I demoni non sono soltanto un problema teologico, antropologico o poetico: sono anche e soprattutto un problema filosofico.
In copertina: Saint John German School, 16th century. Lungo il testo: due demoni disegnati da Kazimir Malevich
(Questo testo è tratto da “Tra le ceneri di questo pianeta” di Eugene Thacker. Ringraziamo Not per la gentile concessione
di Eugene Thacker
traduzione di Claudio Kulesko
L’opinione condivisa è che la demonologia non sia più di alcuna rilevanza per la contemporaneità: tuttalpiù, è soltanto una sfortunata e anacronistica propaggine della teologia tardomedievale e primo-rinascimentale, quel genere di roba che popola l’immaginario dei moderni film dell’orrore. Tuttavia, alcuni recenti lavori di accademici quali Alain Bourreau, Nancy Caciola, Stuart Clark e Armando Maggi hanno contribuito a mettere in evidenza gli aspetti filosofici e politici della demonologia nel suo senso storico.
Il termine «demonologia» viene spesso inteso in quanto studio e classificazione dei demoni (inclusivo di attività quali stregoneria e negromanzia), una disciplina direttamente relata alla lunga e oscura storia di caccia alle streghe e persecuzione di eretici svoltasi in Europa tra XV e XVII secolo. Sebbene ancor prima di questo periodo i teologi cristiani, da Agostino a Tommaso, avessero ampiamente trattato della natura del male, l’idea di un nuovo campo di studi dedicato a questo argomento – così come alle sue applicazioni nel combattere e nello sradicare il male – non emerse fino al tardo XV secolo. Un punto di riferimento assai citato è la bolla papale Summis Desiderantes Affectibus (1484), promulgata da Papa Innocenzo VII come risposta alla crescente preoccupazione in merito alle attività ereticali, stregoneria inclusa, che costituivano una seria minaccia all’unificazione dell’autorità della Chiesa lungo tutto il continente. La bolla è interessante per diverse ragioni, e in particolare perché conferma l’esistenza delle streghe, della stregoneria e delle attività di tutti coloro i quali si «erano abbandonati ai demoni» tramite rituali mirati all’«istigazione del Nemico dell’Umanità». Ma se identificare un nemico in quanto nemico significa conferire forza a quel nemico, l’identificazione della stregoneria e dei rapporti con il demoniaco può essere una lama a doppio taglio. A partire dagli innumerevoli processi e dalle esecuzioni che ebbero luogo sotto l’insegna dell’Inquisizione (le moderne stime degli storici vanno dalle 40.000 alle 100.000 esecuzioni nella sola Europa continentale, tra il 1500 e il 1700), l’ambito dei processi per stregoneria, in alcuni casi, si estese fino a considerare la mera difesa da un’accusa di stregoneria come essa stessa un atto di eresia. La bolla Summis Desiderantes Affectibus non si limitò a identificare la minaccia, ma fornì raccomandazioni su come affrontarla, investendo inquisitori della Chiesa quali Heinrich Kramer e Jacob Sprenger dell’autorità legale per dare la caccia, processare e punire coloro i quali fossero sospettati di avere a che fare con demoni o di praticare la stregoneria. Circa due anni dopo la pubblicazione della bolla, Kramer e Sprenger pubblicarono un libro destinato a diventare l’archetipo del manuale di caccia alle streghe: il Malleus Maleficarum (Martello delle streghe, 1486). Gran parte dei contenuti del Malleus Maleficarum è tipico degli scritti sulla stregoneria e sulla demonologia di quel periodo. Vi sono riferimenti agli scritti dei Padri della Chiesa e ai teologi scolastici in merito ai pericoli del male e dei demoni malvagi. Ci sono anche alcuni tentativi di distinguere e classificare differenti tipi di attività demoniaca. E, ancora, un buon numero di casi di studio: episodi di stregoneria, di possessione demoniaca e altri atti malefici, utili a tratteggiare una panoramica della minaccia reale e incombente. Ciò che tuttavia rende unico il Malleus Maleficarum è il suo orientamento pratico. Non si tratta di un’opera di speculazione teologica, come il De Malo di Tommaso d’Aquino (Sul Male, 1270 circa); né di un tentativo di classificazione sistematica, come il Compendium Maleficarum (Enciclopedia della stregoneria, 1608 circa) di Francesco Maria Guaccio. Si tratta letteralmente di un libro d’istruzioni, come dimostrano le tre parti in cui il volume è suddiviso: Parte I, dove si dimostra l’esistenza delle streghe e della stregoneria, nonché la minaccia da queste rappresentata; Parte II, nella quale sono affrontati i metodi per individuare e smascherare streghe e sortilegi; e infine Parte III, in cui sono tratteggiati i protocolli d’esecuzione del processo, della sentenza e della punizione o esecuzione. In manuali quali il Malleus Maleficarum, di particolare interesse è il ruolo giocato dalla medicina del XVI secolo. Ne è un chiaro esempio la cultura della miasmatica generale, o teoria del contagio della possessione demoniaca. In questa comprensione premoderna del contagio, il demone è concettualizzato più o meno nel modo che già abbiamo visto in precedenza: una manifestazione paradossale di qualcosa che di per sé è «niente», o non-essere. Tutto ciò è illustrato nel Malleus Maleficarum attraverso tre diversi tipi di possessione demoniaca, ciascuno dei quali esibisce sintomi anomali che – stando ai demonologi – possono essere causalmente ricondotti a un qualche commercio con un demone.
A un primo livello vi è la possessione psico-fisiologica, nella quale lo spirito demoniaco invade e colpisce il corpo stesso (con sintomi che variano da disabilità temporanea e incapacitazione, a impotenza, infertilità, erotomania, epilessia, narcolessia e malinconia). A un secondo livello vi sono i casi di possessione epidemiologica, che condizionano i rapporti tra corpo e ambiente (come nel caso della peste, della lebbra, dell’isteria di massa e persino dei comportamenti delle folle). Infine, a un terzo livello, si trova un genere di possessione più astratta, climatologica, nella quale i demoni non possiedono solo il vivente ma anche il non-vivente, non solo l’animato ma anche l’inanimato (cambiamenti climatici innaturali o anomali, piaghe del bestiame o dei raccolti, carestie o inondazioni improvvise). In aggiunta al ruolo epistemologico della medicina vi è un altro ruolo, quello giuridico. Sebbene sia un testo che aspira ostinatamente alla distruzione di ogni attività stregonesca, il Malleus Maleficarum fa delle seppur minime concessioni a quelle che della stregoneria sono le cause naturali (ma non meno perseguibili), intendendo «naturali» come opposte a soprannaturali. In effetti, nonostante raramente ci si interrogasse sul carattere soprannaturale delle attività delle streghe e dei sortilegi, la causa esatta di date attività era potenzialmente aperta a interpretazioni. Vi possono essere ad esempio cause soprannaturali in grado di produrre sintomi naturali. Tali sintomi possono essere classificati come illusioni o come infermità. In caso di illusioni, l’interrogativo è se l’accusato stia intenzionalmente facendo ricorso a qualche trucco e per quale ragione (ad esempio per guadagnare del denaro, per vendetta, per gelosia, ecc.). In caso di infermità, invece, la domanda è di che tipo di infermità si tratti, e gli esempi più ricorrenti sono l’epilessia (per quanto definita in modo vago), l’isteria e la malinconia. Più che di sviluppare una conoscenza approfondita della possessione demoniaca, il ruolo della medicina è in questo caso di arbitrare – nel contesto giuridico del processo – il confine tra naturale e soprannaturale.
Sarà proprio questo ruolo a essere enfatizzato dagli autori successivi, maggiormente scettici nei confronti sia della caccia alle streghe sia della paranoia di massa che questa aveva prodotto. È però da notare che una spiegazione naturale di fenomeni quali la negromanzia o la possessione non esclude in alcun modo la presenza del soprannaturale: in molti casi, serve anzi come semplice strada alternativa in direzione dell’inevitabile sentenza. Benché i manuali di caccia alle streghe fossero a lungo proliferati, il Malleus Maleficarum segnò un nuovo standard, radunando in un’unica opera teologia (Parte I), medicina (Parte II) e giurisprudenza (Parte III). Ne risultò non solo un nuovo insieme di procedure giuridiche, ma anche un nuovo ambito discorsivo e un nuovo modo di pensare il demone nei termini del non-umano. Ciò è evidente anche nel dibattito primo-rinascimentale sulla validità dei demoni e delle possessioni demoniache, in trattati quali il De Praestigiis Daemonium (Sugli stratagemmi dei demoni, 1563) di Johann Weyer, la Démonomanie des Sorciers (La demono mania delle streghe, 1580) di Jean Bodin, e il Discoverie of Witchcraft (1584) di Reginald Scot. Il De Praestigiis Daemonium di Weyer è degno di nota per essere uno dei pochi trattati critici nei confronti degli eccessi della caccia alle streghe e dei processi per stregoneria. Benché Weyer ammettesse l’esistenza di streghe, stregoneria e demoni, lasciò comunque spazio a casi nei quali degli individui potevano essere stati ineluttabilmente ingannati dai demoni (credendo che le loro allucinazioni fossero reali), così come a episodi di semplice raggiro. Come Weyer fece minacciosamente notare, i veri demoni non hanno bisogno di noi per compiere i loro atti di perfidia: sarebbe anzi il colmo della vanità supporre che noi esseri umani possiamo in qualche modo essere loro necessari. Ad ogni modo, è importante evidenziare come Weyer, che aveva studiato con lo scienziato e celebre mago Cornelius Agrippa, spese gran parte della sua vita come medico, con significative conseguenze sulla sua apertura a possibili spiegazioni medico-psicologiche della stregoneria. Con graffiante sarcasmo, Weyer osserva che «così rari e gravi sintomi derivano spesso da cause naturali, ma sono immediatamente attribuiti alla stregoneria da uomini privi di esperienza scientifica e di poca fede». Il De Praestigiis Daemonium contiene inoltre diverse accuse allo smodato ricorso alla tortura e ai maltrattamenti nei confronti delle persone imputate di stregoneria, spesso prima di qualsiasi appropriata disamina del loro caso. La Démonomanie di Bodin rappresenta un contrattacco diretto a Weyer. Monaco carmelitano, membro del parlamento e professore in legge, Bodin è perlopiù conosciuto in filosofia politica per il suo imponente Les Six Livres de la République, contenente una prima teorizzazione di uno stato di sovranità assoluta. Scritta allo scopo di aiutare i giudici nei casi di stregoneria, la Démonomanie è un’opera inquietante, che sostiene tra le altre cose l’uso legale della tortura – incluso l’impiego di tecniche quali il cauterio – per estorcere confessioni di colpevolezza. Al suo interno vi è una delle prime definizioni legali di strega in quanto colei che «pur conoscendo la legge di Dio, tenta di portare a termine un qualche atto tramite un accordo con il Diavolo», ma anche una genuina litania sull’antagonismo antiumano dei demoni: «Tutti i demoni sono malevoli, ingannatori, ipocriti nemici dell’umanità». La Démonomanie non vacilla nemmeno di sfuggita nel denunciare la minaccia religiosa e politica costituita dalla stregoneria, vale a dire la minaccia che la stregoneria costituì nei confronti della ragion di stato.
In parte, la condanna contenuta nella Démonomanie sembrerebbe derivare dall’esperienza dello stesso Bodin come giudice: una carriera durante la quale assistette a un gran numero di processi per stregoneria, senza presumibilmente mostrare alcuna esitazione nel torturare bambini e invalidi allo scopo di ottenere una confessione. Se, nei confronti della stregoneria, Weyer incarna un atteggiamento tollerante (travestito da medicina) e Bodin il riduzionismo conservatore (mascherato da giurisprudenza), La Discoverie of Witchcraft di Scot rappresenta il passo successivo, ossia la messa in discussione della validità dell’intera faccenda. Al ruolo della medicina in Weyer e a quello della giurisprudenza in Bodin, si aggiunge il ruolo dello scetticismo in Scot. In effetti, per quanto Weyer e Bodin occupino due schieramenti politicamente opposti, entrambi rimangono teologicamente implicati in un’identica accettazione dell’esistenza di forze soprannaturali e nel paradigmatico conflitto del «bene contro il male». Al contrario, Scot – che ebbe il vantaggio di essere economicamente indipendente – non mutuò le proprie opinioni né dalla Chiesa né dalla scienza: la Discoverie of Witchcraft fu pubblicata a sue spese, ma non fu registrata né riportava il nome dell’editore. Presumibilmente ispirato a una serie di controversi processi per stregoneria condotti nei primi anni del 1580, nella sua critica il trattato di Scot è perlopiù sarcastico, quando non addirittura umoristico. Scot attacca sia le pretese avanzate dalle streghe e dalla stregoneria, liquidandole come semplici trucchi (diretti verso se stessi o gli altri), sia l’«estrema e intollerabile tirannide» di giudici e inquisitori. Per certi versi, il trattato di Scot è una sorta di stanza di compensazione per il concetto di demone, nonché per lo stesso soprannaturale. Quasi volesse accusare sia le streghe che gli inquisitori di avere una mentalità troppo provinciale, ancora umana-troppo-umana, la Discoverie of Witchcraft sembrerebbe suggerire che, finché vi sarà un concetto di demone, questo dovrà essere un concetto di cui possiamo avere poca o nessuna conoscenza.
I dibattiti che attorniano la stregoneria e la demonologia sono piuttosto istruttivi: il più delle volte, ruotano attorno alla nostra capacità di comprendere adeguatamente il soprannaturale, sia esso divino o demoniaco. In particolare, la discussione sulla figura del demone sembra oscillare tra satiri chiaramente antropomorfi e ben più astratte e misteriose entità in grado di transitare da persona a persona tramite il respiro. Gran parte della confusione nei primi trattati di demonologia deriva dal problema di come verificare l’esistenza dei demoni – anche perché, per definizione, raramente i demoni si manifestano in maniera incontrovertibile all’osservatore umano. Nei casi in cui la possessione demoniaca risultasse indistinguibile da un’infermità medica, da quale lato ci si dovrebbe schierare? A una mente del XXI secolo, un interrogativo del genere apparirebbe assurdo. Ma in un’epoca in cui i confini tra magia, scienza e stregoneria si sovrapponevano indefinitamente, tali domande non riguardavano solo la religione e la politica, ma anche la filosofia. Per la cultura del primo Rinascimento, il demone rappresenta un limite dell’empiria innanzi all’ignoto, qualcosa di verificabile solo attraverso tutta una serie di contraddizioni – una manifestazione assente, una creatura innaturale, una malattia demoniaca. Sono contraddizioni che mettono a dura prova i limiti stessi del linguaggio, tanto che uno dei sottoprodotti del vortice di scritti demonologici fu proprio lo sviluppo di un linguaggio nuovo, nonché di un nuovo insieme di concetti atti a pensare il soprannaturale. Questo linguaggio e questi concetti furono senz’altro derivati dalla teologia: ma nel descrivere gli effetti della possessione, nell’evocare le scene dei sabba delle streghe, nell’immaginare un mondo pervaso da entità malefiche, fu necessario elaborare anche una certa poetica del demone. La demonologia – che sia interessata a persuadere o a criticare – è tanto un’attività retorica quanto teologica o giuridica. È per questo motivo che, in contrasto a una visione meramente teologica della demonologia, potremmo considerare la poetica come altrettanto rilevante per il concetto di demone. Se dovessimo tratteggiare una poetica del demone, potremmo cominciare a pensare il demoniaco in termini di rappresentazioni letterarie. Più nello specifico, potremmo comprendere il demone attraverso differenti temi rappresentativi. La tecnica narrativa del viaggio – così comune nella storia della letteratura mondiale − è ad esempio una delle principali caratteristiche della Commedia dantesca: Dante comincia il suo pellegrinaggio tra gli oscuri gironi dell’Inferno, passa per la spirale conica del Purgatorio, e infine giunge alle geometrie celesti del Paradiso, venendo sottoposto a varie prove lungo tutto il cammino. Si tratta di un tema topologico, nel quale si incontrano diversi personaggi, luoghi e creature. Il demoniaco è qui simbolicamente inscritto in determinate località (ad esempio nel modo in cui ogni differente cerchio infernale contiene differenti tipologie di punizioni demoniache, ciascuna elaborata allo scopo di punire un peccato differente). Lo stesso vale per altri temi narrativi. C’è il tema battaglia, che si può ritrovare nel Paradiso perduto di Milton, ma anche in alcune scene tratte dalle profezie di William Blake che proprio a Milton si ispirano (e che al tempo stesso criticano). È qui che possiamo ritrovare una struttura fondata sull’antagonismo, con il demoniaco intrappolato in un eterno conflitto. Vi è poi il tema del patto, l’oscuro contratto firmato col sangue che al tempo stesso libera e imprigiona un personaggio umano. Si tratta di una struttura giuridica ed economica, associata alla storia di Faust e alle sue incarnazioni letterarie con autori come Marlowe e Goethe: ti cedo la mia anima, e in cambio tu mi dai… tutto. Il patto si sovrappone spesso a un’altra tematica narrativa, quella del rituale: le famigerate descrizioni di messe nere in romanzi come L’abisso di Huysmans, o Il battesimo del diavolo di Wheatley, hanno a che fare con tutta una serie di atti sacrileghi che, al tempo stesso, esprimono la santità del male. Il demoniaco è il contro-divino, che nel medesimo istante nega il divino e santifica il demoniaco. I romanzi «neri» di Wheatley sono particolarmente degni di nota: qui il protagonista De Richleau, nella sua battaglia contro i demoni e le forze oscure, fa spesso ricorso sia a conoscenze antiche sia alle scienze moderne, dando seguito al genere narrativo del «giallo occulto» inaugurato da autori quali Sheridan Le Fanu. Infine, vi è il tema più moderno – e più tecnologico – dell’artefatto magico, l’oscura invenzione che segna l’avvento di una nuova apocalisse. Racconti di fantascienza come L’alba delle tenebre di Fritz Leiber e Pasqua nera di James Blish, scritti all’ombra delle guerre mondiali e del rischio di un’estinzione di massa, fanno riferimento a un’infausta affinità tra tecnologia e soprannaturale. Nel romanzo di Leiber, un Papato futuristico decide di impiegare un gran numero di effetti speciali tecnologizzati per garantire la fedeltà delle masse all’egemonia della Chiesa.
-->Ed è proprio contro di esso che un intero sottomondo demoniaco fatto di streghe, stregoni e famigli, porta avanti la propria causa rivoluzionaria. All’inverso, il romanzo di Blish mostra come, attraverso le armi di distruzione di massa, abbia preso forma un nuovo tipo di patto faustiano, con la fisica quantistica al posto della negromanzia. In queste opere del XX secolo, il demoniaco investe ruoli differenti: si presenta o come un contropotere rivoluzionario, o come una forza ignota, posta al di là della comprensione e del controllo degli uomini. Uno dei più evidenti punti in comune tra opere di questo tipo è che quasi tutte sembrano seguire una regola non scritta: alla fine, l’antagonista demoniaco deve sempre «perdere». Senza dubbio sono storie che sembrano tradire la medesima struttura morale del romanzo o del poema epico (in modo simile al lieto fine obbligatorio dei film commerciali); tuttavia, da questo deus ex machina si rimane sempre un po’ delusi. Il Faust di Goethe, ad esempio, arriva fino in fondo alla sua esplorazione demoniaca, per poi a un certo punto pentirsene e – nella Parte III – guadagnarsi la salvezza in virtù della grazia divina. Similmente, vi sarebbe poi la celebre dichiarazione di Blake sul Paradiso perduto di Milton, secondo la quale quest’ultimo fu dalla parte del Diavolo, ma senza saperlo. È qui che si può riscontrare il problema dell’«essere-dalla-parte» del demoniaco, laddove il demoniaco è ignoto e, forse, inconoscibile. Tuttavia, il fallimento dell’antagonismo demoniaco in questi esempi letterari non sarebbe tanto una testimonianza della natura vittoriosa del bene, quanto l’indicatore di una certa economia morale dell’ignoto. Alla fine del Faust di Goethe, pur essendo stati continuamente depistati e sviati, del demoniaco non sapremo né più né meno di quando avevamo cominciato a leggere.
Eccoci nuovamente al concetto di demone in quanto limite del pensiero, un limite costituito non dall’essere o dal divenire, ma dal non-essere e dal nulla. Ed è a questo punto che dobbiamo dichiarare apertamente ciò che abbiamo finora solo accennato, e cioè che in contrasto alla teologia del demone, o alla poetica del demone, vi è qualcosa di più fondamentale, che coinvolge i concetti di negazione e nientità; è per questo che davvero dovremmo cominciare a pensare al demone come a un problema ontologico: non teologico, non poetico, ma filosofico. Che la demonologia sia un fenomeno teologico non ci sono dubbi, legata com’è al dibattito storico sulla natura del male e alle politiche riguardanti la caccia alle streghe. Ed è altrettanto chiaro che sia anche un fenomeno culturale, come dimostrano diversi esempi poetici, letterari, cinematografici e videoludici. Tuttavia, se intesa come un fenomeno «meramente» storico o come «solo» una finzione, la demonologia smettere di essere interessante. Se dobbiamo pensarla in un registro filosofico, la demonologia deve funzionare come una sorta di filosofema in grado di riunire quell’insieme di idee che, per un certo tempo, hanno ricoperto la funzione di aree problematiche per la filosofia stessa: la negazione, la nientità e il non-umano. Che forma potrebbe avere un simile approccio alla demonologia? Per cominciare, bisognerebbe distinguere la demonologia dall’antropologia, nella quale il demone è un semplice sostituto per l’essere umano e per le elucubrazioni sulla natura del male nell’essere umano stesso. Andrebbe anche distinta dalla metafisica pura, nella quale il demone ha la funzione di sostituire la coppia essere/non-essere. Rifiutare la visione antropologica significa considerare il mondo non semplicemente come il mondo-per-noi o il-mondo-in-sé, ma come il mondo-senza-di-noi. Allo stesso modo, rifiutare la prospettiva metafisica significa prendere in considerazione l’inaffidabilità del principio di ragion sufficiente per pensare il mondo (passare dalla ragion sufficiente a una strana, inquietante, insufficienza della ragione). Una demonologia filosofica dovrebbe perciò essere «contro» l’essere umano: sia per quanto riguarda l’«umano» che per quanto riguarda l’«essere». Forse per questo modo di pensare potremmo coniare un nuovo termine: demontologia. Se l’antropologia è fondata su una divisone tra il personale e l’impersonale (l’«uomo» e il cosmo), la demontologia fa collassare questi due termini in un accoppiamento paradossale (gli affetti impersonali e la sofferenza cosmica). Se l’ontologia ha a che fare con una relazione minima di essere e non-essere, la demontologia deve affrontare il pensiero della nientità (una definizione negativa) che a sua volta non corrisponde al semplice non-essere (una definizione privativa). A illuminarci sul concetto è Schopenhauer, quando ricapitola la distinzione tra questi due tipi di negazione:
In proposito, devo anzitutto osservare che il concetto di nulla (Nichts) è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre a un qualcosa di determinato che esso nega. Si è attribuita (principalmente da Kant) questa qualità soltanto al nihil privativum, che è ciò che viene indicato con un −, in opposizione a un +; e questo −, da un opposto punto di vista, potrebbe diventare un +, e in opposizione a questo nihil privativum è stato posto il nihil negativum, che sotto ogni aspetto sarebbe il nulla, per il quale si adopera come esempio la contraddizione logica, che annulla se stessa. Ma a ben considerare, nessun nulla assoluto, nessun vero e proprio nihil negativum, è anche soltanto pensabile; ma ogni nulla di questo genere, considerato da un punto di vista superiore, o sussunto sotto un concetto più ampio, continua ad essere soltanto un nihil privativum.
Per Schopenhauer, il nihil privativum è il mondo per come ci appare, il mondo-per-noi, il mondo come «Rappresentazione» (Vorstellung), mentre il nihil negativum è il mondo-in-sé o il mondo come «Volontà» – o meglio, il mondo-in-sé per come si manifesta a noi, nella sua inaccessibilità, nelle sue enigmatiche «qualità occulte». Come osserva Schopenhauer, «ciò che è universalmente ritenuto positivo, ciò che noi chiamiamo l’ente (Seiende), e la cui negazione è espressa dal concetto di nulla (Nichts) nel suo significato più generale, è esattamente il mondo della rappresentazione». Come nel caso del nihil negativum, Schopenhauer – generalmente veemente nei suoi attacchi alla religione – suggerisce una strana affinità con il misticismo:
Finché noi siamo la stessa volontà di vivere, quel nulla può essere da noi conosciuto e designato soltanto negativamente […]. Se, tuttavia, si insistesse assolutamente per ottenere in qualche modo una conoscenza positiva di ciò che la filosofia può esprimere soltanto negativamente come negazione della volontà, non ci rimarrebbe altro che rimandare a quella condizione, che hanno vissuto tutti coloro che sono pervenuti alla perfetta negazione della volontà, e che è stata designata con i nomi di estasi, estraniazione, illuminazione, unione con Dio, ecc.
In un certo senso, il nihil negativum non riguarda solo i limiti del linguaggio nel descrivere adeguatamente l’esperienza, ma l’orizzonte del pensiero nel confrontare l’impensato, l’orizzonte dell’umano nel suo sforzo di comprendere l’inumano. Eppure, sottolinea Schopenhauer, tale «condizione non si può chiamare propriamente conoscenza, poiché non ha più la forma di soggetto e oggetto e, d’altronde, è accessibile soltanto all’esperienza diretta, che non può essere ulteriormente comunicata». Data la distinzione tra nihil privativum e nihil negativum e le sue implicazioni nel pensare il mondo come mondo non-umano, giungiamo a un vero e proprio dilemma. Una demontologia come quella qui discussa dovrebbe distinguersi dalla cornice morale, giuridica e cosmica della demonologia cristiana (caratterizzata dalle categorie di legge morale, trasgressione, peccato, punizione, salvezza ecc.); ed è proprio su questo punto che la demontologia interviene accettando una delle più grandi sfide del pensiero contemporaneo. È una sfida per molti versi nietzschiana: come si può ripensare il mondo in quanto impensabile, sarebbe a dire in assenza di un punto di vista umanocentrico, e senza troppo dipendere dalla metafisica dell’essere? Ancora una volta, ci scontriamo con ogni sorta di ostacoli, dovuti in parte alla (momentanea) inesistenza di una demonologia filosofica. Dovremmo allora inventarci una sorta di albero genealogico, citando i possibili predecessori di questo tipo di Pessimismo Cosmico? Ecco che comincia un interminabile gioco di inclusioni ed esclusioni: andrebbero citati filosofi classici quali Eraclito? Dovremmo includere le opere della tradizione della «mistica dell’oscurità» o della teologia negativa? Cose fare delle opere dei grandi pensatori delle crisi filosofiche e spirituali, come Kierkegaard, Emil Cioran e Simone Weil?
Abbiamo già nominato Schopenhauer e Nietzsche: saremmo perciò obbligati a considerare i loro prosecutori del XX secolo come Bataille, Klossowski e Shestov? E, ancora una volta, non sarebbe un errore fondamentale postulare o anche solo augurarsi la fondazione di un campo dedicato alla negazione e alla nientità? Sarebbe possibile dichiarare l’esistenza di una demontologia senza rimanere incastrati in un inesauribile teatro dell’assurdo? Probabilmente, l’unica cosa certa è che se qualcosa come la demontologia potesse davvero esistere, non sarebbe resa più rispettabile dalla propria mera esistenza: perché nulla è più sdegnoso del nulla…
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