La danza delle consonanti: Purgatorio XXIV

Rieccoci con un nuovo commento a un canto della Divina Commedia, uno dei cento che L’indiscreto pubblicherà per il progetto “CCC”, il Commento Collettivo alla Commedia curato dal nostro Edoardo Rialti. Il commento di oggi è firmato da Silvia Guidi.


IN COPERTINA Un’opera di francois lafon

di Silvia Guidi


Con il contributo di  


 

Corso e i suoi fratelli, ovvero la danza delle consonanti

“Così semplice era tutto, chiudere gli occhi e guardare”; non è un verso di Dante ma sono le parole che più mi fanno compagnia tuffandomi nella danza delle consonanti del canto ventiquattresimo del Purgatorio. Meglio se ad occhi chiusi, meglio se le sillabe hanno la voce di Arnoldo Foà, senza forzature attoriali, vellutata e tranquilla, o di chiunque altro sappia sfiorarle in modo serenamente aderente al percorso tracciato dalle parole, sparendo il più possibile nel suono.

È un modo per non cedere al ricatto delle note a piè di pagina e non accettare meccanicamente come importante quello su cui tutti i commenti si soffermano, concedendosi il lusso di esplorare una partitura musicale complessa, ricchissima,  affascinante, imprevedibile.

In mezzo al tamburo battente delle terzine si aprono, senza preavviso,  bolle luminose di dolcezza struggente, radure di luce si fanno largo in mezzo alle sonorità più aspre, come “Donne che avete intelletto d’amore”, senza bisogno di ancorare subito le parole a una cronologia o a un contesto, ricordando i versi che seguono, o appendere l’attenzione alla stampella di una polemica scolorita dai secoli in una nebbia  indistinta, come un vestito troppo usato da generazioni e generazioni di commentatori, ricamatori dell’ovvio e sezionatori di antologie. Dove siamo, nella cantica, che cosa stia succedendo ai personaggi, di chi si stia parlando lo capiremo dopo, con calma. Se ci interessa, e secondo un ordine di precedenza che nessun altro ci può imporre. Dobbiamo spostare il baricentro sul partner che ci sta guidando nella danza, come nel tango, fidarci della coreografia disegnata da chi ha composto la musica, senza pensare ossessivamente all’interpretazione dei tanti Ginger e Fred che ci hanno preceduti. Più bravi di noi, certo, ma non sono noi. La mazurka delle sillabe, adesso, sta chiamando noi, ci sta invitando a ballare. In fondo, facciamo lo stesso con le canzoni; non cerchiamo sul web subito il testo, o la traduzione nella nostra lingua del ritornello e delle strofe, dobbiamo prima essere agganciati dall’alchimia di un intreccio di suoni, altrimenti l’interesse non fa neanche  in tempo a scattare.  Nella partitura del quattordicesimo, il primo verso inizia con un’altalena da ninna nanna, “Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento/facea, ma ragionando andavam forte,/sì come nave pinta da buon vento/e l’ombre, che parean cose rimorte/per le fosse de li occhi ammirazione/traean di me, di mio vivere accorte”.

Le fosse degli occhi si accendono di nuovo di attenzione, cose rimorte, fragili presenze scosse dai morsi della fame ritrovano interesse per qualcosa e qualcuno, si accorgono di un “diversamente vivente” che è venuto a visitarli.

“El mormorava; e non so che “Gentucca”/sentiv’io là, ov’el sentia la piaga/de la giustizia che sì li pilucca./”O anima”, diss’io, “che par sì vaga/di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,/e te e me col tuo parlare appaga””. Le sonorità petrose e spigolose di “Gentucca” e “pilucca” si stemperano nell’apertura delle vocali (anima, appaga), come un colpo di tacco segna il tempo prima di un assolo, in una danza folk. Prima di tornare a dipingere i morsi della fame, un desiderio tormentoso che vaga alla ricerca del suo oggetto, smagrisce e consuma (“Vidi per fame a vòto usar li denti/Ubaldin da la Pila e Bonifazio/che pasturò col rocco molte genti”). Isole di tranquillità emergono dal deserto dell’arsura, come nella terzina dedicata a Piccarda Donati (“La mia sorella, che tra bella e buona/non so qual fosse più, trïunfa lieta/ne l’alto Olimpo già di sua corona”) strattonata dalla vita ma inaspettatamente serena, travolta da una faida familiare dove chi dovrebbe proteggerti ti sta in realtà vendendo al migliore offerente. Un traditore tradito – suo fratello, Corso Donati –  da una fine terribile, profetizzata da Forese: “Or va”, diss’el; che quei che più n’ ha colpa,/vegg’ïo a coda d’una bestia tratto/inver’ la valle ove mai non si scolpa”. Dal cupo dramma dei disastri politici fiorentini alla raffinata calligrafia di un volo pieno di soffi ventosi (vernan, volan, vanno, viso) essenziale come un origami:   “Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,/alcuna volta in aere fanno schiera,/poi volan più a fretta e vanno in filo/così tutta la gente che lì era,/volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,/e per magrezza e per voler leggera”. Così semplice era (ed è) tutto, quando la poesia svela i suoi poteri di sortilegio diventato sillabe, “chiudere gli occhi e guardare”.

 

 

 


Il canto, integrale

Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la città lucana.’

Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento;

e l’ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.

E io, continüando al mio sermone,
dissi: “Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.

Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda”.

“La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più
, trïunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona”.

Sì disse prima; e poi: “Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.

Questi”, e mostrò col dito, “è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia”.

Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch’io però non vidi un atto bruno.

Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.

Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.

Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.

El mormorava; e non so che “Gentucca”
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.

“O anima”, diss’io, “che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga”.

“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.

Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.

Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
’Donne ch’avete intelletto d’amore’ “.

E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.

“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo”;
e, quasi contentato, si tacette.

Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,

così tutta la gente che lì era,
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.

E come l’uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l’affollar del casso,

sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”.

“Non so”, rispuos’io lui, “quant’io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch’io non sia col voler prima a la riva;

però che ’l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto”.

“Or va”, diss’el; “che quei che più n’ ha colpa,
vegg’ïo a coda d’una bestia tratto
inver’ la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.

Non hanno molto a volger quelle ruote”,
e drizzò li occhi al ciel, “che ti fia chiaro
ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.

Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro”.

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,

tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.

E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,

parvermi i rami gravidi e vivaci
d’un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.

Vidi gente sott’esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e ’l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.

Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

“Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso”.

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.

“Ricordivi”, dicea, “d’i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co’ doppi petti;

e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver’ Madïan discese i colli”.

Sì accostati a l’un d’i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.

“Che andate pensando sì voi sol tre?”,
sùbita voce disse; ond’io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.

Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,

com’io vidi un che dicea: “S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace”.

L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
com’om che va secondo ch’elli ascolta.

E quale, annunziatrice de li albori,
l’aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;

tal mi senti’ un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
che fé sentir d’ambrosïa l’orezza.

E senti’ dir: “Beati cui alluma
tanto di grazia, che l’amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,

esurïendo sempre quanto è giusto!”.

 

A questo link si leggono i commenti a tutti i canti dell’Inferno.


Silvia guidi è Giornalista, borsista Formenton nei giornali del gruppo Finegil (redazioni di Trento, Pescara, Milano), dal 2008 lavora nel servizio cultura de “L’Osservatore Romano”;  direttore responsabile della rivista di arte e letteratura “Il Fuoco”,  ha collaborato con la Sycamore T Company e la Fondazione Sismel-Ezio Franceschini per lo studio del medioevo latino. 

Ti è piaciuto questo articolo? Da oggi puoi aiutare L’Indiscreto a crescere e continuare a pubblicare approfondimenti, saggi e articoli di qualità: invia una donazione, anche simbolica, alla nostra redazione. Clicca qua sotto (con Paypal, carta di credito / debito)

0 comments on “La danza delle consonanti: Purgatorio XXIV

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *