La crisi climatica non è solo una crisi del capitalismo

Il cambiamento climatico indubbiamente accentuerà la logica della disuguaglianza che caratterizza il dominio del capitalismo; senza dubbio alcune persone ne trarranno un momentaneo profitto a danno di altre. Ma questa crisi nella sua totalità non può essere ridotta a una crisi del capitalismo.


IN COPERTINA e nel testo, Watching the Storm (Denver), John Register (1988)

Questo testo è tratto  da Clima, Storia e Capitale, di Dipesh Chakrabarty (Nottetempo), a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi nella traduzione di Andrea Aureli. Ringraziamo editore e autore.


di Dipesh Chakrabarty 

L’ipotesi geologica sull’Antropocene ci obbliga a mettere in relazione le storie globali del capitale con la storia della specie umana 

Nell’età del cambiamento climatico, i quadri analitici con cui si affrontano le questioni della libertà mediante le critiche alla globalizzazione capitalista non sono in alcun modo diventati obsoleti. Semmai, come dimostra Davis, il cambiamento climatico potrebbe benissimo portare ad accentuare tutte le ineguaglianze dell’ordine mondiale capitalista, qualora gli interessi dei poveri e dei più deboli venissero ignorati. La globalizzazione capitalista esiste; allo stesso modo, devono esistere le sue critiche. Ma se accettiamo che il cambiamento climatico è parte delle nostre vite, e che forse caratterizzerà quella del pianeta più a lungo del capitalismo o ben oltre le sue mutazioni storiche, tali critiche non ci forniscono un’adeguata interpretazione della storia umana. La problematica della globalizzazione ci permette di leggere il cambiamento climatico solo come una crisi della gestione capitalista. Se è innegabile che esso abbia molto a che fare con la storia del capitale, una volta che la crisi del cambiamento climatico è stata riconosciuta come tale e l’Antropocene ha iniziato a profilarsi all’orizzonte del nostro presente, la sola critica del capitale non è sufficiente per affrontare le questioni inerenti alla storia umana. Il presente geologico dell’Antropocene ha finito per intrecciarsi col presente della storia umana. 

Chi studia gli esseri umani in relazione alla crisi del cambiamento climatico e ad altri problemi ecologici che stanno emergendo su scala mondiale distingue la storia documentata degli esseri umani dalla loro storia profonda. In linea generale, la storia documentata fa riferimento ai diecimila anni che ci separano dall’invenzione dell’agricoltura, ma in linea generale si concentra sugli ultimi quattromila anni di cui esiste documentazione scritta. Gli storici della modernità e della “prima modernità”, in particolare, di solito frequentano gli archivi degli ultimi quattrocento anni. La storia antecedente alla documentazione scritta viene chiamata storia profonda da altri studiosi di passati umani, i quali non sono storici di professione. Senza una conoscenza della storia profonda dell’umanità sarebbe difficile giungere a una comprensione laica del perché il cambiamento climatico costituisca una crisi per gli umani. I geologi e gli scienziati del clima possono essere in grado di spiegare perché l’attuale fase del riscaldamento globale – diversamente che in passato – sia di natura antropogenica, ma la crisi che ne deriva per gli umani non è comprensibile se non se ne colgono le conseguenze. Queste hanno un senso solo se noi concepiamo gli umani come una forma di vita e guardiamo alla storia umana come parte della storia della vita su questo pianeta. In ultima istanza, ciò che viene messo a repentaglio dal riscaldamento climatico non è il pianeta geologico in quanto tale, ma le condizioni biologiche e geologiche su cui si fonda la sopravvivenza della vita umana così come si è sviluppata nell’Olocene. 

Il termine che studiosi come Wilson o Crutzen usano per designare la vita nella sua forma umana – e nelle altre forme viventi – è specie. Essi parlano dell’essere umano come di una specie e ritengono che tale categoria sia utile per pensare la natura della crisi attuale. È una parola che non apparirà mai nei normali testi di storia o di analisi politico-economica della globalizzazione scritti da studiosi di sinistra, poiché l’analisi della globalizzazione prende in esame, giustamente, solo la recente storia documentata degli umani. D’altra parte, pensare in termini di specie è connesso al progetto della storia profonda. Inoltre, Wilson e Crutzen ritengono che questo modo di pensare sia effettivamente essenziale per immaginare il benessere umano. Come scrive Wilson: “Ritengo necessaria questa visione più ampia non solo per comprendere la nostra specie, ma anche per garantirne più saldamente il futuro”. Il progetto di situare storicamente la crisi del cambiamento climatico ci obbliga dunque a mettere insieme configurazioni intellettuali che sono in un certo senso in tensione tra loro: il planetario e il globale; le storie profonde e quelle documentate; il pensiero della specie e le critiche al capitale.  […]

Intersecare la storia della specie con la storia del capitale è un processo che mette alla prova i limiti della comprensione storica 

Seguendo la tradizione diltheyana, si potrebbe sostenere che la comprensione storica comporti un pensiero critico che si richiama ad alcune nozioni generali sull’esperienza umana. Gadamer fa notare come Dilthey ritenga che l’individuo “vede il mondo della propria esperienza solo come punto di partenza di un allargamento, che attraverso un processo di vivente trasposizione trascenda la ristrettezza e casualità della vita singola abbracciando l’infinità di tutto ciò che il mondo storico ci offre da rivivere”. In questa tradizione, perciò, “la coscienza storica è una forma di conoscenza di sé” acquisita mediante la riflessione critica sulle proprie esperienze e su quelle degli altri attori storici. Le storie umaniste del capitalismo ammetteranno sempre che esiste qualcosa chiamato esperienza del capitalismo. Il brillante tentativo di E.P. Thompson di ricostruire l’esperienza del lavoro capitalista da parte della classe operaia, per esempio, non ha senso senza questo presupposto. Le storie umaniste sono storie che producono significato facendo appello alla nostra capacità non solo di ricostruire ma, come avrebbe detto Collingwood, di rivivere nella nostra mente l’esperienza del passato. 

E allora, quando Wilson ci sollecita ad acquisire, nell’interesse del nostro futuro collettivo, un’autocomprensione in quanto specie, tale affermazione non corrisponde ad alcun modo di comprendere e connettere storicamente i passati ai futuri fondato sul presupposto che ci sia un elemento di continuità nell’esperienza umana. (Si veda l’osservazione di Gadamer appena citata.) Chi è questo “noi”? Noi esseri umani non viviamo mai noi stessi come specie. Possiamo comprendere intellettualmente o inferire l’esistenza della specie umana, ma non averne un’esperienza diretta. Non ci potrebbe essere nessuna fenomenologia di noi in quanto specie. Anche se ci identificassimo emotivamente con una parola come umanità, non potremmo sapere cos’è una specie poiché, nel contesto di una storia delle specie, gli umani sarebbero solo un’espressione particolare di tale concetto, come peraltro lo sarebbe una qualsiasi altra forma di vita. Ma non si fa esperienza di sé in quanto concetto. 

Il dibattito intorno alla crisi del cambiamento climatico può dunque generare sentimenti e saperi sui passati e i futuri umani collettivi che si collocano ai confini estremi della comprensione storica. Noi facciamo esperienza diretta solo di effetti specifici della crisi, ma non del fenomeno nella sua interezza. Dovremmo allora dire, seguendo Geyer e Bright, che “l’umanità non si manifesta più attraverso il ‘pensiero’” o, seguendo Foucault, affermare che “l’essere umano non ha più storia”? Geyer e Bright proseguono con spirito foucaultiano: “Il compito [della storia mondiale] è rendere trasparenti i lineamenti del potere che, sorretti dall’informazione, comprimono gli esseri umani in un’unica umanità”. 

Questa critica che vede l’umanità come un effetto del potere è ovviamente preziosa per tutta l’ermeneutica del sospetto che ha trasmesso alla ricerca postcoloniale. È uno strumento critico efficace quando si ha a che fare con le formazioni nazionali e globali del dominio. Ma non lo trovo adeguato per analizzare la crisi climatica. In primo luogo, confuse figurazioni di noi stessi e altre immagini mentali dell’umanità ossessionano invariabilmente la nostra interpretazione dell’attuale crisi. È solo così che siamo in grado di capire il titolo del libro di Weisman, Il mondo senza di noi, o il fascino del suo geniale quanto impossibile tentativo di raffigurare New York dopo la nostra scomparsa! In secondo luogo, il muro che divide la storia umana dalla storia naturale è stato abbattuto. Forse non viviamo noi stessi come agenti geologici, ma come specie lo siamo diventati. E senza questo sapere che mette in discussione la comprensione storica non esiste alcun altro modo per dar senso all’attuale crisi che ci riguarda tutti. Il cambiamento climatico, rifratto attraverso il capitale globale, indubbiamente accentuerà la logica della disuguaglianza che caratterizza il dominio del capitalismo; senza dubbio alcune persone ne trarranno un momentaneo profitto a danno di altre. Ma questa crisi nella sua totalità non può essere ridotta a una crisi del capitalismo. Contrariamente a quel che avviene nelle crisi del capitalismo, in questo caso non ci sono scialuppe di salvataggio per i ricchi e i privilegiati (si pensi alla siccità in Australia o ai recenti incendi nei quartieri ricchi della California). L’ansia che suscita il riscaldamento globale ricorda i giorni in cui molti temevano lo scoppio di una guerra nucleare globale. C’è però una differenza molto importante: una guerra nucleare sarebbe stata frutto di una scelta consapevole delle grandi potenze. Il cambiamento climatico è invece una conseguenza non intenzionale di atti umani e mostra, solo grazie all’analisi scientifica, gli effetti delle nostre azioni come specie. Specie potrebbe in effetti essere il nome-emblema di un’emergente e nuova storia universale degli umani, un segnale d’allarme che si mette a lampeggiare nel momento di pericolo rappresentato dal cambiamento climatico. Ma noi non potremo mai comprendere quest’universale. Non è un universale hegeliano che emerge dialetticamente dal movimento della storia, né un universale del capitale che si palesa con l’attuale crisi. Geyer e Bright hanno ragione a rifiutare queste due varianti dell’universale. Tuttavia il cambiamento climatico ci pone di fronte alla questione di una collettività umana, un noi, che allude a una figurazione dell’universale la quale sfugge alla nostra capacità di esperire il mondo. Somiglia più a un universale che emerge da un senso condiviso della catastrofe. Richiede un approccio globale alla politica senza il mito di un’identità globale, poiché, diversamente dall’universale hegeliano, non può sussumere i particolari. Potremmo provvisoriamente chiamarla una “storia universale negativa”. 


Dipesh Chakrabarty è uno storico indiano, professore presso l’Università di Chicago. Si è imposto come una delle figure di maggior rilievo della Postcolonial Theory col suo “Provincializzare l’Europa” (Meltemi, 2000). A partire da “The Climate of History” partecipa al dibattito mondiale sul cambiamento climatico

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