La bellezza come pressione sociale

Esiste una pressione sociale per aderire a un certo canone di bellezza, che il genere femminile subisce maggiormente. Perché? La risposta potrebbe essere nell’educazione.


 in copertina e nel testo, opere di Chiara Sorgato, in mostra fino al 25 settembre presso Pananti Atelier, Milano.

di Alessia Dulbecco

Lo scorso luglio si è tenuta la 74esima edizione del Festival del Cinema di Cannes. Come è facile immaginare, l’attenzione mediatica intorno all’evento è stata altissima: nel 2020 il Covid ne ha impedito la realizzazione e pertanto la kermesse era molto attesa sia dagli addetti ai lavori che dagli appassionati di cinema. Alla serata di inaugurazione c’era un’attrice che ha attirato l’attenzione di tutti: Andie Mcdowell. La star di Hollywood, 63 anni, si è presentata sul red carpet con i capelli del suo colore naturale, senza acconciature particolari e con un trucco appena accennato, che non occultava le rughe sul volto. Intervistata successivamente, l’attrice ha raccontato che la decisione è stata presa per caso, durante la pandemia: «non stavo più facendo la tinta ai capelli e si vedevano le radici, le mie figlie continuavano a dirmi che sembravo più “cazzuta”. L’idea mi è piaciuta, così li ho lasciati grigi e li adoro». In un’altra intervista Mcdowell ha dichiarato che i suoi agenti e produttori hanno accolto non senza perplessità la sua scelta, ma le loro ritrosie non hanno intaccato la sua decisione: «se lo fa George Clooney, perché io no?».

La domanda dell’attrice è interessante: sono molti gli attori che si mostrano serenamente con i capelli bianchi o grigi (da Harrison Ford a George Clooney, giusto per citarne un paio), eppure, per una donna è ancora una conquista. Successivamente all’apparizione di Mcdowell si sono moltiplicati, sui siti e le riviste di moda e bellezza, articoli dedicati ai “look con capelli naturali, per liberarsi dalla schiavitù della tinta”. L’attrice, come spesso capita, aveva inaugurato una moda.

Secondo Renee Engeln, docente di Psicologia di genere alla Northwestern University, l’ossessione per l’aspetto esteriore è una vera e propria malattia, che colpisce in misura preponderante le donne e ciò è causato dal bombardamento culturale che comincia fin dall’infanzia: «il 34% delle bambine di cinque anni si autoimpone delle limitazioni alimentari ogni tanto, il 28% vuole che il loro aspetto assomigli a quello delle donne viste in film e televisione». 

A scanso di equivoci voglio subito specificare che non parlerò delle caratteristiche di un canone estetico maschile e femminile, variabile poiché impastato di biologia e cultura, che determina un certo grado di attrattività: per quanto tutti i corpi siano degni di essere al mondo e di esprimersi liberamente, è probabile che quello di un uomo di altezza media ma di corporatura molto magra sia percepito come “meno attraente” rispetto a quello di un uomo di pari altezza ma muscoloso, con le spalle ampie e la vita più stretta. Si sente spesso giustificare questo genere di attrazione appellandosi a una presunta “normalità”: è normale che un corpo conformato in una certa maniera attragga di più di un altro, che non segue il medesimo canone estetico. Personalmente, credo sarebbe opportuno smettere di nascondersi dietro l’apparente oggettività del concetto di naturalità e imparare a osservare anche quanto determinate pressioni estetiche, indotte culturalmente, abbiano modificato il nostro sguardo sui corpi (interessante, ad esempio, è il lavoro di Amy Edman  Farrell che in Fat shame decostruisce lo stigma della grassofobia).

Ciò di cui invece vorrei parlare è il problema che sorge quando un corpo considerato meno attraente, quale che sia la ragione, inizia a subire aggressioni, critiche e altre forme di violenza, anche autoimposte, che lo portano a non sentirsi mai “abbastanza”. Una ricerca condotta del 2008 dall’Ofsted (l’agenzia inglese che si occupa della valutazione degli standard educativi nelle scuole) ha mostrato che la metà delle ragazze di 14 anni che frequentano le scuole nel Regno Unito definiscono il corpo la loro principale fonte di occupazione/preoccupazione. Chiunque subisce una pressione sociale per aderire ai modelli imposti dalla società, ma l’argomento su cui vorrei portare l’attenzione è in sostanza che il genere femminile subisce di media una pressione maggiore e che tale sollecitazione viene trasmessa attraverso l’educazione.

Nel 1973 Gianini Belotti scrive che un «maschio sarà considerato per ciò che sarà, una femmina per quello che darà». Ciò che intende dire è che, attraverso la trasmissione degli stereotipi di genere, alle bambine si insegna progressivamente a essere soggetti passivi e a esperire il proprio corpo in funzione dello sguardo altrui. Il concetto di male gaze viene messo a punto dalla critica femminista Laura Mulvey un paio di anni dopo, nel 1975, per definire tutte quelle narrazioni  filmiche in cui lo sguardo appare dominato dal piacere maschile. Attraverso ulteriori riflessioni il concetto progressivamente fuoriesce dall’ambito cinematografico: lo sguardo maschile non è predominate solo nelle pellicole cinematografiche ma anche nella vita reale. Scrive Jennifer Guerra ne Il corpo elettrico: «il mondo è a misura di maschio e noi donne sentiamo sempre la necessità di doverci di correggere (…). La nostra società è così ossessionata dall’immagine e dall’apparenza che ciò su cui sentiamo maggiore pressione è il nostro aspetto fisico». La pressione determina la costante ricerca di una perfezione pressoché impossibile da raggiungere, che a sua volta si tramuta in una forma di insoddisfazione normativa, un’infelicità tanto radicata nel genere femminile da diventare un elemento di definizione per le donne stesse: se non ti lamenti per la cellulite, i capelli opachi, la pelle lucida non sei una donna. 

Incarnare un’immagine perfetta da guardare è un passatempo niente affatto economico. Come ricorda Engeln, le donne – che continuano a subire profonde disparità salariali – investono molto più denaro degli uomini in queste pratiche, sostenendo più dell’85% delle spese per prodotti di bellezza. Oltre a non essere economico, manicure, massaggi e trucco occupano molto tempo: è sempre la psicologa a ricordare che, secondo una ricerca di mercato, le donne trascorrono in media due anni della loro vita a truccarsi. Il tempo non è solo quello delle estenuanti sedute nel salone di bellezza ma anche quello che ogni giorno viene dedicato prima alla scelta dell’outfit e al make up, e poi a monitorarne la tenuta. Guerra ci ricorda che l’habitual body monitoring – la tendenza a pensare in modo continuo e ossessivo al nostro corpo e ai suoi “difetti” – è una pratica che ricorre nel cervello femminile ogni trenta secondi. Essa non ha neppure bisogno di un pubblico: viene compiuto istintivamente, infatti, anche nella più totale solitudine. 

Se la “malattia della bellezza”, come la definisce Engeln,  è dispendiosa sotto ogni punto di vista e produce un senso di insoddisfazione che espone maggiormente le donne a disturbi quali ansia e depressione, viene da chiedersi come si possa guarire o, meglio ancora, come fare a non contrarre il morbo. Anche Emer O’Toole, docente alla Concordia University, prova a rispondere a queste domande. Nel suo volume Girls will be girls, a metà tra un memoir e un saggio, l’autrice ripercorre alcuni episodi della sua infanzia (la scuola, le lezioni e i saggi di danza, i brevi dialoghi con amici e conoscenti della madre) sottolineando come le interazioni nei suoi confronti fossero tutte caratterizzate da apprezzamenti, più o meno sinceri, sulla sua corporeità. Scrive: « (…) i continui commenti degli adulti in merito al mio aspetto fisico si erano insinuati dentro di me. Mi hanno insegnato ad apprezzare me stessa come gli altri sembravano apprezzarmi: sulla base del mio essere carina e femminile». 

Secondo l’autrice, gli atteggiamenti nei confronti dei corpi delle bambine e delle ragazze sono pervasivi e hanno lo scopo di sostenere quello che definisce schema di genere. Introdotto per la prima volta da Jean Piaget, il concetto di schema viene impiegato in psicologia per descrivere il quadro di convinzioni e idee sul mondo che ogni persona costruisce nel processo di sviluppo. Lo schema di genere, sostenuto da un’educazione binaria che suddivide gli ambiti di interesse e di conseguenza i contesti entro cui maschi e femmine possono muoversi sulla base della loro appartenenza biologica, insegna alle bambine gli standard di femminilità (e alla controparte quelli di mascolinità) che vengono acquisiti mediante un continuo addestramento incentrato sul prendersi cura del proprio aspetto, apparire cordiali e accomodanti. Nella lingua inglese tutto ciò si esprime anche nelle parole: handsome, aggettivo che viene impiegato per descrivere un uomo “bello”, è ricavato da handy, che rimanda a parole quali “adatto, intelligente”. Beautiful, al contrario, rimanda alle caratteristiche esornative che soddisfano i sensi e il piacere estetico. 

Per le bambine, la pressione estetica non si arresta con l’adolescenza, ma continua e si ripercuote in ogni aspetto della vita da adulte: essere impeccabili diventa una prerogativa costante se si vuole essere prese sul serio e riconosciute nella propria identità. Anche per questo è così difficile guarire da questa “malattia”, per rimanere nell’ambito della metafora suggerita da Engeln: la bellezza appare come l’unica forma di potere concessa alle donne, dalla quale discende la validazione del proprio ruolo e la stima di sé. Si tratta in realtà di un potere effimero, come ha messo in luce Naomi Wolf negli anni ’90, col suo Mito della bellezza. Il potere che le donne sperano di raggiungere attraverso l’adesione a impossibili standard estetici in realtà le rende simili a ornamenti e mentre lo fa le condanna a una presenza sullo sfondo. L’approvazione che questo potere fornisce non riguarda la persona in quanto tale, ma solo la sua esteriorità per questo è sempre passibile di destituzione.

Se guarire è difficile e dotarsi di un vaccino che ci difenda da questa malattia è praticamente impossibile, la via che resta è quella della sovversione. Modificare uno schema di genere, che si tramanda in modo pressoché inalterato da molte generazioni (cambiano le espressioni, ma a tutte le latitudini si insegna alle bambine ad essere carine) è una mossa difficile. Nel suo libro, O’ Toole prova a tratteggiare la strada. Riconoscere il genere come un dispositivo performativo, per citare Butler, significa essere consapevoli del fatto che esso non è espresso, ma generato dalle azioni che decidiamo di compiere. Nuovi comportamenti, che superano i confini del genere, possono pertanto stimolare un processo di cambiamento: «all’inizio aggiungeremo solo delle riserve allo schema esistente, ma un sovvertimento continuo delle aspettative implicite deve alla fine portare a una consapevolezza dei nostri pregiudizi». Questo processo non deve essere manicheo: l’obiettivo non è passare all’altro estremo, disinteressarsi del proprio corpo o della propria esteriorità, ma consiste al contrario nel «manipolare con consapevolezza i simboli dei nostri corpi». Sovvertire significa creare alternative alle modalità codificate che ci insegnano cosa significa essere femmine nella nostra società, non abbandonare un’idea di femminilità. Scrive, ancora, O’Toole: «quando rifletto su questo arrivo alla conclusione che sono contraria alla conformità che mi viene imposta: sono contraria a quella moda che rafforza un ideale oppressivo di bellezza e sostiene il sistema binario di genere». Giocare, mettere alla prova il maschile, il femminile e l’androgino creando nuove personali combinazioni può diventare, allora, un esercizio per sottrarsi all’uniformità: vero problema della bellezza che la società ha trasformato in malattia.


Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counsellor, lavora e scrive sui temi della violenza intrafamiliare e sugli stereotipi di genere, realizzando interventi formativi su queste tematiche per enti, associazioni e cooperative. Ha collaborato con numerosi Centri Antiviolenza.

 

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1 comment on “La bellezza come pressione sociale

  1. Ottimo articolo. Molto interessante e ben documentato.

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