Kant credeva agli extraterrestri?



Cosa c’è di più bello e sublime della Terra vista dal cielo? Un pensiero del genere deve aver attraversato anche la mente eccelsa di Immanuel Kant, che alle forme di vita extraterrestri dedicò pagine tanto enigmatiche quanto evocative. 


In copertina: Burgenland, Neusidlersee (A guide through Austria for extraterrestrial beings No. 7), di Christian Attersee

Questo testo è estratto da Kant e gli extraterrestri di Peter Szendy. Ringraziamo l’autore e LUISS University Press per la gentile concessione.


di Peter Szendy

Kant, come molti filosofi prima di lui, credeva nell’esistenza della vita extraterrestre intelligente. Una forma di vita superiore a quella che noi umani conosciamo sulla Terra. A partire da una delle sue prime opere (Storia universale della natura e teoria del cielo, scritta nel 1755 all’età di ventun’anni) fino a una delle ultime (Antropologia dal punto di vista pragmatico, pubblicata nel 1798, ossia sei anni prima della morte), Kant, pur non facendone, all’apparenza, uno dei temi principali della sua filosofia, avrebbe regolarmente invocato nel suo pensiero gli abitanti di altri pianeti, invitandoli più e più volte a partecipare nel suo discorso. Nella terza parte della sua Teoria del cielo, afferma: “Sono dell’opinione che non sia affatto necessario credere che tutti i pianeti debbano essere abitati, anche se sarebbe assurdo negarlo per tutti o per la maggior parte di essi”. Si tratta di una “congettura” (è la parola che usa Kant); senza affermare o negare, il filosofo si chiede: perché non dovrebbe esserci vita intelligente o ragionevole (dotata di ragione) altrove, e non solo sulla Terra?

Perché no? È la stessa domanda che avrebbe definito il tono generale della celebre opera di Fontenelle, le Conversazioni sulla pluralità dei mondi (la cui prima edizione è apparsa nel 1686, quasi sessant’anni prima della Teoria del cielo di Kant). Ed è proprio un moto di entusiasmo, nella forma di un perché no?, a trascinare il narratore del dialogo di Fontenelle in una sorta di infervorata dichiarazione d’esistenza della vita cosmica universale di fronte alla Marchesa, sua interlocutrice piuttosto scettica: “La Luna, secondo ogni evidenza, sarebbe abitata: perché non dovrebbe esserlo anche Venere?” “Ma” lo interruppe la Marchesa “a furia di ripetere perché no? non finirete forse per porre degli abitanti su ogni singolo pianeta?”. “Non ne dubitate,” risposi “questo perché no? possiede una virtù in grado di popolare ogni luogo”.

E, allora, perché no? Sia chiaro: ciò che si delinea, ciò che si innesta in questa forma di interrogazione negativa, è lo spazio di una finzione che non detta solo il tono leggero e giocoso di testi come le Conversazioni, ma che si spinge fino a infestare anche le opere filosofiche dal più alto rigore formale, come vedremo nel caso della Critica del giudizio e di altri scritti di Kant.

Questo spazio è l’elemento originario di ciò che chiamerò filosofinzione (allo stesso modo in cui la fantascienza gioca con finzioni di natura scientifica).

*

Nell’ultima opera che Kant, con l’aiuto degli appunti presi dagli uditori delle sue lezioni, scrisse e pubblicò in vita, l’Antropologia dal punto di vista pragmatico, la questione filosofica della vita extraterrestre ritorna in maniera eclatante, insistente. La seconda parte, dedicata alla Caratteristica antropologica, cioè al “modo di conoscere l’interno dell’uomo dal suo esterno”, tratta in successione le caratteristiche della “persona”, del “sesso”, del “popolo” e della “razza”, per concludersi con il “carattere della specie”. Ora, in relazione a quest’ultima, Kant ammette, in una certa misura, l’impotenza dell’antropologia quale discorso sull’uomo: come possiamo sapere, dice, cosa caratterizza la specie umana nella sua specificità, cioè cosa la differenzia dalle altre specie, se queste ultime rimangono inaccessibili alla nostra esperienza, inconoscibili? Così, parlando dell’“essere terrestre dotato di ragione”, Kant lo dichiara impossibile da caratterizzare, condannato a rimanere indefinito o indeterminato:

[Non] potremmo determinar[ne] i caratteri perché non abbiamo nessuna conoscenza di esseri razionali non-terrestri, quindi non saremmo in grado di determinarne le proprietà e di caratterizzare mediante esse la specie degli esseri terrestri rispetto agli altri esseri razionali in generale. Sembra quindi che il problema della determinazione del carattere distintivo della specie umana sia del tutto insolubile, perché richiederebbe il confron-to di due specie di esseri razionali mediante l’esperienza, il che è impossibile.

In assenza di qualsiasi esperienza o conoscenza possibile della vita extraterrestre, i Terreni sono incomparabili. Tuttavia, quando vogliono pensarsi come esseri ragionevoli, questi stessi Terreni, Kant in primis, non smettono mai di fare riferimento a un termine comparativo, per quanto irrappresentabile possa essere.

Certo, in assenza di una caratterizzazione comparativa, alla quale la sua antropologia pare rinunciare a malincuore, Kant in un primo momento sembra rassegnarsi a definire il “carattere della specie” in maniera intrinseca; accettando cioè di non poter prendere le distanze dalla Terra, e arrendendosi di conseguenza alla necessità di rimanervi, e di rimanervi insieme:

Il carattere della specie, quale si rivela nell’esperienza di tutti tempi e in tutti i popoli, è questo: collettivamente presa (come il tutto del genere umano) questa specie è una massa di persone esistenti le une accanto alle altre e le une dopo le altre che non possono fare a meno di una coesistenza pacifica, ma che tuttavia non possono evitare di essere costantemente avverse le une alle altre; di conseguenza esse si sentono destinate per natura a costituire […] una coalizione che è sotto la costante minaccia di sciogliersi, ma che, in linea di massima, progredisce verso una società civile universale (cosmopolitismus).

Cosmopoliti, cittadini del cosmo quali siamo, rimarremo comunque Terreni, condannati a condividere la Terra. Ed è sempre sulla Terra che dovremo risolvere la questione che riguarda la specie umana – impossibile da caratterizzare se non come una massa di Terreni condannati a coesistere gli uni con gli altri –, e cioè se debba “considerarsi una razza buona o cattiva”.

Kant sembra quindi deciso a giudicarci, noi Terreni, in maniera intraterrestre; tuttavia lo trova molto difficile, anzi, potremmo quasi dire che non riesce a rinunciare del tutto al paragone extraterrestre, nonostante lo abbia appena definito impossibile. Già quando parla del genere umano come “razza” è costretto, strutturalmente, a porla in relazione a un’al-tra specie, per quanto sconosciuta: il “genere umano”, scrive, lo si può definire “razza se lo si assume come una specie di esseri terrestri ragionevoli, in paragone con gli abitanti di altri pianeti”. La comparazione, che Kant era stato costretto a scartare qualche pagina prima, ricompare dunque quasi subito. Ritorna, contro ogni previsione: gli extraterrestri tornano e torneranno ancora.

Ricompaiono. Questi abitanti di altri mondi ricompaiono un’ultima volta, nell’Antropologia, là dove in conclusione Kant prende in esame la “fisionomia morale della nostra specie”. Kant scrive – e sono quasi le ultime parole dell’opera:

La dissimulazione parziale dei propri pensieri, che ogni uomo avveduto trova necessaria, rivela abbastanza chiaramente che nella nostra razza tutti ritengono saggio stare in guardia e non scoprirsi interamente; il che attesta la nostra tendenza a essere male intenzionati nei rapporti reciproci. Può darsi che in altri pianeti ci siano esseri ragionevoli che possono pensare solo a voce alta, cioè tali che, sia nella veglia sia nel sogno, sia in società sia isolati, non possano avere alcun pensiero senza esprimerlo. Se così fosse, quali differenze ci sarebbero fra la condotta reciproca di questi esseri e quella degli uomini?

In queste pagine conclusive dell’ultima opera di Kant sembra che il filosofo, per caratterizzare i Terreni, non possa fare a meno di rivolgersi ai soli cosmopoliti degni di questo nome: gli abitanti del cosmo, destinati dunque a tornare e a ritornare, nel momento in cui si inizia a considerare la specie umana da un certo punto di vista.

*

Kant credeva davvero agli extraterrestri? Ci credeva nel modo di chi, oggi, ritiene di essere stato testimone di apparizioni che preannunciano la venuta di questi abitanti di altri mondi? Kant non ha mancato di riportare qua e là le sue convinzioni. Possiamo inoltre trovare, a sua firma, dei passaggi che, letti distrattamente, potrebbero sembrare schizzi di un copione di fantascienza contemporanea. Per esempio, nella Critica del giudizio: Se qualcuno scoprisse una figura geometrica, per esempio un esagono regolare, disegnata sulla sabbia, in un paese che gli sembra disabitato, la sua riflessione, cercando di farsene un concetto

[…] non giudicherebbe come principio della possibilità della figura la sabbia, il mare vicino, i venti, o anche le impronte dei piedi degli animali, o qualunque altra causa priva di ragione.

Leggendo questo paragrafo potremmo pensare, per esempio, al film Signs (2003) di Night Shyamalan, in cui l’arrivo degli extraterrestri è annunciato, inizialmente, da immense figure geometriche tracciate nei campi di una provincia scarsamente popolata degli Stati Uniti (Bucks County, in Pennsylvania). Proprio come Kant che dinanzi all’ipotetico esagono regolare disegnato nel deserto sostiene che “la causalità di un simile effetto non [potrebbe] essere contenuta in alcuna causa del semplice meccanismo della natura”, e cioè che si tratterebbe del risultato di un “concetto che solo la ragione può dare”, allo stesso modo i personaggi di Shyamalan escludono, una dopo l’altra, le possibili cause naturali degli improbabili, enormi disegni che scoprono nelle piantagioni di mais: i figli del pastore Graham Hess (Mel Gibson), la figlia Bo e il figlio Morgan, svegliati nelle prime ore del mattino dall’abbaiare dei cani, pensano subito che “sia stato Dio” (I think God did it), cosa a cui il padre si rifiu- ta di credere; eppure, parlando con la rappresentante della polizia locale che ha appena chiamato, lui stesso dice: “Non può essere stato fatto a mano, è troppo preciso” (can’t be by hand, it’s too perfect). Viene esclusa anche l’ipotesi di un atto vandalico, e, quando le reti televisive di tutto il mondo iniziano a trasmettere le immagini di giganti disegni tracciati nei campi di grano (crop signs) su tutta la superficie terrestre, il sospetto di una possibile causa aliena diventa un’ossessione.

Ma, al di là di queste superficiali analogie tra Kant e la fantascienza contemporanea,10 e al di là delle opinioni dichiarate o meno del filosofo stesso, quella che ci attende è una domanda ben più radicale: non cercheremo di scoprire che cosa pensasse Kant, nel suo intimo, in merito all’esistenza della vita extraterrestre; cercheremo piuttosto di individuare la necessità di un certo perché no?, di una dimensione filosofinzionale a cui la filosofia non può sfuggire, a cui deve invece esporsi nel momento in cui voglia giudicare e riflettere sul giudizio. O meglio: quando deve confrontarsi con quello che chiamiamo punto di vista. Il narratore delle Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle annuncia esplicitamente che, nel futuro, esisteranno forme di “commercio tra la Terra e la Luna”, e alla Marchesa, ancora incredula, dice che “un giorno andremo fino alla Luna”.

Quanto a Kant, nella conclusione della sua Teoria del cielo, prefigurava, in modo più cautamente congetturale,11 se non una futura epoca di viaggi interstellari, almeno la possibilità di soggiornare in altri mondi dopo la morte:

L’anima immortale, per tutta l’infinità della sua vita futura, che nemmeno la tomba può interrompere, ma solo mutare, è forse destinata a rimanere legata per sempre a questo semplice punto dell’universo che è la Terra? […] Chissà se non è invece destinata a conoscere da vicino, un giorno, quelle lontane sfere dell’universo […]? Forse si stanno già formando nuove sfere del sistema planetario, destinate ad accoglierci in altri cieli quando il tempo assegnatoci per il nostro soggiorno sulla Terra sarà scaduto.12

In effetti, chi lo sa?

Perché no?

E quali sorprese ci potrebbe riservare l’esplorazione interplanetaria, da vivi o da morti? Quali forme di vita, alle quali poter infine paragonare una specie umana divenuta in tal modo paragonabile, incontreremo?

Se negli scritti successivi alla svolta critica Kant si impone (non senza difficoltà) di non varcare la soglia della libera speculazione sugli abitanti di mondi diversi, qui, in questo testo cosiddetto giovanile o precritico, egli si imbarca in un tentativo ragionato di classificazione delle modalità di esistenza e di pensiero extraterrestri:

Il corpo degli abitanti di Giove sarà costituito di un materiale di gran lunga più leggero e fluido, così che l’azione molto limitata che il Sole può esercitare a questa distanza potrà fornire macchine dal potere motorio tanto potente quanto quello delle zone inferiori. Tutto ciò può essere espresso ora in un univoco concetto generale: il materiale di cui sono formati gli abitanti dei diversi pia-neti, e anche gli animali e le piante che si trovano su di essi, deve in generale essere tanto più leggero e sottile – così come l’elasticità delle fibre e la conformazione dei corpi saranno tanto più perfetti – quanto maggiore è la distanza dei pianeti dal Sole. […] La perfezione del mondo spirituale, come quella del mondo materiale, cresce e progredisce gradualmente nei pianeti, in proporzione alla distanza dal Sole, da Mercurio a Saturno, o forse anche oltre.

In questa libera speculazione etnocosmologica sembra che Kant non si preoccupi ancora in modo eccessivo di regolare criticamente la dimensione finzionale insita nella sua filosofia. Nonostante l’ammonimento posto all’inizio della terza parte della sua Teoria del cielo (“ritengo che usare la filosofia per sostenere, con una certa leggerezza, le esagerazioni solo verosimili del proprio ingegno significhi diffamarne il carattere”), prevale quella che lui stesso chiama la “libertà d’invenzione”. E prevale a beneficio di un piacere che, come dichiara in sordina la conclusione, pare essere di natura estetica:

È lecito, anzi è conveniente dilettarsi con simili pensieri […]. In realtà, quando si è nutrito il proprio animo con osservazioni di questo genere, uno sguardo al cielo stellato, in una notte chiara, dà quel piacere di cui solo le anime nobili sono capaci. Nel silenzio universale della natura, nella quiete dei sensi, la nascosta facoltà di conoscere dello spirito immortale parla una lingua indicibile e suscita pensieri non sviluppati fino in fondo, che si sentono bene, ma non si lasciano descrivere.

Non è possibile leggere queste righe, che chiudono la Teoria del cielo, senza vedervi un’anticipazione di alcuni passaggi della Critica del giudizio, su cui torneremo più avanti. Ma soprattutto, la speculazione agisce come se – sì, come se – la prospettiva geografica e temporale, in ogni caso pienamente terrena, del progresso umano fosse proiettata nel cosmo ed estesa allo spazio cosmico. Poiché sono il Terreno e la sua Terra che, nella scala kantiana degli esseri viventi cosmici, si trovano nel mezzo, nel punto medio o mediano. Un punto che certamente non è più il centro, come negli antichi sistemi cosmologici dell’epoca antecedente alle scoperte di Newton e Copernico, ma che tuttavia ne conserva alcune caratteristiche.

La natura umana, che nella scala degli esseri occupa per così dire il gradino di mezzo, si trova a uguale distanza dai due limiti estremi della perfezione. Se l’idea di una classe sublime di creature razionali che abitano Giove o Saturno suscita inevitabilmente l’invidia dell’uomo e la consapevolezza della propria inferiorità l’umilia, può però consolarlo e dargli qualche conforto uno sguardo sul grado più basso delle creature che abitano Venere e Mercurio, le quali sono poste molto al di sotto della perfezione umana. Che incredibile spettacolo si aprirebbe a quello sguardo! Da un lato vedremmo delle creature pensanti, rispetto alle quali un groenlandese o un ottentotto si sentirebbe un Newton; dall’altro vedremmo delle creature che guardano Newton come si guarda una scimmia.

Qui l’aspetto importante non è tanto la semplice espansione o amplificazione cosmica di un’antropologia e di una geografia geocentriche, che fanno corrispondere l’Europa di Newton a Giove e le etnie primitive a Mercurio. In questo senso, la narrativa extraterrestre non è propriamente equiparabile alle Lettere persiane di Montesquieu, o a qualsiasi altro caso in cui si ricorra all’artificio dell’esotismo per meglio parlare, sotto le finzionali spoglie di un laggiù, di ciò che accade quaggiù, dove ci troviamo noi. Poiché la filosofinzione della Teoria del cielo – che, come vedremo, sopravvive, addolcita, negli scritti successivi di Kant – sembra doversi necessariamente estendere oltre l’esperienza possibile: non semplicemente verso l’altro, ma piuttosto verso il tutt’altro.

*

Questo antropogeocentrismo, che, in segreto, continua a governare il discorso cosmologico di Kant, nonostante il costante riferimento al sistema newtoniano e nonostante l’affermazione della superiorità della vita sui pianeti più lontani dal Sole; questo privilegio, accordato nonostante tutto alla Terra e ai suoi abitanti proprio nel momento in cui sarebbe necessario prenderne le distanze, era già presente nell’opera di Fontenelle. Anche nelle Conversazioni sulla pluralità dei mondi, infatti, era insito un etnocentrismo europeo che, esteso alla dimensione dell’universo, dettava la logica delle speculazioni sulle caratteristiche degli abitanti di altri pianeti. Così la Marchesa poteva dire, riferendosi ai venusiani, più vicini al Sole:

Assomigliano ai mori grenadini, un piccolo popolo nero, bruciato dal sole, pieno di spirito e di fuoco, sempre innamorato, che fa versi, ama la musica, inventa ogni giorno feste, balli e tornei. E il narratore aggiunge: “Permettetemi di dirvi, Madame,” risposi “che voi non conoscete molto bene gli abitanti di Venere. Rispetto a loro i nostri mori grenadini non sarebbero che dei lapponi o dei groenlandesi in quanto a freddezza e stupidità. Ma che dire degli abitanti di Mercurio? Sono due volte più vicini al Sole di noi. Devono essere pazzi per la loro vivacità. Credo che non abbiano memoria, come la maggior parte dei neri, che non pensino mai a nulla, che agiscano solo d’istinto”.

Come nella Teoria del cielo di Kant, il sistema solare è qui una sorta di specchio delle caratteristiche etnogeografiche e razziali vigenti sulla Terra. Tanto che, in queste filosofinzioni cosmiche e spesso comiche (si è tentati di ridere di fronte a un razzismo del genere, assiderante e siderale), sembra di assistere a un doppio movimento: da un lato, come abbiamo appena letto, l’extraterrestre, per quanto eccentrico, non può essere raffigurato o immaginato senza alcun legame con un’antropologia terrena; ma dall’altro, come abbiamo intravisto e come verificheremo ancora, senza indugiare oltre, i terrestri non possono vedersi come tali, come specie o razza ragionevole in seno all’universo, se non distaccandosi dal loro ancoraggio e retaggio planetario per avvicinarsi, almeno nell’immaginazione, al punto di vista del completamente-altro.


Peter Szendy Filosofo tra i più influenti in patria e non solo, è stato allievo di Jacques Derrida. Facendo ampio uso di fonti e strumenti provenienti dai più disparati ambiti del sapere e dell’arte, nei suoi lavori ha cercato incessantemente quel punto di vista alternativo che possa consentirci di decifrare il mondo. Kant e gli extraterrestri, tradotto oggi per la prima volta in italiano, è il suo lavoro più letto e amato

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