L’idea di maternità è cambiata molto nel corso degli ultimi secoli, e lo stesso è accaduto negli ultimi anni. Conoscere questa storia ci aiuta a capire perché una “buona madre” non esiste, ma anche perché la parità tra i sessi e tra i ruoli genitoriali è fondamentale.
opere di Honoré Daumier, in copertina “The Burden”
di Alessia Dulbecco
Qualche anno fa il governo italiano aveva promosso una campagna per sensibilizzare le donne – soprattutto quelle come me: sulla trentina, istruite, in coppia ma senza figli/e – sull’importanza della natalità e sulla necessità di promuovere buone abitudini per contrastare la sterilità. Il manifesto dell’iniziativa ritraeva nella parte inferiore una donna che fumava una sigaretta, un uomo che consumava sostanze e, nella parte superiore, un gruppetto di donne e uomini sorridenti e in intimità: persone felici che avevano abbandonato il vizio, insomma, e quindi potevano procreare liberamente e in salute.
La campagna in favore del “fertility day”, promossa dall’allora Ministra Lorenzin, aveva scosso l’opinione pubblica tanto che molti avevano ironizzato per ribattere ai messaggi apparsi su manifesti, post di Facebook e Twitter. Se le donne non si affrettano a far figli, nonostante l’incessante ticchettio dell’orologio biologico suggerito dal governo, in molti casi è perché non vogliono o non possono in ragione di contratti e stipendi ridicoli, dimissioni firmate in bianco, assenza di tutele contrattuali. La maggior parte delle donne, in sostanza, riflette sulla possibilità di diventare madri in modo razionale, valutando i pro e i contro. I messaggi della campagna apparsi sui social, invece, cercavano di rievocare desiderio di diventare madri. “La bellezza non ha età, la fertilità si” è avvertimento chiaro: il tempo passa e il desiderio di maternità (l’istinto materno?) potrebbe bussare alla porta quando ormai è troppo tardi.
A ogni modo, la campagna ha riportato in primo piano un argomento interessante, la percezione sociale della maternità e della gravidanza. Per quanto oggi diventare madre non costituisca più un destino inevitabile, la pressione sociale resta fortissima grazie al mantenimento di un immaginario punitivo nei confronti delle donne che scelgono di tutelare la propria libertà individuale. Questa condanna, infatti, traspare non tanto rispetto alle donne che scelgono di non fare figli (il movimento Childfree, esploso degli ultimi anni, dimostra che vi è più tolleranza nei loro riguardi) ma soprattutto nei confronti delle donne che, pur scegliendo di fare un figlio, non si immolano totalmente sull’altare della maternità. Chi sostiene questa visione ritiene che l’amore materno – tratto distintivo di ogni donna – dovrebbe considerare il benessere del bambino come priorità assoluta rispetto al quale sacrificare ambizioni, desideri e libertà.
Queste sono considerate come “madri a metà”, perché non amano abbastanza i loro figli e non li mettono al primo posto; il loro comportamento appare come un’aberrazione e sono giudicate per le loro scelte. Si tratta di uno stereotipo duro a morire che può essere contestato solo osservando, storicamente, come è cambiata la percezione sociale della gravidanza e della maternità in relazione all’importanza conquistata dal figlio.
In questo senso ci viene in aiuto Elisabeth Badinter, filosofa e femminista francese che da anni si occupa di indagare questo fenomeno. La sua ricerca ha come oggetto in particolare la Francia dal ‘600 ad oggi ma, con le dovute cautele, è possibile estenderne i risultati anche ad altri paesi.
Alle origini della maternità
Qualche secolo fa, per una donna di qualsiasi estrazione sociale, fare figli era un destino ineluttabile. Con scarse possibilità contraccettive e con molti obblighi matrimoniali, l’atto di generare figli era considerato una necessità. Nei confronti dei bambini, però, non vi erano attenzioni – né igieniche né affettive – e infatti tantissimi morivano prima di aver compiuto un anno di età. Era consuetudine, tra le donne più povere o tra quelle che dovevano lavorare, fasciare il bambino con panni e tessuti che ne garantivano l’immobilità e la sicurezza a scapito della circolazione sanguigna e del ristagno delle feci, che provocava terribili ulcere sulla pelle del neonato. Queste fasciature inoltre assicuravano la possibilità di “appendere” letteralmente il bambino, affinché fosse protetto da possibili predatori (soprattutto nelle campagne).
-->Il disinteresse delle nobili nei confronti dei figli era motivato invece da precetti sociali: non era consuetudine prendersi cura dei bambini, allattare era indecoroso per le madri e curare i figli sconveniente per i padri (che facevano più fatica ad approcciare la donna da un punto di vista sessuale); per questo i figli passavano, appena nati, sotto la tutela delle balie. I più fortunati rimanevano presso il domicilio familiare, i più sfortunati venivano mandati fuori città – facendo viaggi terribili – per giungere a casa di altre donne che li avrebbero accuditi per circa cinque anni. Durante tutto questo periodo era inusuale che un genitore si recasse in visita: i più accorti si limitavano a mandare una lettera per chiederne notizie una volta l’anno. Madri e padri erano accumunati da una sorta di indifferenza verso i figli, necessaria anche per proteggersi psicologicamente dalle perdita alla quale non era raro andare incontro. La morte di un figlio era un evento triste ma non tragico.
La rivoluzione illuminista
Verso la fine del XVIII secolo il concetto di maternità subisce una specie di rivoluzione. La motivazione è anzitutto sociale: lo Stato deve contenere a qualsiasi prezzo l’emorragia di vite umane e per farlo si rivolge alle donne. Cambiano i precetti e le imposizioni: allattare e curarsi della prole non è più socialmente disdicevole: secondo la logica illuminista diventa, al contrario, l’unico modo affinché le donne possano guadagnare in salute, felicità e gloria. Il più autorevole rappresentante di questo cambio di paradigma è Rousseau: il modello fornito attraverso l’educazione di Sofia, futura moglie di Emilio, rappresenta il mezzo con cui indottrinare le donne a sviluppare nuove doti e ad accettare nuovi doveri.
Gli obblighi femminili cominciano nel momento in cui la donna è incinta, adottando un regime alimentare e uno stile di vita che non metta a rischio la gravidanza: la salute del nascituro appare la più grande preoccupazione dei genitori e la sua eventuale perdita diventa un avvenimento tragico. La madre è ora responsabile della sua salute e poi della sua educazione: deve allattarlo ed essere affettuosa. Non amare il proprio figlio diventa un crimine.
Le prime a dare ascolto a questa idea di gravidanza e maternità sono state le borghesi. Non povere ma neppure ricche o brillanti, vedevano in questa nuova funzione la possibilità di un’emancipazione sociale. Ai loro occhi, la maternità acquisisce la forza di un ideale e diventa gratificante: la donna che cura figli e marito dispensando loro attenzioni e affetto diventa il fulcro della vita domestica . Le donne aristocratiche – le prime ad allontanare da sé le incombenze della maternità – invece, sono state le ultime ad aderire al modello. Per quanto fosse facile per loro ascoltare questi precetti, hanno attuato una sostanziale resistenza ricercando quell’ideale di felicità e soddisfazione, tanto caro all’Illuminismo, altrove. Chi aderiva al nuovo modello lo faceva con riserva addossandosi così le ire di chi non riteneva possibile per una donna essere una brava madre se non abbracciando totalmente la logica del sacrificio: chi non ha dato tutto, in realtà, non ha dato nulla.
È dalla fine del XVIII secolo che si comincia a giudicare il modo delle donne di essere madri e questa tendenza persiste fino ai nostri giorni, quando il ruolo del bambino assume una centralità sempre più esclusiva.

Essere madri nel ‘900
Vari autori contribuiscono anche nel XIX secolo al mantenimento dei giudizi di valore nei confronti delle madri. Tra i più celebri Freud, che con le sue scoperte nel ramo della psicoanalisi teorizza l’evoluzione sessuale e psicologica delle donne distinguendo quella normale da quella patologica. Secondo lo psicoanalista, solo se la bambina compie una precisa evoluzione psicologica e sessuale positiva potrà diventare una buona madre. Sintetizzando, tale evoluzione si origina da un momento di “bisessualità comune”, in cui le femmine – analogamente ai maschi – ricercano attivamente la soddisfazione del piacere mediante la clitoride. Successivamente la bambina scopre la “castrazione”, sperimentando la differenza con l’altro sesso e “l’invidia del pene”. È questo momento il punto di svolta decisivo per la propria sessualità: la bambina abbandona la spinta alle pulsioni sessuali attive e muta l’oggetto del suo amore verso il padre. Il processo di crescita sana si conclude quando il desiderio del pene viene sublimato nel desiderio di maternità.
La psicoanalisi – anche attraverso le voci di alcuni allievi del medico austriaco – contribuisce a distinguere la maternità “buona” da quella “cattiva”. L’attenzione è sulla donna: la buona madre è colei che è dedita al figlio, si sacrifica per lui e lo fa con gioia. Secondo i principali esponenti della psicoanalisi, l’amore materno ha una base biologica, istintuale, e pertanto quasi tutte lo possono sperimentare; le madri che non attuano questo sacrificio di sé in funzione del figlio sono considerate aberrazioni, eccezioni alla norma.
Bisogna attendere la seconda metà del ‘900 per iniziare a mettere in discussione queste teorie. Il processo di cambiamento va di pari passo alla rivoluzione femminista, sessuale e culturale degli anni ’60. Le donne cominciano non solo a criticare queste teorie ma anche a prendere le distanze dalla maternità: la commercializzazione della pillola contraccettiva, l’ingresso nel mondo del lavoro, una migliore scolarizzazione, portano le donne a ricercare la propria soddisfazione personale altrove. La maternità assume il tratto di una scelta ponderata che va di pari passo con quella di rimanere attive in ambito lavorativo e sociale.
Nel giro di trent’anni, però, le cose cambiano ancora: complici le nuove scoperte in ambito perinatale, l’attenzione sul bambino e su ciò che dovrebbe essere naturale per lui torna a essere preminente. L’attenzione si sposta dalla madre al bambino, e di conseguenza le madri vengono nuovamente giudicate per le loro azioni.
Anni ’80: il ritorno alle tendenze naturaliste
La ricerca fetale fa la sua comparsa a partire dagli anni ’80 grazie allo sviluppo degli ultrasuoni e si concretizza negli anni ’90 in seguito all’avvento di tecnologie visive sempre più raffinate. Dopo secoli, è possibile esplorare la vita fetale e fare inferenze in merito alla relazione tra la madre e il futuro bambino. La possibilità di “vedere” il feto prima della nascita permette di stabilire nuove priorità: la madre è considerata responsabile del suo benessere e viene giudicata rispetto alla condotta che assume in gravidanza. Come ricorda Alessandra Piontelli – neurologa, psichiatra e pioniera della ricerca fetale – se negli anni ’60 le donne erano invitate ad assumere alcol o a fumare in gravidanza, “per rilassarsi”, trent’anni dopo un comportamento di questo tipo è aspramente criticato.
La relazione tra feto e donna è inversamente proporzionale: l’importanza del primo si conquista a danno dei diritti della seconda. La rilevanza concessa al feto – che traspare anche attraverso le nuove associazioni pro-life finalizzate a tutelarne la vita – riporta in auge il concetto, sviluppato negli anni ’70 dai due pediatri Kennel e Klaus, di bonding, con cui si indica la relazione affettiva che i genitori stabiliscono con il bambino appena nato. Tale legame, che secondo gli autori si instaura mediante fattori comportamentali, sensoriali e ormonali, comincia in realtà prima della nascita, fin dalla gestazione, ed è per questo che la principale responsabile è la donna. Una volta nato, è sempre la donna la principale responsabile del bonding, in particolare grazie all’allattamento. Non è un caso che negli USA, negli anni ’90, La Leche League, un movimento fondato negli anni ’50 da tre donne per aiutare quelle che non osavano o non sapevano allattare, cresce esponenzialmente: le animatrici del gruppo sono più di 17mila e il loro manuale vende più di due milioni di copie. Bisognerebbe chiedersi però perché, se allattare è naturale, ci sono donne che non sappiano farlo e necessitino di sostegno per imparare. Le critiche nei confronti del bonding, inoltre, non riguardano la possibilità, sana e lecita, per i neo genitori di rafforzare il legame col neonato. Il problema si verifica quando determinate conoscenze di natura scientifica che possono giustificare l’istinto a prendersi cura della prole, come il ruolo degli ormoni, sono utilizzate per produrre inferenze in merito ad un fumoso concetto di “amore” che da esso dovrebbe derivare. La teoria del bonding, in questo senso, unita alle scoperte scientifiche relative alla vita fetale, viene utilizzata per tornare a parlare di “amore materno” che dovrebbe essere in grado di far riconoscere alla madre i bisogni del neonato e sacrificarsi per lui. Intorno agli anni ’90, quindi, si assiste ad un ritorno delle teorie “naturaliste” settecentesche – questa volta rafforzate dalle ricerche perinatali – che richiedono nuovamente alle donne di sacrificarsi in toto per i figli. Ancora una volta la presenza dei padri viene ridotta e accantonata, soprattutto nei primi mesi di vita del piccolo quando l’allattamento costituisce un avvenimento cardine. Diversamente dal passato, però la tendenza non è più univoca e il modello entra in conflitto con altri ideali, primo tra tutti quello dell’autoaffermazione personale.

Gli anni 2000 e la ridefinizione dell’identità femminile
Seguendo la rivoluzione avviata nella seconda metà del secolo scorso, nel secolo XXI non vi è più sovrapposizione tra il ruolo della donna e il ruolo della madre: il primo non sfocia direttamente nel secondo. Le maglie della rete sono più labili e le strade percorribili si biforcano: c’è chi sceglie in modo ponderato di non avere figli, chi di farli e dedicarsi totalmente a loro, chi di averli senza rinunciare a portare avanti un lavoro o una vita sociale. Il giudizio sociale nei confronti di queste tre possibilità, però, non è il medesimo: le donne che fanno figli e si sacrificano per loro spesso sono considerate le “buone madri”; quelle che non rinunciano al soddisfacimento personale derivante dal lavoro o dalle passioni sono considerate ancora “frivole” o “carrieriste”. Interessante in questo senso è il lavoro compiuto da Serena Marchi che nel suo Madri, comunque dà voce a molte storie di donne che nella loro vita hanno compiuto scelte particolari: abortire, portare a termine la gravidanza nonostante l’handicap del nascituro, adottare, ricorrere alla gestazione per altri, fare figli senza un padre, fare figli nella precarietà correndo al lavoro pochi mesi dopo. Soprattutto in storie come queste, le donne intervistate rivelano i pregiudizi sùbiti per le loro scelte. Non è una caso quindi che quelle che guardano con perplessità all’idea di avere un figlio lo facciano soprattutto in ragione degli stereotipi che ancora caratterizzano la definizione sociale di “buona madre”.
Paradossalmente, il giudizio eccessivo nei confronti di cosa significhi comportarsi da “buona madre” (sacrificarsi per i figli, seguirli direttamente nel corso della crescita, annullare i propri desideri) può essere considerato uno dei motivi per cui le donne scelgono di non farli. Consapevoli del sovraccarico personale e dell’aumento della disparità tra i sessi, preferiscono accantonare questa opzione. Per uscire da quest’impasse può essere utile ricordare quanto osservato da Badinter nel suo lavoro mamme cattivissime, afferma che: «le diverse esperienze europee mostrano che sono i paesi in cui il tasso di attività [lavorativa] femminile è più alto ad esibire il miglior tasso di fertilità» (Badinter, 2011, p.96).
Intervenire con politiche familiari cooperative, promotrici di una autentica parità nella coppia, va di pari passo con la promozione di un modello femminile vasto, libero da stereotipi, capace di anteporre le scelte e la volontà della donna a quella della madre. Le sfumature all’interno di questo modello “vasto” consentono anche al padre di acquisire uno status nuovo, libero dalle convenzioni e dagli stereotipi richiesti dal precedente (e ahimè ancora attuale) modello predominante. Uomini e donne alleati nella promozione di un modello alternativo fluido, in cui i compiti non siano rigidamente divisi per genere, sono gli autentici promotori di una parità che si riversa positivamente anche sui figli/e. Un modello di questo tipo, infatti, può rimettere in equilibrio la triade familiare – che nei secoli è stata sbilanciata in termini di obblighi morali verso la donna – trovando il giusto compromesso tra i bisogni e i desideri di tutti.
L’articolo l’ho trovato molto interessante e molto utile per capire meglio i dubbi che spesso mi assalgono…
Per quanto riguarda la mia esperienza posso dire che i figli andrebbero dati alla luce quando siamo pronte ad amarli e soprattutto ad essere amate. Meglio evitare finché non abbiamo risolto i nostri conflitti interiori e metabolizzato le sofferenze passate, per essere lucidi e razionali per non trasmettere a loro, inconsciamente, le nostre paure e le nostre ansie, frutto delle nostre esperienze negative. Penso che non sia facile fare i genitori ma anche il ruolo di figlio non è da meno.
Condivido l’analisi e credo sia necessario lavorare per decostruire lo stereotipo secondo cui “se sei una buona madre noi puoi fare altro” che introduce una logica esclusiva “o…o” anziché la possibilità di scelte identitarie “e..e” e che condiziona enormemente le scelte di molte giovani donne. Senza contare gli stereotipi e le aspettative altrettanto stringenti di cui, per un altro verso, è vittima l’uomo e che lasciano poco spazio alla fluidità dei ruoli e delle reali attitudini personali. Con la nostra associazione stiamo portando questo tema nelle scuole superiori già da un paio di anni e a volte la sensazione è che sarebbe necessario intervenire ben prima.
Articolo molto interessante e ben documentato. Ideale per aprire un dibattito su una scelta molto importante e impegnativa (mettere al mondo figli e educarli) che dovrebbe impegnare ugualmente e responsabilmente tutti e non solo le donne.