figura dell’amazzone crea un problema, incarna l’irriducibilità all’ordine patriarcale che può essere domata solo con la morte. Anche nella letteratura nordica compaiono figure di donne guerriere, le famose shieldmaiden, a loro volta legate al mito delle Valchirie. Non è chiaro se nelle spedizioni vichinghe le donne partecipassero davvero alle incursioni armate o se si trattasse piuttosto di una proiezione letteraria, ma certo è che la Valchiria occupa un posto di rilievo nella letteratura germanico-scandinava. La Valchiria più famosa è senz’altro Brunilde; in certe versioni è una Valchiria di Odino, in altre, come nella Saga dei Nibelunghi, è la regina guerriera d’Islanda, ma sempre di vergine guerriera si tratta. Il suo destino è essere ingannata dall’eroe maschile Sigurd/Sigfrido, il quale la raggira per mandarla in sposa a un re che lei non vorrebbe mai come marito. Anche in questo contesto si tratta di ricondurre la vergine guerriera dentro il ruolo canonico di moglie. La riscrittura di Tolkien, La Leggenda di Sigurd e Gudrún, rispetta questo canone; benché infatti tra i due personaggi nasca un amore, alla fine lui la inganna. Di conseguenza, Brunilde farà in modo che lui venga ucciso e infine si suiciderà; dunque anche qui, come nel mondo classico, il risultato finale è la morte della donna guerriera. Spostandoci avanti, fino alla seconda metà del XIII secolo, troviamo un poema scritto in antico francese da Heldris di Cornovaglia, che si intitola Il romanzo di Silence. Si tratta in buona sostanza di un episodio di quello che forse oggi chiameremmo transgenderismo. L’antefatto è un editto del re che vieta alle figlie femmine la possibilità di ereditare; per salvaguardare l’unità del patrimonio famigliare, i genitori di Silence, figlia unica, decidono di celare il suo sesso e di crescerla come un maschio. Crescendo, Silence acquisisce la consapevolezza della libertà di cui gode: le è stato costruito attorno il genere, quindi può vestirsi da guerriero e combattere, può vestirsi da giullare e recitare, cose che una ragazza non potrebbe mai fare. Si distingue anche come cavaliere «coraggioso, prode e valente / né re né conte ne genererà uno migliore».

L’unica cosa che le resta preclusa è l’amore, evidentemente, benché sia concupita: sia le donne sia gli uomini sono attratti da lei, rispettivamente dal suo lato maschile e dal suo lato femminile. Silence crea scompiglio, crea disordine tra i generi; la morale medievale esige quindi che venga smascherata (niente meno che dal mago Merlino), e che indossi i panni femminili che le si addicono. Alla fine la manderanno in sposa a un re anziano, bisognoso di discendenza. Si legge nel poema che «Natura / aveva recuperato i suoi diritti. / Natura cominciò a rifinire / tutto il corpo e a togliere / qualsiasi traccia maschile»16. Silence deve recuperare il posto che le si addice nella società patriarcale, che è quello di moglie e fattrice di figli; in cambio, il re ristabilisce l’ereditarietà femminile. Avvicinandoci ancora un po’ nel tempo, troviamo la Bradamante dell’Orlando Furioso, che combatte per amore di Ruggero: qui si tratta dell’amore tra una donna guerriera e un cavaliere. Dopodiché si può citare Britormart in The Faerie Queen di Spenser, che è un personaggio allegoria della castità o perfino un’allegoria storica della regina Elisabetta I, detta appunto la Regina Vergine. Infine, Clorinda della Gerusalemme Liberata, che è addirittura un capitano militare dell’esercito islamico. L’amore tra lei e il crociato Tancredi finisce tragicamente, quando si affrontano in duello all’ultimo sangue con le rispettive identità celate dall’elmo, e alla fine lui la uccide, per poi scoprire che si tratta della sua innamorata. Nella letteratura antica e medievale, quindi, esistono due opzioni per le vergini guerriere: venire ricondotte nel ruolo che la società patriarcale ha riservato alle donne, oppure morire. La letteratura, per altro, trova conferma nel celeberrimo precedente storico di Giovanna D’Arco: la Pulzella d’Orléans viene messa al rogo per eresia, cioè per la sua pretesa di interpretare la parola di Dio nei panni della profetessa armata. Ma durante il processo e nell’abiura che gli inquisitori le fanno firmare viene detto chiaramente che un suo grande peccato è stato quello di vestirsi da uomo, di impugnare le armi, di disobbedire ai genitori. Giovanna deve promettere di non vestirsi mai più da uomo, di non tagliarsi più i capelli corti, di mantenere l’aspetto che l’identità di genere e la famiglia le impongono. Il medioevo, sia storicamente sia letterariamente, non è affatto indulgente con le eroine guerriere.

Nel personaggio di Éowyn, Tolkien sottrae l’eroina guerriera a questo esito scontato e la rende padrona del proprio destino. Tutto ciò che accade a Éowyn da un certo momento in poi è frutto delle sue scelte consapevoli: lei sceglie di vestire i panni maschili e di disobbedire all’ordine patriarcale, rappresentato dallo zio Théoden, dal fratello Éomer e da Aragorn, i quali le ribadiscono che il suo posto è alla reggia, non certo sul campo di battaglia. Come Éowyn decide di disobbedire a questo ordine, allo stesso modo deciderà in un secondo tempo di riacquistare l’identità femminile: entrambe le scelte corrispondono a prese di coscienza. Il caso di Éowyn è esattamente opposto a quello di Silence, alla quale le scelte di genere venivano imposte, prima dai genitori poi dal re. Tanto meno Éowyn viene raggirata o muore in battaglia, come le amazzoni o le guerriere che l’hanno preceduta nella letteratura antica e medievale. Al contrario, è lei che vince. Éowyn uccide il Capo dei Nazgûl, cioè il capitano dell’esercito nemico, un compito che solitamente spetterebbe a un eroe maschile. Ad aiutarla è Merry, uno hobbit, anch’egli lasciato indietro dai virili guerrieri. Fortunatamente questi due personaggi hanno disobbedito ai loro signori e si sono trovati nel posto giusto al momento giusto, così li vediamo fare quello che nella cultura tradizionale germanica dovevano fare gli housecarls, la scorta personale del sovrano, spesso composta da suoi consanguinei. Quando il sovrano cadeva in battaglia, il compito del suo casato era difenderne il cadavere a costo della propria stessa vita, come fecero i guerrieri di re Harold alla battaglia di Hastings, o quelli del conte Beorhtnoth alla battaglia di Maldon. Nel momento cruciale, a proteggere re Théoden caduto, c’è solo Éowyn, che si erge tra il Nazgûl e la sua preda. In questo modo l’eroina reinterpreta una profezia: il Capo degli Spettri dell’Anello gliela cita contro, dicendole che lui non può essere ucciso da un uomo vivente. Fino a quel momento la profezia è stata interpretata nel senso che non sarà un comune mortale a poterlo distruggere; potrebbe farlo forse un Elfo, un Maia, o addirittura un Valar. Éowyn dà invece la propria rilettura della profezia, che è una lettura di genere. Si toglie l’elmo, mostra il proprio volto, e dice: «Ma io non sono un uomo vivente. Stai guardando una donna», e con l’aiuto di Merry, che non è un uomo nemmeno lui, ma un mezzuomo, riesce a uccidere il nemico. In sostanza, Éowyn rivendica la propria appartenenza di genere mentre fa quello che dovrebbero fare i virili guerrieri germanici, ai quali i Rohirrim sono ispirati: in questo modo si produce un risultato fondamentale per le sorti della battaglia e dell’intera guerra.

C’è poi un secondo elemento di cui il personaggio si fa carico: si tratta di un giudizio negativo sull’amore cavalleresco come amore sbagliato. Nella lunga discussione con Faramir presso le Case di Guarigione, che porterà quest’ultimo a innamorarsi di lei, emerge un giudizio sul sentimento che Éowyn aveva provato in precedenza nei confronti di Aragorn. Questo viene paragonato all’amore di un soldato per il proprio capitano, che non è l’amore giusto, o meglio, è un «amore frainteso», perché non si accompagna al desiderio di amarsi e vivere insieme, bensì di morire insieme, fianco a fianco in battaglia. È quindi un amore disperato. Faramir fa riflettere Éowyn proprio su questo: l’amore giusto è invece vitale, proiettato verso il futuro. La presa di coscienza finale di Éowyn, infatti, la spinge a rientrare nei panni femminili della Dama di Rohan, disinteressandosi ai canti di guerra e alle uccisioni, e senza più voler rivaleggiare in questo con gli uomini. Éowyn dice di non volere più essere una shieldmaiden, ma di voler diventare una «guaritrice», occupandosi di «tutto ciò che cresce e non è arido». Infine aggiunge: «Non desidero più essere una regina». È una scelta che riecheggia quella di Galadriel – la rinuncia al potere, in nome di una pars construens – ma anche il pensiero dello stesso Faramir, che non ama la guerra e preferisce la cultura. L’unione tra i due non sarà altro che la conseguenza diretta della presa di coscienza e della scelta di Éowyn.

Shelob

Occorre ricordare anche l’unico personaggio femminile negativo del Signore degli Anelli, vale a dire il ragno Shelob, che è appunto femmina.

Gli orchi parlano di lei appellandola «Her Ladyship» e nutrono nei suoi confronti un timore reverenziale alternativo a quello per Sauron. Questo si spiega con il fatto che Shelob non è suddita di Sauron, è indipendente, come gli altri personaggi femminili del romanzo. Ha un tacito accordo con l’Oscuro Sire: lui le lascia presidiare un’entrata secondaria a Mordor, dove lei ogni tanto cattura qualche orco per mangiarselo, e indirettamente fornisce un servizio di sorveglianza. È un tipo di alleanza molto diverso da quello che cerca di instaurare lo stregone corrotto Saruman: in quel caso si tratta di un’alleanza politica, di tipo opportunistico, mentre l’alleanza tra Sauron e Shelob è primitiva, elementare. Shelob incarna il volto ferale del femminile, è il mostro ctonio rintanato e pronto a ghermire; nonostante sia una creatura primitiva, è però anche molto intelligente, ancorché la sua sia un’intelligenza malvagia, come quella delle streghe delle favole. Si tratta probabilmente del personaggio più immediatamente spaventoso e raccapricciante del romanzo.

Arwen

Arwen è forse il più positivo tra i personaggi femminili. Benché nel corpus del romanzo abbia uno spazio esiguo – con rammarico dello stesso Tolkien, che avendo scelto di raccontare la storia dalla prospettiva degli hobbit non aveva potuto inserire la storia d’amore tra Arwen e Aragorn nella trama – la sua vicenda è raccontata lungamente nelle Appendici. Senza queste, il personaggio di Arwen potrebbe ricordare la principessa che attende il cavaliere vittorioso di ritorno dalla sua missione e pronto a sposarla; in realtà Arwen è un personaggio tragico: è infatti protagonista di un sacrificio d’amore, che comporta un prezzo molto alto da pagare. Se la storia d’amore tra Arwen e Aragorn cita quella tra l’Elfa Lúthien e l’Uomo Beren, c’è tuttavia almeno una differenza, e cioè che il padre di Arwen, Elrond, non ostacola l’amore tra lei e Aragorn, nonostante questi sia un uomo mortale. Elrond è un personaggio molto più equilibrato di Thingol, e rispetta il libero arbitrio, affermando: «Quando partirò ella mi accompagnerà, se tale sarà la sua scelta». Ovviamente, non vorrebbe separarsi dalla figlia né che lei andasse incontro a questo destino, ma la lascia libera di scegliere.

E lei compie una scelta radicale, quella di un amore mortale, finito, in cambio dell’immortalità nelle terre beate. Infatti, alla veneranda età di centoventi anni Aragorn morirà e lei rimarrà sola, lasciandosi poi morire volontariamente, per consunzione. Dopo la morte del marito, Arwen lascia tutti, incluso il figlio Eldarion, di cui sappiamo pochissimo. Eldarion ha preso dal padre o dalla madre? È mortale o no? Non è escluso che uno dei motivi per cui Arwen decida di andare a morire nei boschi di Lórien sia che nessuna madre vorrebbe sopravvivere al proprio figlio, dopo essere già sopravvissuta al marito. Arwen dunque si reca in una Lórien svuotata, e si lascia morire; ma il suo sacrificio non è inutile, perché il suo posto sull’ultima nave elfica in partenza dai Porti Grigi viene ceduto a Frodo. I commentatori confessionalisti che vedono in Frodo una imago Christi, per via dell’ascesa al Monte Fato con un pesante fardello, dovrebbero forse considerare che nel romanzo è invece Arwen il personaggio che compie il vero sacrificio d’amore.

Lúthien

La storia di Arwen e Aragorn cita quella di Beren e Lúthien, come si è detto. C’è un momento nel Signore degli Anelli nel quale Aragorn canta la canzone di Beren e Lúthien, rendendo ancor più evidente il legame tra le due coppie di innamorati. Lúthien però non ha la fortuna di avere un padre “moderno”, cioè rispettoso del libero arbitrio della figlia: re Thingol è innanzitutto profondamente razzista nei confronti degli uomini mortali. Quando Beren si presenta al suo cospetto per chiedergli la mano della figlia, Thingol lo tratta malissimo, e irride le sue pretese di povero mortale di congiungersi con un’Elfa; Beren però gli risponde a tono, non si fa umiliare. Alla fine Thingol, dimostrando una certa crudeltà, gli impone una prova d’amore per avere in sposa Lúthien: portargli un Silmaril dalla corona di Melkor. Gli affida insomma una missione impossibile. Lúthien, lungi dal restare segregata in attesa che l’eroico Beren torni dall’impresa, decide di aiutarlo, di avere un ruolo attivo. Per farlo, evade dalla prigione arborea dove il padre padrone l’ha reclusa, grazie al potere che custodisce nei capelli. Questi infatti possono sia mimetizzarla nella notte, sia indurre un sonno pesantissimo nei malcapitati che lei decide di rendere inoffensivi. In seguito viene però catturata dai figli di Fëanor, Celegorm e Curufin, due tipi poco raccomandabili che la concupiscono, arrivando perfino a ipotizzare di ricattare il padre di lei, Thingol, per costringerlo a darla in sposa a uno di loro, in cambio dell’incolumità della ragazza. Il loro obiettivo ovviamente è acquisire potere tramite il matrimonio; e così Lúthien è costretta per la seconda volta a evadere dalla prigione in cui il potere maschile la vuole costringere. Lo fa con l’aiuto del cane Huan, proveniente da Valinor, e insieme vanno a cercare di liberare Beren, che nel frattempo è stato catturato nientemeno che da Sauron. Lúthien quindi lo affronta: lei è uno dei pochissimi personaggi delle storie di Tolkien che fronteggia direttamente il Maia malvagio; insieme a Huan, lo sconfigge. Non è Beren a sconfiggere il cattivo, ma lei, l’eroina femminile. Successivamente, quando Beren si prende una freccia al posto di Lúthien, scoccata da uno dei figli di Fëanor, lei dovrà guarirlo «con le sue arti e il suo amore», si legge nel Silmarillion. Dunque Lúthien è anche guaritrice, una capacità che risuonerà nella scelta finale di Éowyn.

A questo punto Beren e Lúthien dovranno compiere il primo di due viaggi agli inferi. Nella mitologia, nella letteratura antica e in quella medievale, il viaggio agli inferi è una tipica impresa maschile, compiuta da Orfeo, Ulisse, Enea, Dante… Il primo viaggio agli inferi è nella fortezza di Melkor ad Angband. Per accedere alla fortezza inferica – sprofondata in mezzo alle montagne – i due si travestono, indossando le carcasse di due mostri: un lupo e un vampiro. Ancora una volta è lei che con il suo canto riesce ad addormentare il lupo guardiano Carcharoth, così da introdursi alla corte di Melkor. Beren rimane travestito da lupo; Lúthien invece si toglie il travestimento e mostra la propria bellezza: Melkor, vedendola, sente nascere pensieri lascivi e se ne invaghisce. Dunque Lúthien sfrutta la propria bellezza per fare abbassare la guardia al cattivo, poi comincia a cantare e col suo canto soporifero addormenta lui e tutti i presenti. A quel punto Beren, con una certa facilità stacca il gioiello Silmaril dalla corona di Melkor, e i due possono scappare. Ma nel frattempo il lupo guardiano si è svegliato, quindi attacca Beren, con un morso gli stacca la mano nella quale tiene il Silmaril e la ingoia. Il Silmaril gli brucia lo stomaco e lo fa impazzire: Carcharoth fugge seminando morte e distruzione.

Beren e Lúthien tornano quindi alla corte di Thingol, e quando il re chiede a Beren se gli ha portato il Silmaril, l’uomo mostra il moncherino e risponde: «In questa mia mano c’è un Silmaril»; la mano, come sappiamo, è nella pancia del lupo. Davanti a questo anche Thingol ha un moto di compassione e acconsente all’unione tra i due innamorati. Rimane tuttavia il problema di fermare la bestia impazzita; viene quindi organizzata una battuta di caccia, alla quale partecipa anche Beren. Il lupo viene ucciso, ma Beren rimane ferito mortalmente; ne consegue che Lúthien deve compiere un secondo viaggio inferico. Assistiamo qui al ribaltamento del mito di Orfeo ed Euridice: nel mito classico, Orfeo va agli Inferi per recuperare la moglie morta Euridice e col suo canto commuove Ade e Proserpina, che gli danno il permesso di riportare in vita la donna, a condizione che non si volti a guardarla mentre la guida verso la superficie. Purtroppo, quando la sente incespicare lui, per apprensione, si volta e così la perde per sempre. Già nel medioevo c’era stata una riscrittura di questo mito con un lieto fine: nel Sir Orfeo, poema che Tolkien aveva tradotto in inglese contemporaneo, il protagonista riesce a salvare la moglie Euridis e a riportarla con sé alla vita. Ancora però venivano confermati i ruoli classici: l’eroe maschile era il salvatore. Tolkien ribalta questo rapporto: è Lúthien che va nelle aule di Mandos e con il suo canto commuove i Valar, convincendoli a darle una possibilità. I Valar infatti le offrono una scelta: restare nelle Terre Beate per sempre, dimenticando tutte le sue fatiche e i suoi affanni; oppure tornare indietro con Beren, e vivere insieme a lui il tempo di una vita mortale. Lúthien sceglie la seconda opzione e i due vivranno una vita separata dalle vicende della Terra di Mezzo, ma avranno una discendenza, che include lo stesso Elrond, e quindi Arwen. Ciò che rende questo personaggio femminile davvero originale e unico nel legendarium tolkieniano, è il suo modo di interpretare l’eroismo. Lúthien compie imprese che sono tradizionalmente maschili, ma non lo fa usando mezzi o panni maschili: il suo eroismo è propriamente femminile, non ha bisogno di mimare quello dei maschi. Lúthien non impugna la spada, ma usa la propria arte canora, la capacità di guaritrice, la magia dei capelli, il travestimento, l’ingegno, perfino la propria carica erotica e la seduzione. Mescola abilmente doti maschili e femminili senza bisogno di rinunciare alla propria connotazione di genere. In questo modo si colloca molto lontano dai modelli di donna riscontrabili nella letteratura medievale.

Ancora una volta, studiando da vicino i suoi personaggi femminili, ci si rende conto di come Tolkien muova dai modelli leggendari e letterari medievali e li citi non già per riproporli identici, in nome di chissà quale rimpianto, bensì per modificarli e attualizzarli. Se fosse soltanto un autore mimetico e imitativo sarebbe un autore mediocre e probabilmente non saremmo nemmeno qui a parlare di lui; la narrativa di Tolkien invece è una narrativa contemporanea di nome e di fatto. Rendere giustizia all’immagine di questo autore significa presentarlo come uno capace di prendere la tradizione letteraria e plasmarla con grande disinvoltura e spirito assolutamente moderno.

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