La casa dei vicini



“Una settimana fa sono rimasta chiusa fuori casa e adesso non riesco a fare nient’altro che leggere Elena Ferrante. Apparentemente potrebbe sembrare che non esista alcun nesso logico tra le due cose, ma una strana concatenazione di eventi ha fatto sì che, nella mia vita recente, entrassero in una relazione di causa-effetto”.


In copertina un’opera di Hiro Yamagata

di Alice Diacono

E poi lei disse: “Magari non tornano più”, e rimase subito stupefatta da quello che aveva appena detto.

“Potrebbe succedere”, disse lui. “Potrebbe succedere di tutto”.”O magari, per tornare tornano, ma…” Non finì la frase. 

Attraversarono il pianerottolo tenendosi per mano e quando lui le parlò, lei quasi non lo udì.

“La chiave”, disse lui. “Dalla a me”.”Cosa?”, chiese lei. Si mise a fissare la porta.”La chiave”, disse lui. “Ce l’hai tu”.

“Oddio mio!”, disse lei. “L’ho lasciata dentro!”Lui provò a girare il pomello. 

Ma era bloccato. Non girava affatto. Lei era rimasta a bocca aperta e ansimava un po’, in attesa. 

Lui spalancò le braccia e lei ci si rifugiò.”Non ti preoccupare”, le disse all’orecchio. 

“Per l’amor di Dio, non ti preoccupare”. Rimasero lì. Si tenevano stretti. 

Si appoggiarono contro la porta, come per ripararsi dal vento, e si fecero forza.

Raymond Carver, Vicini

Una settimana fa sono rimasta chiusa fuori casa e adesso non riesco a fare nient’altro che leggere Elena Ferrante.

Apparentemente potrebbe sembrare che non esista alcun nesso logico tra le due cose, ma una strana concatenazione di eventi ha fatto sì che, nella mia vita recente, entrassero in una relazione di causa-effetto.

Era giovedì, ora di pranzo, una caldissima giornata di inizio luglio. Mi stavo mettendo a mangiare e proprio mentre mettevo in bocca il primo boccone, suonano alla porta. 

“Chi è?”

“Pacco!”

“Non lo può lasciare giù?”

“No, deve firmare. Arriva dal Texassss.”

Era il test del DNA che ho regalato al mio ragazzo per il suo compleanno e che mi sono regalata anch’io, già che c’ero. Uno di quelli per conoscere le tue origini, per sapere in quale percentuale sei irlandese o marocchino o sardo o mediorientale.

Erano giorni molto ventosi. Cosa molto strana, chi l’ha mai visto il vento d’estate a Bologna? Siamo abituati all’afa stagnante e putrida in cui morire lentamente e riemergere poi a ottobre. Sembrava di essere al mare.

Siccome ero scazzata e di fretta, perché erano giorni che volevo scrivere un racconto per una rivista che me lo aveva chiesto ma non mi veniva in mente nulla, e in più avevo fame, ho pensato bene di uscire accostando la porta, senza portarmi dietro le chiavi. Proprio mentre risalivo le scale col pacco in mano, il vento ha fatto corrente e la porta, con un tonfo, si è brutalmente chiusa.

Sono rimasta lì, sul pianerottolo, incredula, con addosso un vestito a fiori, le ciabatte ai piedi, nient’altro. Niente telefono, niente chiavi, niente cibo, solo due test del DNA in mano. 

Erano le due del pomeriggio, fuori c’erano 38 gradi ventosi e nel palazzo non c’era probabilmente nessuno. Il mio ragazzo era a Cesena per lavoro e non sarebbe tornato fino a venerdì sera. Nessuno in città ha una copia delle nostre chiavi.

Dopo i primi cinque minuti di panico decido di suonare ai dirimpettai per vedere se sono in casa. Mi apre il loro figlio quattordicenne, in mutande, con aria allucinata. Gli dico “Non ci sono i tuoi?” “No.” “E che stai facendo?” “Oggi è la giornata di svacco totale perchè ieri ho dato l’esame di terza media quindi sto tutto il giorno sul divano a giocare ai videogiochi.” “Ah. Posso entrare?”

Ovviamente la prima cosa che ci viene in mente di fare è di guardare dei tutorial su Youtube per vedere come si scassinano le porte. Ci adoperiamo per cercare una lastra o una tessera, ma presto facciamo una triste scoperta: la mia porta di casa è così vecchia che non ha la serratura di lato, ma interna, ed è tutto inutile. 

Mi do della stupida, penso al mio piatto di zucchine, menta e quinoa lì sul tavolo, che si raffredda. Ho fame. Il quattordicenne mi offre della frutta e mi dice “Non dirti che sei stupida, sono cose che succedono a tutti. E poi quando fa così caldo non si può fare niente, bisogna solo stare fermi. Vedrai che si risolverà tutto.”  Quanta saggezza. 

In realtà, penso, non vede l’ora di tornare al suo videogioco.

Una volta mi sarei disperata, dibattuta, avrei chiamato i pompieri che avrebbero distrutto la porta, dopo mi sarebbe toccato pagare centocinquanta euro per la chiamata e ne avrei dovuti spendere altri duecento per rifare la serratura. Ma se c’è una cosa che cinque anni di meditazione mi hanno insegnato è che disperarsi, dibattersi e non accettare la situazione è solo controproducente e, nel mio caso, anche dispendioso. Invece il mio giovane vicino mi dà della frutta e indicandomi il divano mi dice “Mettiti qua tranquilla.”

Mi faccio un giaciglio con i cuscini e mi metto sul divano.

E così, eccomi, a 33 anni, chiusa fuori casa per colpa di un test del DNA, a passare un pomeriggio d’estate sul divano dei vicini con il loro figlio quattordicenne che gioca a Minecraft e me ne svela i pregi con una proprietà di linguaggio notevole per la sua età.

“Perché ti piace questo gioco?” Gli chiedo perplessa, dopo venti minuti di cubi e strade. 

“Perché per un ossessivo compulsivo come me non c’è niente di più rilassante che un mondo tutto simmetrico.” Dice. 

“Ah. Va bene. Magari mi leggo un libro.” Dico. 

Vado a curiosare nella fornitissima libreria. In realtà la conosco già benissimo. Spesso i suoi genitori mi lasciano le chiavi di casa per dare da mangiare al gatto o bagnare le piante, e io ogni volta mi sento come nel racconto di Carver Vicini, in cui la coppia dell’appartamento di fronte, che sembra avere una vita molto più interessante e avventurosa della loro, lascia a lui e la moglie le chiavi dell’appartamento, per bagnare le piante e dare da mangiare alla gatta Kitty, e loro finiscono per desiderare la loro vita e immedesimarcisi in maniera morbosa. 

Di volumi ne hanno tanti, e anche molto interessanti, ma l’occhio mi cade sulla tetralogia completa di Elena Ferrante, da L’amica geniale a Storia della bambina perduta.

Ho un’opinione ambigua sulla Ferrante. Ho letto che in Italia è sottovalutata e infatti molti miei amici all’estero la considerano un genio, mentre nella mia bolla non ha mai fatto capolino più di tanto, forse considerata letteratura di serie B o qualcosa del genere. 

Comunque, la curiosità è più forte del pregiudizio e decido di prendere L’amica geniale. 

Leggo le prime cinquanta pagine in un quarto d’ora ma ad un certo punto il sonno e il caldo hanno la meglio e mi addormento. Dico al ragazzino di svegliarmi alle 15 e 30 perché alle 16 ho lezione di yoga e non potendo avvisare l’insegnante della mia assenza, devo andarci di persona. Che strana doveva essere la vita prima dei cellulari. 

Infatti a un certo punto il quattordicenne mi sveglia e vado a yoga, che è proprio sotto casa, per dire alla mia insegnante che sono rimasta chiusa fuori casa eccetera, ma a sorpresa lei mi dice “Che problema c’è? Ti do io i vestiti.” Così tutta contenta per questa ritrovata leggerezza e gentilezza del mondo che mi viene incontro sostenendomi sul palmo della mano, faccio la lezione .

“Ho iniziato a leggere L’amica geniale” dico alla mia insegnante, che è anche poeta e scrittrice, alla fine della lezione.

“Ah io l’ho iniziato e ho dovuto leggerlo tutto in una settimana. Non potevo fare nient’altro.”

Colpita da quell’affermazione, tutta bella rilassata e allungata, me ne torno a casa. Suono ai vicini per farmi aprire il cancello e quando arrivo sul pianerottolo trovo con grande meraviglia la porta di casa mia aperta e il padre di Gianluca, tutto imbragato che indicandola mi dice “Mi sono permesso”. 

Vedendo la mia faccia incredula mi spiega tutto orgoglioso che passando dalla loro finestra al mio balcone, è entrato in casa e ha aperto la porta da dentro. Con tanto di imbracatura da pompiere o da uomo ragno. 

Il quattordicenne e i buddisti avevano ragione: stando ferma tutto si sarebbe risolto. 

Intanto però qualcosa era successo dentro di me e non riesco a pensare ad altro che a quelle cinquanta pagine che avevo letto. Così chiedo il libro in prestito alla vicina. Da quel momento non sono riuscita a fare nient’altro che leggere la storia di Lila Cerullo e Elena Greco. È pazzesco. Una delle cose migliori che abbia mai letto. Mi chiedo davvero come sia possibile che non l’abbia mai letto prima, com’è possibile che avessi tutti quei pregiudizi. Mi ha aiutata a trovare parole per cose che non riuscivo a definire. Così, con naturalezza. Come per la “smarginatura”, la violenza, “il rumore sempre più vicino della bellezza in arrivo“, la povertà, la plebe.

“Sai cos’è la plebe?”. “Sì, maestra”. Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.”

Sono così immersa nella storia che martedì non so nemmeno che c’è la partita dell’Italia contro la Spagna. Mi chiamano dei miei amici per chiedermi se vogliamo vederci in un bar della Cirenaica quella sera. Penso “Oh che carini”. Esco verso le nove e vedo le strade completamente deserte. “Certo che la gente si è proprio abituata a stare chiusa in casa dopo il Covid” penso “se anche in una bella sera d’estate come questa, alle nove, le strade sono deserte”. 

Poi però passo davanti a un bar e vedo un sacco di persone seduta fuori a guardare lo schermo. E penso “Aspetta, vuoi vedere che forse gioca l’Italia!?” 

Improvvisamente mi rallegro. Menomale. Niente paura. È solo una normalissima serata italiana, con la gente al bar che guarda la partita e beve la Peroni, il caldo, l’odore di pizza nell’aria, la voce dei telecronisti che arriva in strada. Una serata normale, familiare, quasi rassicurante. Niente pensieri di pandemie, niente atmosfere apocalittiche, niente depressione di massa, niente fini del mondo imminenti. 

Arrivo al bar e ovviamente i miei amici stanno guardando la partita. Trattandosi di baretto militante però non è trasmessa su un grande schermo ma sullo schermo di un computer. E in ritardo. Quindi sentiamo le reazioni della gente nelle case e poi 4 o 5 minuti dopo vediamo cosa è successo. Ai rigori noi siamo indietro di due tiri ma abbiamo già capito com’è andata a finire, dall’esplosione di gioia che arriva dai palazzi circostanti e dalla gente che comincia a riversarsi in strada. 

Non me n’è mai fregato nulla del calcio ma sono felice di vedere la gente felice dopo un anno e mezzo di tetraggine e angoscia e con lo sblocco dei licenziamenti alle porte. Una vittoria del genere tira su il morale della truppa, fa andare oltre momenti bui. Come la vittoria di Bartali del ’48, che ha sventato la guerra civile, o come quando l’Italia ha vinto i mondiali nell’82 e di fatto è uscita dagli anni di piombo. Sono cose che creano svolte storiche, impennate improvvise, esplosioni di gioia collettiva. La gioia è uno dei motori della storia.  L’ultima volta che l’Italia ha vinto gli Europei – scopro – era il 1968.

Torno a casa passando dai viali per vedere i festeggiamenti. Ma non rimango in giro a festeggiare. Non vedo l’ora di tornare a casa e rimettermi a leggere.

Il mattino dopo mi sveglio, apro il computer e mi metto a scrivere.

Tutte le volte è la stessa storia. Cosa ci ha insegnato Barton Fink? (Insieme al buddismo e al vicino di casa quattordicenne?). Che per scrivere è inutile rimanere chiusi in casa, stare a scervellarsi. Bisogna solo lasciare che la vita accada, che il vento soffi, che le porte sbattano, che il vicino si cali dentro casa tua vestito come l’uomo ragno, che l’Italia vinca qualche partita, che una storia che avevi sottovalutato colmi vuoti di parole e di senso, lasciarti addormentare vicino a un quattordicenne che gioca a Minecraft da solo, in mutande, per festeggiare la fine della scuola media, che il petto rimanga aperto ad affrontare il destino senza farsi chiudere dalla paura, che le dita rimangano allenate e gli occhi vigili per raccontare ciò che viene da sé. 


Alice Diacono è autrice di poesie, prose, articoli, saggi e insegna letteratura e storia in un liceo. Ha collaborato con JacobinViceIl Fatto Quotidiano e Doppiozero scrivendo di subculture e antifascismo. Nel 2019 ha pubblicato Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento con Battaglia Edizioni.

 

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