Da Byron a McCarthy, la letteratura e il cinema ci aiutano a immaginare i possibili futuri della crisi climatica.
IN COPERTINA e nel testo, Decision, di Melissa Miller (1991 – 1992)
Questo testo è tratto da Biopolitica della catastrofe di Eva Horn. Ringraziamo Mimesis editore per la gentile concessione.
di Eva Horn
Un uomo alla guida di un’auto sportiva attraversa a tutta velocità una Manhattan sotto il sole cocente, da Washington Square risalendo la Fifth Avenue in direzione di Midtown. È pieno giorno, ma le strade sono vuote. Auto parcheggiate ai bordi della strada, ma non si vede anima viva. Per contro, nelle crepe dell’asfalto crescono sospettosamente molte erbacce. La cinepresa spazia sopra i tetti di Manhattan, e poi si vede: l’uomo è l’unica presenza umana in città, la sua auto l’unica cosa che si muove. In Times Square l’erba è alta quanto un uomo; i daini vi brucano in tutta tranquillità. Ciò che un tempo era una bolgia di uomini, pubblicità e traffico è ora una steppa di erbacce ove regna un silenzio assoluto.
Le sequenze iniziali del film I Am Legend (2007) configurano uno scenario come in un sogno: una metropoli vuota; piante che hanno invaso strade e piazze un tempo sempre intasate dal traffico, animali che si sono insediati in questa nuova giungla. L’ultimo uomo che vive in questa città (in questo caso Will Smith) ha improvvisamente molto spazio a disposizione, tutt’attorno una calma assoluta; è sgravato da tutte le costrizioni derivanti dagli incessanti contatti sociali e da una civiltà che accetta piante e animali solo sotto forma di parchi e cani domestici. Il film però non configura una critica della cultura né vuole illustrare i sogni reconditi degli abitanti stressati delle metropoli. È la storia di una catastrofe ultimativa, della fine dell’umanità. Will Smith è l’unico sopravvissuto di un’epidemia virale che ha spopolato quasi l’intero globo. È l’ultimo uomo, testimone e vittima della fine della specie umana. Tuttavia, questa visione di una New York vuota e in silenziosa rovina ci tocca non solo in quanto immagine terrificante. Essa configura anche un nostro desiderio inconfessato: è l’immagine della calma post-apocalittica, una calma che può tornare solo dopo che l’uomo sia finalmente e definitivamente scomparso.
Noi ultimi uomini
Da un po’ di tempo la fantasia di una Terra senza uomini conosce un’alta congiuntura affatto sintomatica. Il romanzo di Thomas Glavinic Die Arbeit der Nacht (2006) descrive una Vienna che nel giro di una notte vede scomparire tutti i viennesi, addirittura tutti gli animali domestici; rimane un solo uomo che in quel nuovo vuoto si mette alla ricerca dei suoi simili dileguatisi nel nulla. Nel suo saggio-bestseller The World Without Us, anche Alan Weisman immagina la storia del futuro declino delle città e delle architetture che ci circondano, parimenti sulla scorta della premessa ipotetica che improvvisamente, come per magia e senza spargimento di sangue, tutti gli uomini siano scomparsi dalla faccia della Terra. Weisman narra di come case e edifici maestosi, in assenza di lavori di manutenzione ed esposti alle intemperie, cadono inesorabilmente in rovina. Già pochi anni dopo la scomparsa degli uomini il calcestruzzo si sgretola, i cavi in acciaio si lacerano e i ponti crollano; sui grattacieli prolifera la vegetazione e gli uccelli vi nidificano fino a che la rottura delle tubature e la ruggine fanno crollare l’uno sull’altro i piani dell’edificio. Ben documentato con dati di ingegneri e archeologi, Weisman presenta uno sguardo su come sarebbe un mondo finalmente liberato dalla pressione degli uomini: “Look around you, at today’s world. Your house, your city. The surrounding land, the pavement underneath, and the soil hidden below that. Leave it all in place, but extract the human beings. Wipe us out, and see what’s left. How would the rest of nature respond if it were suddenly relieved of the relentless pressures we heap on it and our fellow organisms?”. La risposta è semplice: la natura si riprende il suo spazio. Lo scenario di Weisman di un futuro senza uomini è il ritorno della natura, un ritorno alle origini prima della comparsa dell’uomo. La visione, stranamente, è a suo modo confortante: una volta che l’uomo è scomparso, scompaiono pure le sue tracce e il mondo ritrova un equilibrio naturale, rifiorisce e torna a verdeggiare. Una storia di malattia e guarigione, pressione e alleggerimento, quindi, che narra di un essere che è stato egli stesso la malattia. Sogniamo della nostra estinzione, della possibilità che un giorno potremo essere scomparsi senza lasciare tracce.
Questa storia potrebbe essere narrata in modo diverso qualora da quello prossimo si faccia un balzo nel futuro remoto. Una nave spaziale con a bordo paleontologi extraterrestri atterra fra cento milioni di anni sul “continente settentrionale” del nostro pianeta. In un profondo canyon gli scienziati scoprono un ampio strato roccioso con manufatti in metallo e pietra, i segni di una civiltà scomparsa. Nei medesimi strati rocciosi trovano anche i segni di una grande catastrofe che verosimilmente ha modificato incisivamente le condizioni di vita sul pianeta. Ciò che gli scienziati alieni analizzano sono i resti dell’umanità, visibili anche dopo milioni e milioni di anni. Questa storia è raccontata dal geologo Jan Zalasiewicz in Die Erde nach uns, un libro che tratta delle tracce di lunga durata lasciate dall’uomo sulla Terra. L’uomo non è una malattia passeggera; la sua impronta, come suggerisce il termine “antropocene” coniato da Paul Crutzen, non scomparirà tanto in fretta sotto la vegetazione e nelle sedimentazioni. Va tuttavia osservato che anche questo termine, che dimostra chiaramente come i manufatti dell’uomo siano tutt’altro che effimeri e quanta potenza essi abbiano nel plasmare il pianeta, trae la sua origine da una narrazione apocalittica: un giorno l’uomo sarà scomparso e ciò che di lui rimarrà sarà uno strato roccioso.
Entrambe queste narrazioni sono degne di nota: l’uomo guarda a se stesso, ma secondo la prospettiva della propria fine. Si pensa come scomparso dal mondo… per osservare ciò che resta. Il tempo di questa fantasia apocalittica è quello del futuro anteriore, il suo oggetto il “futuro come catastrofe”. Ciò che si addensa in una simile fantasia di una Terra dopo l’uomo ha un carattere ambivalente; la catastrofe, infatti, è al contempo sogno e incubo. I Am Legend ne è un esempio assai pregnante: dopo un inizio bucolico, il film si rivela come un vero e proprio thriller della catastrofe, con immagini tetre di flussi di migranti in panico, blocchi stradali, migliaia di morti e di uomini trasformatisi in bestie. La grande catastrofe è l’inevitabile storia preliminare di quell’idillio in cui si possono cacciare daini in Times Square. Un mondo senza uomini, questo il cinema blockbuster lo sa meglio del romanzo e della saggistica, non può darsi senza spargimento di sangue.
Oggi guardiamo entrambe le immagini – quella della catastrofe e di ciò che viene dopo – con particolare insistenza. Il “tono apocalittico” che Jacques Derrida attribuiva agli anni Ottanta torna oggi nei più disparati tipi di narrazione: nel cinema (da Roland Emmerich a Lars von Trier), nella letteratura (da Cormac McCarthy a Michel Houellebecq fino a Kathrin Röggla e Thomas Glavinic), nelle opere di divulgazione scientifica, nei videogiochi, nella diagnosi sociologica (da Ulrich Beck a Harald Welzer, Peter Sloterdijk e Bruno Latour), nelle scienze naturali (dalla geologia alla climatologia) e di recente occasionalmente anche nell’economia, notoriamente segnata dall’idea di crescita e progresso. I casi studio di Jared Diamond sul collasso di civiltà storicamente e geograficamente lontane sono diventati dei bestseller al pari delle fosche prognosi di Harald Welzer circa la minaccia di “guerre climatiche” nel futuro prossimo. Il romanzo più cupo degli ultimi anni, The Road, di Cormac McCarthy, una storia sulla sopravvivenza dopo il collasso della natura da cui peraltro è stato tratto l’omonimo film, ha vinto il Premio Pulitzer. Incidenti, catastrofi e scenari di tracollo immaginati, pronosticati e anticipati illustrano un senso del futuro che un titolo ripetutamente utilizzato negli ultimi anni esplicita in tutta chiarezza: La fine del mondo che conoscevamo. Noi stessi ci vediamo come gli ultimi uomini.
-->Il clima come catastrofe
Il tono apocalittico ci è noto sin dagli anni Cinquanta e Ottanta del XX secolo: come paura di fronte alla minaccia di una guerra nucleare che potrebbe rendere inabitabili ampie regioni del mondo. Benché oggi non vi siano meno armi nucleari che durante il periodo della Guerra fredda, il posto dell’apocalissi atomica è stato preso da un altro assai più diffuso scenario di catastrofe. L’azione di premere sul fatidico pulsante che potrebbe dare inizio a una guerra nucleare sarebbe sempre la conseguenza di una decisione, un evento riconducibile ad attori facilmente designabili, in un teatro bellico, per quanto vasto, chiaramente localizzabile; inoltre costituirebbe indubbiamente una svolta epocale. La catastrofe del tipo “guerra atomica” ha un carattere evenemenziale e contingente, giacché ove vi sono attori, è anche possibile fermarli. Per contro, ciò che oggi è chiamato “catastrofe climatica” e “global warming” non è né un evento né conosce luoghi e attori responsabili chiaramente designabili. Rispetto alla pregnanza di un attacco con armi atomiche, il mutamento graduale e quasi impercettibile del clima costituisce un fenomeno inaudito e angosciante.
Il clima stesso è un che di non percepibile, di astratto. “Climate is what you expect, weather is what you get”. Il clima non è qualcosa che, come la catastrofe nucleare, può essere concepito e descritto mediante immagini e situazioni. Diversamente dal meteo, il clima non è fatto di eventi (per esempio tempeste, grandinate, burrasche, periodi di siccità o di gelo), i quali configurano quel classico “palcoscenico degli dèi” che da sempre è oggetto di timori e speranze per il futuro. Esso al contrario si situa nello spazio astratto delle estrapolazioni, delle probabilità e delle medie. Il clima non può essere né visto né sentito, può solo essere calcolato. E diversamente da altri fenomeni fisici, le dinamiche estremamente complesse sia del meteo sia del clima sono accessibili solo parzialmente alla ricerca sperimentale. “Nel laboratorio dei meteorologi”, lamentava August Schmauss nel lontano 1945, “nell’atmosfera che ci circonda, ogni elemento è in costante mutazione; vi sono sempre nuove immagini, come in un caleidoscopio che a ogni giro produce una configurazione diversa”. Le conoscenze sul clima non nascono in laboratorio, bensì nello spazio eterogeneo di una molteplicità di tipologie di dati: misurazioni locali, lo studio del clima di epoche passate e le simulazioni computerizzate di possibili sviluppi futuri.
Mentre la scienza del clima risulta astratta quanto complessa (e per giunta oggi è anche oggetto di controversie politiche), le rappresentazioni letterarie o cinematografiche della catastrofe climatica hanno già raggiunto un massimo di chiarezza illustrativa. Sono i romanzi, le poesie, gli esperimenti mentali e ultimamente anche i tanto apprezzati blockbuster sulla catastrofe a mettere in immagine e contestualizzare in situazioni e storie le conoscenze del momento sul clima e sulla sua storia, e ciò consente di calare quelle stesse conoscenze nella vita concreta degli uomini. Essi illustrano quali conseguenze un eventuale cambiamento climatico catastrofico potrebbe avere a livello individuale, sociale, etico e politico; delineano gli scenari di comportamenti possibili in tempi di condizioni climatiche estreme e ostili alla vita, per così dire saggiano la tenuta dell’uomo, la sua capacità di resistere e la sua consistenza etica in situazioni di grave emergenza: cosa succederebbe se improvvisamente la Terra si ritrovasse oscurata e ricoperta dai ghiacci? Come reagirebbero gli uomini? Inoltre: che accadrebbe se la luce del sole si indebolisse così tanto da rendere impossibile la vita vegetale sul nostro pianeta?
Oscuramento romantico
È senz’altro sorprendente che queste rappresentazioni letterarie della catastrofe climatica, di genere apocalittico ma scevre da ogni speranza di salvezza, risalgano agli inizi della Modernità. Un primo, ma nella sua radicalità difficilmente superabile, scenario letterario venne delineato da Lord Byron nel 1816 con la lirica intitolata Darkness che dipinge la visione di un oscuramento totale della Terra, ma che è essa stessa la traccia lirica di un disastro climatico globale che condizionò fortemente il tempo meteorologico negli anni fra il 1816 e il 1819. Nei mesi di luglio e agosto del 1816, quando Byron scrisse la poesia mentre si trovava in villeggiatura in una località del Lago Lemano in compagnia di Mary e Percy Shelley, la temperatura era insolitamente bassa per l’estate svizzera: nevicava, l’aria era grigia e fosca, e vi furono inondazioni e massicce perdite di raccolti. La causa scatenante era stata l’eruzione devastante del vulcano Tambora, nell’attuale Indonesia, avvenuto l’anno precedente.
Nella regione ove si trova il vulcano, l’eruzione aveva causato settantamila vittime, ma le conseguenze sul clima mondiale non furono meno disastrose. Grandi quantità di cenere e aerosol di zolfo vennero immesse nella stratosfera, ove rimasero per alcuni anni formando un velo che oscurava la luce del sole. Le conseguenze furono estati fredde e umide nell’emisfero settentrionale, inverni gelidi, forti perdite di raccolto, inondazioni e morte per fame di bestiame; in Europa vi furono diverse rivolte della fame e una grossa ondata di emigrazione. Il 1816 passò alla storia del clima come “l’anno senza estate”. La visione di Byron non è pertanto solo un’invenzione poetica, bensì l’iperbole di una crisi causata da un temporaneo cambiamento climatico di cui il poeta, pur non nominandola, fu testimone.
I had a dream, which was not all a dream.
The bright sun was extinguish’d, and the stars
Did wander darkling in the eternal space,
Rayless, and pathless, and the icy earth
Swung blind and blackening in the moonless air;
Morn came and went – and came, and brought no day.
Il testo illustra minuziosamente le reazioni degli uomini all’improvviso oscuramento dei cieli: il panico e la disperazione hanno il sopravvento; non vi è spazio per nessuna forma di aiuto reciproco. L’umanità inizia quindi a bruciare tutto quanto è disponibile; foreste e case vanno in fiamme. Con il consumo delle risorse si dissolvono anche tutte le forme di ordine sociale, i troni e i palazzi sono ormai solo materiale combustibile.
And men forgot their passions in the dread
Of this their desolation; and all hearts
Were chill’d into a selfish prayer for light:
And they did live by watchfires – and the thrones,
The palaces of crowned kings – the huts,
The habitations of all things which dwell,
Were burnt for beacons; cities were consum’d.
La dissoluzione dell’ordinamento sociale è seguita da una guerra di tutti contro tutti. L’umanità disperata si avventa su animali e uomini per procurarsi cibo. Non vi è più nessuna pietà, nessuna solidarietà e nessuna legge civile.
And War, which for a moment was no more,
Did glut himself again: a meal was bought
With blood, and each sate sullenly apart
Gorging himself in gloom: no love was left;
All earth was but one thought – and that was death
Immediate and inglorious; and the pang
Of famine fed upon all entrails – men
Died, and their bones were tombless as their flesh;
The meagre by the meagre were devour’d.
La fine dell’umanità corrisponde alla dissoluzione dell’ultimo tabù: il divieto di mangiare carne umana. Ciò che interessa a Byron è la connessione puntuale fra il disastro climatico e il comportamento umano. In modo minuzioso illustra i diversi stadi della disperazione che coglie tanto gli uomini quanto gli animali. L’idea di Byron è di mettere a fuoco la capacità di resistenza dell’uomo di fronte a una catastrofe globale senza vie d’uscita e che non lascia scampo a nessuno. Gli ultimi due sopravvissuti alla fine muoiono colti da un reciproco raccapriccio, allorché fra le rovine fumanti di una chiesa si guardano l’un l’altro negli occhi
Their eyes as it grew lighter, and beheld
Each other’s aspects – saw, and shriek’d, and died –
Even of their mutual hideousness they died,
Unknowing who he was upon whose brow
Famine had written Fiend. The world was void.
La fame fa di ognuno il nemico di ognuno. La “bruttezza” dell’uomo, a causa della quale gli ultimi due sopravvissuti muoiono, non è pertanto una bruttezza fisica bensì morale. La catastrofe mostra il vero volto dell’uomo. Secondo Byron, il disastro climatico è sempre anche un disastro sociale che distrugge tutte le forme di socialità: “No love was left”.
L’oscuramento illustrato da Byron costituisce un test antropologico in cui l’uomo, che l’ottimismo del XVIII secolo aveva descritto come compassionevole, razionale e fondamentalmente buono, mostra la sua natura spregevole. La cupa antropologia del disastro così delineata fa emergere la debolezza, l’egoismo e l’irragionevolezza dell’uomo. Questa radicalità fa di Darkness il primo documento letterario su una guerra per le risorse – una guerra in cui l’unica e ultima posta in gioco è la propria sopravvivenza, al prezzo dell’uccisione indiscriminata degli altri. Lo stesso si riallaccia peraltro alle prognosi a tinte fosche presentate da Thomas Malthus nel suo Saggio sui principi della popolazione del 1798. Le previsioni di Malthus sono note: siccome la crescita della popolazione è esponenziale, per contro quella dei raccolti solo lineare, molto presto ci si verrà a trovare in una situazione di drastico sotto-approvvigionamento della popolazione più povera. Le conseguenze sono mortalità infantile, carestie e pestilenze. In Darkness l’inevitabile destino dell’umanità è precisamente quello fatto di carestie e morte per fame descritto da Malthus: “The pang of famine fed upon all entrails”. La catastrofe acuta descritta da Byron costituisce pertanto solo un’accentuazione delle condizioni che Malthus aveva a suo tempo pronosticato per il prossimo futuro.
Byron riprende tuttavia anche un altro discorso, a lui contemporaneo, in cui la catastrofe climatica svolge un ruolo centrale: quello della storia naturale. Le scoperte paleontologiche di Georges-Louis Buffon e Georges Cuvier avevano mostrato che la Terra non solo era più vecchia di diversi milioni di anni rispetto a quanto ritenuto fino a quel momento, ma pure che sulla stessa vi erano stati cataclismi che avevano causato la scomparsa di intere specie. Cuvier, che a partire da questa teoria delle catastrofi climatiche aveva sviluppato una vera e propria teoria della storia della Terra e delle specie, muoveva dal presupposto che l’uomo poteva avere fatto la sua comparsa solo dopo l’ultimo grande cataclisma, che l’umanità doveva essere sopravvissuta a diverse grandi glaciazioni.
Raffreddamento e devolution
La cupa visione di Byron è solo l’inizio di una lunga storia delle rappresentazioni del disastro climatico. Per molto tempo la quintessenza del disastro non è stato il surriscaldamento, bensì l’improvviso o progressivo raffreddamento della Terra. Nel momento in cui Byron illustra l’avvento improvviso dell’oscurità e del freddo, il XIX secolo è atterrito dall’incubo di un progressivo raffreddamento del nostro pianeta. Il sole lentamente si spegnerà e la Terra sarà sempre più presa nella morsa dei ghiacci. Nel 1883 il sociologo Gabriel Tarde illustrò in una finta Storia del futuro una società che a causa del crescente raffreddamento del pianeta si deve ritirare nel sottosuolo. Per Tarde la catastrofe, benché causi la morte di gran parte dell’umanità, è comunque un’opportunità: i sopravvissuti si ritirano nel sottosuolo e danno vita a una società utopica che, anziché produrre e lavorare, è quasi esclusivamente dedita a coltivare quei processi di attrazione e imitazione che stanno al centro della sua teoria sociale. Si vive in spazi riscaldati con il calore terrestre, ci si veste con abiti fatti di metallo che non si consumano e ci si procura cibo dagli animali congelati che giacciono sparsi sulla superfice della Terra. Ciò che risuona come uno scenario del puro terrore, per Tarde è una sorta di esperimento mentale (forse da prendere non troppo sul serio): la catastrofe climatica immaginata è un test per mettere alla prova la sua teoria della società. Qui, infatti, diversamente che in Byron, l’umanità non fallisce, bensì conferma puntualmente le Leggi dell’imitazione (1985) e, sotto la pressione di un pianeta divenuto inabitabile sulla sua superficie, si sviluppa nella direzione di un tutto o insieme sociale armonico.
Altri autori sono assai meno ottimisti riguardo alle condizioni di vita dopo un importante mutamento climatico. Gli stessi pongono in relazione il clima che si raffredda con una progressiva degenerazione di tutte le forme di vita, in particolare di quella dell’uomo. H.G. Wells invia il suo viaggiatore della Macchina del tempo (1895), dopo un’avventura con Morlocks ed Eloi, in un futuro lontanissimo, allorché il sole è divenuto debole e rosso e la Terra ha rallentato il suo movimento di rotazione. Ogni forma di vita langue in una luce fioca e fredda; giganteschi granchi appaiono come gli ultimi sfigurati discendenti dell’umanità. Anche Camille Flammarion, astronomo, spiritista e uno dei più importanti divulgatori di astronomia, descrive nel suo romanzo La fin du monde (1984) un’analoga morte fredda della Terra. In questo caso al freddo si associa un progressivo prosciugamento del pianeta che causa una vera e propria decimazione fra gli umani. In modo ancora più chiaro che in Wells, Flammarion collega il raffreddamento del clima con l’idea della regressione dell’uomo a uomo primitivo. Alla fine, nel momento della catastrofe climatica finale, l’uomo si ritrova come i propri antenati vestito di pelli attorno al focolare primigenio: “Gli ultimi rimasugli di umanità”, così si conclude la cupa storia del futuro climatico descritto da Flammarion, “sembravano essere tornati alla barbarie; vegetavano come selvaggi in una landa eschimese, e lentamente morirono tutti di fame e di freddo”.
Secondo la convinzione diffusa nel tardo XIX secolo, il futuro raffreddamento della Terra sarà accompagnato da una regressione della specie umana alle sue origini o addirittura da una sua degenerazione che ne farà un essere senza più nessuna somiglianza con l’uomo. Ciò che qui trova espressione è la consapevolezza che il clima non solo plasma l’ambiente, bensì anche l’uomo stesso in quanto specie. Se la sua evoluzione, come aveva mostrato Darwin, dipende dalla sua capacità di adattamento, allora il radicale cambiamento dell’ambiente influisce anche sul suo patrimonio genetico. Come già si sapeva nel XVIII secolo, il clima fa l’uomo, plasma la sua mentalità, le sue istituzioni e la sua cultura. Sulla scorta della teoria darwiniana dell’evoluzione, questa idea di una dipendenza dell’uomo dal clima si radicalizza ed assume la forma di una vera e propria teoria delle razze e delle loro differenze. Nelle narrazioni di un futuro raffreddamento del pianeta, la stessa trova il suo sviluppo più conseguente. Sotto la pressione di un clima ostile, l’uomo si ritrasformerà nell’essere che l’ha preceduto oppure assumerà una forma di vita che non avrà più niente in comune con ciò che è stato. Il clima diviene così il veicolo non solo dell’estinzione, bensì anche della dissoluzione della specie umana.
Cambiamento climatico improvviso
Di confortante nelle prognosi climatiche del XIX secolo vi era quantomeno che il raffreddamento avrebbe avuto luogo progressivamente e in tempi molto lunghi. Le catastrofi climatiche immaginate nel XX secolo e nel presente irrompono per contro improvvisamente, come nello scenario malthusiano di oscuramento del pianeta descritto da Byron. In The Day After Tomorrow (2004) di Roland Emmerich la catastrofe ha luogo come diretta conseguenza di una serie di disastri metereologici che in breve tempo modificano la situazione dell’intero globo: la Corrente del Golfo si ferma nel giro di pochi giorni, nell’emisfero Nord si formano uragani giganteschi, Los Angeles è letteralmente squarciata dai cicloni e New York affonda sotto la marea e il ghiaccio. Emmerich sa che il cambiamento climatico di origine antropica, pur costituendo il tema che egli intende trattare, non può propriamente essere illustrato e narrato, a meno che lo si faccia per l’appunto mediante immagini di eventi metereologici drammatici. Questo spiega perché le sue avvincenti immagini di uragani che si estendono sopra e oltre interi continenti, come pure quelle di una New York completamente presa nella morsa dei ghiacci, contino oggi fra le raffigurazioni di maggior successo della politica climatica mondiale – benché sia a tutti noto che lo scenario di cambiamento climatico repentino delineato da Emmerich sia assolutamente privo di fondamento scientifico.
Assai più fondato scientificamente è per contro il romanzo The Road (2006) di Cormac McCarthy, il quale narra di un mondo in cui in seguito a un non meglio precisato disastro il cielo si è oscurato e tutta la vegetazione è morta. Un uomo vaga con il proprio figliolo attraverso un paesaggio completamente distrutto, da qualche parte nell’Ovest del Nordamerica. Padre e figlio sono in viaggio verso Sud, in prossimità della costa, con la speranza che laggiù faccia più caldo. Tutte le piante sono bruciate, piove cenere, l’ambiente è cupo e fa molto freddo. I pochi sopravvissuti, raggruppati in bande dedite al cannibalismo, sono a caccia di altri uomini. L’unica preoccupazione del padre è di assicurare la sopravvivenza del figlio. A più riprese deve difendere se stesso e il proprio bimbo dai cannibali, deve nascondersi e fuggire; più volte deve rifiutare il proprio aiuto ad altri fuggitivi nonostante il figlio lo preghi di farlo. E ripetutamente padre e figlio si assicurano l’un l’altro che non faranno mai parte di quelli che macellano altri uomini come fossero animali. Al termine del romanzo il padre muore di sfinimento; il figlio viene adottato da un’altra famiglia, ma non si viene a sapere che cosa ne sarà di lui. In ogni caso, il clima non sarà più caldo.
Ciò che ha reso famoso lo scenario di McCarthy è la puntuale connessione fra disastro ecologico e disastro sociale. Di che cosa si può vivere se non cresce più niente? Quali comportamenti e quali misure di protezione implica necessariamente la volontà di sopravvivenza? Quali forme di violenza genera quest’ultima? Con sollievo non pochi recensori hanno rilevato che McCarthy, con la descrizione delle premure e cure del padre nei confronti del figlio, ha salvato un resto di umanità nel mezzo di un mondo completamente imbarbarito. Oprah Winfrey ha candidamente classificato il romanzo come “una storia d’amore”. Il successo dello stesso dipende però da un equivoco calcolato: siccome McCarthy evita accuratamente di descrivere in modo preciso la catastrofe che ha completamente distrutto il mondo, ecco che il romanzo ha potuto essere letto come una parabola ecologista, come “the most important enviromental book ever”. Su ciò che è effettivamente successo nel mondo post-catastrofe la narrazione rimane vaga: “The clocks stopped at 1:17. A long shear of light and then a series of low concussions. He got up and went to the window”. Chiare sono per contro le conseguenze: freddo glaciale, neve, gelo, luce flebile e grigia. Talvolta anche a mezzogiorno il cielo è “black as the cellars of hell”. Ovunque cenere che, anche parecchi anni dopo la catastrofe, piove dal cielo e colora di grigio la neve. “The land was gullied and eroded and barren. The bones of dead creatures sprawled in the washes. Middens of anonymous trash. Farmhouses in the fields scoured of their paint and the clapboards spooned and sprung from the wallstuds. All of it shadowless and without feature”. Devono esserci stati incendi molto intensi che hanno sciolto l’asfalto delle strade. Niente più cresce, la maggior parte degli uomini e degli animali sono morti di fame, e parimenti nei fiumi e nei laghi non c’è più pesce.
Nel romanzo vi è solo qualche raro accenno al disastro, nondimeno la sua natura è facilmente deducibile dalle conseguenze. Si tratta dello scenario dell’inverno atomico elaborato dagli scienziati del gruppo di Paul Crutzen e Carl Sagan negli anni Ottanta allo scopo di valutare in modo preciso le conseguenze di un conflitto nucleare. Secondo questa valutazione, anche diversi anni dopo un attacco con armi atomiche su vasta scala la cenere e le particelle di fuliggine generate da vastissimi incendi rimarrebbero sospese negli strati alti dell’atmosfera, oscurerebbero la superficie terrestre e quindi impedirebbero la crescita di qualsiasi specie vegetale. Un caso di riferimento per questo scenario è tra l’altro dato dall’anno senza estate 1816. Precisamente questi vastissimi incendi è quanto vedono i protagonisti del romanzo all’inizio della catastrofe. Benché non lo dica espressamente, McCarthy non lascia dubbi sul fatto che l’inverno da lui descritto è di origine antropica, irrompe improvvisamente e soprattutto è globale. I protagonisti tentano di fuggire, ma non c’è “fuori” dove trovare riparo. Alla fine si ritrovano sulla riva di un mare morto e freddo, alcune migliaia più a sud – e niente è più caldo o in qualche modo migliore rispetto a dove si trovavano prima. Anche qui non cresce niente, anche qui non vi è cibo, nessuna forma di vita. L’inverno è ovunque.
In un tale inverno tutti gli uomini sono dei sopravvissuti. Ma si pone la seguente domanda: che cosa significa propriamente sopravvivere in condizioni di inverno nucleare? I sopravvissuti di una guerra atomica sono, come già Crutzen e Birks avevano spiegato nel loro testo anticipatorio sullo scenario dell’inverno nucleare, semplicemente quelli che moriranno un po’ dopo: “It is […] difficult to see how much more than a small fraction of the initial survivors of a nuclear war […] could escape famine and disease during the following year”. Ammesso che sia possibile sopravvivere al calore e all’onda d’urto, e forse anche alle radiazioni, ma non al successivo e prolungato inverno nucleare, occorre nondimeno chiedersi che cosa significhi qui “sopravvivere”. In uno degli ultimi dialoghi fra il protagonista e sua moglie, che poco dopo si toglierà la vita, emerge chiaramente che nell’inverno di The Road non vi è più nessuna possibilità di sopravvivenza: “We’re survivors he told her across the flame of the lamp. Survivors? she said. Yes. What in God’s name are you talking about? We’re not survivors. We’re the walking dead in a horror film”.
I “sopravvissuti” sono zombie, propriamente sono già morti. Come il protagonista e suo figlio, grazie alla tenacia e all’accortezza posticipano la morte definitiva, ma solo di un poco. Non vi è vita, non vi è mondo ove gli uomini possano ancora trovare salvezza; non vi è “Sud” e neppure nessuna primavera in arrivo in un qualche futuro immaginabile. Ciò a cui l’uomo è riportato è il valore di rottame, si potrebbe dire il valore di catastrofe, della sua civiltà. Padre e figlio vagano in un paesaggio di distruzione, costantemente alla ricerca di cibo o di qualcosa che possa servire per sopravvivere. Vecchie coperte, vestiti, un cacciavite, conserve scadute o mele marce a metà si rivelano improvvisamente come strumento di salvezza, mentre non sono di nessun aiuto i congegni elettronici. In questo modo il romanzo getta una luce da fine del mondo non solo sugli uomini, ma anche sugli oggetti della nostra vita quotidiana: che cosa valgono ancora dopo la fine della civiltà? L’analisi di questa civiltà e di questo tipo di uomo effettuata da McCarthy non è così caustica come quella di Byron, ma non per questo è meno deprimente. L’immagine del cannibalismo assurge qui a metafora di una cultura dell’auto-divoramento: se l’uomo distrugge la natura e consuma tutte le risorse disponibili, allora non gli rimane altro da mangiare che la propria immondizia… e i propri simili.
Catastrofe senza evento
È significativo che questo libro su una catastrofe climatica, che indubbiamente conta fra i testi più sconcertanti della nostra epoca, non faccia riferimento al riscaldamento globale bensì all’antico topos dell’inverno. Inverno significa esposizione alle intemperie e scarsità di beni, una situazione in cui tutto dipende dalla possibilità di trovare un riparo dal freddo e di assicurarsi l’approvvigionamento. L’inverno comporta un radicale inasprimento della concorrenza sociale e una regressione a rapporti umani primitivi. Per contro il riscaldamento – quantomeno alle nostre latitudini – non è immaginabile come catastrofe; ma soprattutto il lento riscaldamento degli ultimi duecento anni osservato oggi dalla climatologia è difficilmente rappresentabile quale evento. Diversamente che nel caso dell’inverno nucleare, qui non vi è una posizione temporale, un punto di rottura improvviso, solo un accadere strisciante e diffuso, i cui impatti su scala mondiale sono fra loro molto diversi e la cui rappresentazione e anticipazione è altresì possibile solo mediante modelli, estrapolazioni e simulazioni. In ordine al mutamento climatico non è possibile indicare un responsabile; piuttosto, tutti noi – benché secondo gradi di responsabilità assai diversi – siamo colpevoli, vittime e testimoni di una catastrofe senza eventi, la cui ampiezza non è neanche lontanamente chiara. Questo spiega perché non vi è nessun McCarthy o Byron del “global warming” – se si prescinde da quelle distopie piuttosto pretensiose che, come il film Hell (2011) di Tim Fehlbaum, ripropongono lo scenario cupo e freddo del cannibalismo, ma in un ambiente desertificato segnato dalla calura estrema e dalla luce accecante.
È sintomatico della difficoltà cognitiva cui ci pone di fronte il mutamento climatico il fatto che il romanzo che più intensamente si occupa delle attuali conoscenze in materia sia State of Fear (2004) di Michael Crichton, un manifesto del cosiddetto “scetticismo climatico”. Esso denuncia la climatologia come fomentatrice di panico sulla scorta di dati manipolati. Il thriller di Crichton è un coacervo di dati riportati pedantescamente (con tanto di dati e grafici) e di action in cui i buoni sono scienziati e giuristi coraggiosi, mentre i cattivi perfidi ambientalisti che viaggiano per il mondo su jet privati e provocano artificialmente catastrofi naturali allo scopo di rendere credibile la menzogna del cambiamento climatico. La parte per così dire documentaristica del romanzo contiene lunghe digressioni sull’inaffidabilità delle misurazioni del clima, sulle presunte esagerazioni e semplificazioni tendenziose dei politici del clima come pure un’argomentazione presentata con toni striduli circa un presunto regime generale della paura che mira solo ad allarmare e gabbare il mondo occidentale.
A prescindere da queste scontate figure del pensiero della destra politica, Crichton coglie nel segno ove indica un punto debole delle ricerche sul clima globale, ossia l’estrapolazione di un trend generale da dati locali. Il romanzo presenta molte curve termiche locali che mostrano a volte un aumento, altre una sostanziale continuità, spesso però una diminuzione delle temperature locali negli ultimi cento anni. Ovvia è la sua conclusione: il clima è diverso a seconda dei luoghi, i dati sono assai eterogeni e non possono essere ricondotti a una tendenza al riscaldamento globale. In un certo senso, ciò non è per niente errato.
Lo studio condotto da Paul Edwards sulla storia della climatologia ha analizzato precisamente questo passaggio da dati relativi a misurazioni locali non sempre standardizzate a un modello globale, passaggio che costituisce una croce epistemica delle moderne scienze del clima e che dà luogo alla cosiddetta “data friction”. I dati si contraddicono, soggiacciono a standard e riproduzioni in scala diversi e sono lacunosi. Ma soprattutto dipendono da modelli, la cui validità è rilevabile solo all’interno di uno scenario più ampio. Tuttavia, secondo Edwards l’esistenza di questa croce non significa che detti modelli (come Crichton suggerisce) sono semplicemente errati o inattendibili, bensì piuttosto che la stessa costituisce un motivo per attuare una costante e metodica autoriflessione circa la natura complessa e ipotetica di queste conoscenze. In modo non diverso dalla biologia molecolare o dalla fisica, la ricerca sul clima deve ricorrere a simulazioni e modelli che tuttavia non possono essere squalificati come “pure costruzioni”.
Ciò nondimeno i rilievi di Crichton sono un importante sintomo della fondamentale difficoltà di tradurre in indicazioni e programmi per l’azione politica un sapere come quello della ricerca sul clima. Il sapere incerto circa i processi futuri e a lungo termine su scala globale dovrà sempre ricorrere a modellizzazioni e ipotesi; in questo senso esso contempla necessariamente una certa dose di finzione. Ora, se nella tecnica della sicurezza o nella valutazione delle conseguenze derivanti dall’applicazione di determinate tecnologie questi elementi di finzione sono accettati quali principi euristici – nessuno rigetterebbe uno studio sulla sicurezza di una centrale atomica per il fatto che si fonda su ipotesi riguardanti possibili incidenti –, questo contenuto di ipotesi e finzione è impiegato dai negazionisti del cambiamento climatico di origine antropica come un argomento generale per gettare discredito sull’intera disciplina e sui suoi risultati.
Lo scetticismo anticatastrofista di Crichton – per quanto errate siano le sue conclusioni – costituisce pertanto un importante indice del complesso status delle nostre conoscenze circa possibili catastrofi future. Il piacere che suscitano in noi gli scenari di catastrofe e le prospettive post-apocalittiche sembra pertanto avere a che fare proprio con questo status. Il riscaldamento globale è una catastrofe latente, non percepibile e difficilmente rappresentabile; non configura un crollo improvviso che possiamo facilmente immaginare e illustrare. Il sapere che concerne la catastrofe è complesso e astratto, non consente nessuna prognosi avente validità generale, bensì permette di delineare scenari eterogenei e localmente molto divergenti. Risulta difficile, in questa catastrofe, indicare in modo semplice le cause e gli attori. Come sostiene Edwards, le prognosi e le conoscenze sul cambiamento del clima si fondano su dati mutevoli: “an ever-expanding collection of global images that will keep on growing, but never resolve into a single definite record”.
Il nostro atteggiamento nei confronti di questa mutevolezza epistemica è a sua volta ambiguo, come ha sostenuto il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy:
Ammesso che siamo sicuri o quasi sicuri che la catastrofe è a venire […] Il problema è che non ci crediamo. Non crediamo a ciò che sappiamo […] Tutto sta a indicare che il nostro attuale sviluppo non potrà continuare all’infinito, né in termini spaziali né in termini temporali. Ma mettere in questione tutto ciò che abbiamo imparato ad associare al progresso, avrebbe la conseguenza paradossale di indurci a non credere a ciò di cui sappiamo che, per contro, è il caso. Qui non vi è nessuna insicurezza o comunque assai poca. Nel migliore dei casi, l’insicurezza è un alibi. Ma non è un ostacolo, non lo è sicuramente.
Il nostro interesse ossessivo per la catastrofe e la fine dell’umanità, lo strano piacere che ci riservano gli scenari post-umani hanno a mio giudizio a che fare precisamente con questa struttura del sapere-e-non-credere. Studiamo il collasso di altre civiltà, al cinema trepidiamo per le vittime di catastrofi, siamo colti dai brividi leggendo The Road – e non separiamo più i nostri rifiuti senza essere confortati dal pensiero che così facendo (come una schiera di buoni consiglieri ci suggerisce) contribuiamo a “salvare il mondo”.
L’occupazione sul piano immaginario con le catastrofi e le loro vittime – dagli uomini disperati di Byron alla desolazione di una New York ormai completamente spopolata di Will Smith – è una delega inter-passiva di un sapere a cui non crediamo. Non ci consideriamo come persone toccate da quanto sta accadendo, bensì osserviamo gli altri nel momento del loro naufragio. Lasciamo che siano i personaggi di finzione a crederci. Ciò presenta un vantaggio sul piano riflessivo – quando l’evento accadrà, lo sapremo già sempre in anticipo –, il quale si associa a una comoda inibizione ad agire. Separiamo (quasi sempre) i nostri rifiuti e montiamo lampadine a basso consumo (non sempre volentieri), ma chi sarebbe disposto a rinunciare alla propria auto o ai voli in aereo? E poi, servirebbe a qualcosa? Non lo sappiamo. L’osservare la catastrofe ci solleva dal difficile compito sia individuale sia collettivo di agire – dalla rivolta collettiva contro la politica del consumo sfrenato delle risorse all’uso individualmente virtuoso della bicicletta per i nostri spostamenti quotidiani; dall’uso parsimonioso dell’acqua alla costruzione in proprio di un rifugio riempito di derrate alimentari per fare fronte alle alluvioni.
Appare difficile determinare con precisione che cosa significhi “agire” al cospetto di un futuro di catastrofe. Non esiste un soggetto chiaramente determinabile di un tale agire: le “nazioni industrializzate”, il “capitalismo”, l’“espressionismo cinetico” (Sloterdijk) – oppure tutti noi che viaggiamo, riscaldiamo, consumiamo? Propriamente il compito consisterebbe in primo luogo nella costruzione di un’unità politica in grado di assumersi la responsabilità derivante dai mutamenti delle condizioni del pianeta. Nella sua potenza, l’uomo dell’antropocene deve rendersi conto che sta correndo il rischio di cadere nell’impotenza dell’ultimo uomo – e questo in una situazione in cui risulta assai difficile distinguere fra agire e subire, potenza e impotenza, sapere e non sapere della catastrofe. Proprio per questa ragione lo spazio dell’immaginazione diviene importante, ma dobbiamo saper usare questa immaginazione in modo diverso. Anziché limitarci a guardare come gli altri “sono costretti a crederci”, oppure sognare di una Terra finalmente liberata dalla presenza dell’uomo, occorrerebbe assegnare alle diverse forme di finzione precisamente quel valore euristico che è proprio anche degli scenari scientifici. Le stesse possono in modo molto pratico darci indicazioni su ciò che potrebbe attenderci, e potrebbero aiutarci a credere finalmente a ciò che sappiamo da tanto tempo.
Non dimenticherei il romanzo Dissipatio H.G. (Sparizione del genere umano), di Guido Morselli.