La “dignità” non esiste


Non c’è testo contenuto in carte costituzionali, saggio di filosofia morale, scritto di ascesi religiosa, enciclica papale, sentenza di corti di giustizia dove la dignità non sia assunta a valore omnicomprensivo della “natura umana in sé”, ma cos’è la “dignità”? Un concetto assoluto? Una qualità da conquistare o innata? Una parola priva di senso a cui appellarsi?


In copertina: Anonimo, sec. XVIII, Coppia di aristocratici, Asta pananti online

(Questo testo è tratto da “Quale Dignità” di Cosimo Marco Mazzoni. Ringraziamo Olschki per la gentile concessione)


di Cosimo Marco Mazzoni

Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa.

Cesare Beccaria

A chi, al giorno d’oggi, venisse l’idea di provare ad interrogarsi attorno a una parola osannata e dileggiata, come quella che il lessico antico ha in comune con quello contemporaneo, si troverebbe a parlare di dignità con spirito incerto e magari dubbioso, ben sapendo di fare opera oziosa.

Dibattere ancora della dignità, dopo i fiumi di scritti degli ultimi tempi, può sembrare proposito che lascia il tempo che trova, oppure temerario, oppure addirittura pregiudizioso. Tuttavia, è proprio la sua sempre rinnovata modernità, così smisurata da diventare una moda pressoché quotidiana del parlare corrente, accresciuta dai continui proclami contenuti in quasi tutte le leggi europee, a obbligare a ripercorrere – tanto per cominciare come primo argomento all’ordine del giorno – il suo lungo percorso espressivo. Si troverà di fronte, chi volesse azzardare l’impresa, a un tale groviglio semantico, che solo un colpo di spada potrebbe scioglierne il nodo gordiano. Tenterò di ripeterne e con un po’ di coraggio riassumerne le tappe essenziali, cercando di aggiungere qualche tassello di originalità, ma evitando di invischiarmi verso indagini dall’incerto statuto.

La parola ha avuto nei secoli modalità lessicali e varietà di sensi talmente diversi da lasciare esitanti sulla sua consistenza concettuale. Proverò allora in queste pagine a descrivere le forme d’uso del termine e la sua fenomenologia con spirito critico, estendendo l’analisi, in qualche modo scettica, delle diverse concezioni della nozione.

Attorno alla locuzione si è sviluppato un dibattito anche troppo ampio, che si è poi articolato in una serie tumultuosa di esemplificazioni, di applicazioni normative, di dichiarazioni di principio, di esortazioni alla sua effettività. Il vocabolo è tirato per i capelli da più parti per indicare stati d’animo e comportamenti, direi antropologici, dove interviene sempre l’uomo. L’espressione è usata nei quadri i più vari, applicata non solo a individui, ma a circostanze, f rangenti i più diversi, dando così àdito a una visione olistica del nostro concetto. Se n’è circoscritto il campo parlando di “dignità umana”. Il suffisso non ha eliminato tuttavia il problema della prolificazione semasiologica del concetto: tra dignità e dignità umana corre solamente un’aggettivazione che ne restringe l’arco applicativo, quasi a voler estrarne un sintagma, ma non contribuisce alla chiarificazione del concetto. Da quel dibattito cercherò di cavare alcune nozioni, e spero forse il suo percorso storico, filosofico ed epistemologico, limitandomi alla considerazione dell’onorabilità della vita dell’uomo, e dunque tralasciando altri sensi che riguardano cose, o attività, o istituzioni; oppure animali, territorio, paesaggio, natura insomma, se non in un breve ragionamento alla fine.

Si deve subito avvertire che è forse impossibile – come si dedurrà chiaramente dalle pagine che seguono – esporre l’argomento se non in prospettiva storica. Che cosa ha significato il concetto storicamente. Prima di proseguire è tuttavia necessario chiedersi: dignità è un concetto assoluto, oppure più semplicemente un’espressione ellittica che intende indicare fenomenologie di volta in volta diverse nel tempo? È il dilemma che si è posto chi ha svolto il discorso in termini storici, per esempio di recente Michael Rosen e Nicola Casaburi. Per cominciare, vorrei far rilevare una verità lapalissiana: dignità non è concetto ecumenico, generale, e neppure principio assoluto. Il suo valore polisenso è sempre stato collocato in diretto rapporto all’ambiente sociale, alle situazioni economiche, alle posizioni personali, persino ai sentimenti delle persone, infine alla storia: anzi, direi che solo il percorso storico può chiarire il senso del suo relativismo e del suo viluppo semantico. Devo solo avvertire che non sarà un itinerario lineare, ma spesso à rebours, come qualche volta capita nei discorsi storici, ma sempre dovrà tener conto della consecuzione storica delle idee. Perché ciò di cui mi accingo a fare è proprio un percorso attorno ad un concetto che ha una lunga tradizione nella storia delle idee, antiche e moderne.

Ancora un’altra avvertenza nel discorso che comincia. Si sono sedimentate nel tempo due correnti di pensiero che oggi si contendono il campo e pretendono ciascuna la loro esclusività. Di queste due correnti si sono impadronite le principali impostazioni filosofiche. Ridotte all’osso, si possono sintetizzare in questi termini: dignità come qualità innata dell’uomo, da un lato; e dignità come virtù da conquistare e conservare, dall’altro. Come ci si accorge subito, si tratta di distanze concettuali siderali.

***

Dalla sua origine di termine che indica la funzione, l’ufficio, e conseguentemente la qualità e la condizione di onorabilità di chi quella carica ricopre o sottende (significato tutt’ora presente nel lessico italiano), e del quale si descriverà tra poco i caratteri originali partendo dai filosofi antichi, la speculazione filosofica ne ha maturato un concetto vasto ma lontano da quell’origine. Esso si avvicina, gradualmente, alle qualità intrinseche dell’uomo delle quali la carica o l’ufficio ricoperto dovrebbe o vorrebbe essere lo specchio.

Si è così venuto consolidando nel tempo il senso che la parola vuole esprimere con la locuzione “principio della dignità umana” (Kant). È questo il punto di partenza per ogni considerazione del concetto come principio etico e metagiuridico cui occorre rifarsi: dignità dunque come principio. Anche se vogliamo accostare il vocabolo a contenuti politici e giuridici dove essa è attualmente richiamata, è necessario partire da alcuni riferimenti filosofici, a cominciare dal seguente fondamentale testo:

Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità.

La dignità di un essere ragionevole consiste nel fatto che egli non obbedisce a nessuna legge che non sia istituita anche da lui stesso, afferma il filosofo tedesco. Il nesso kantiano è ripetuto ovunque e instancabilmente, avverte il filosofo belga Gilbert Hottois, e come vedremo meglio più avanti:

Questo riferimento non è ingiustificato, ma esso contiene dei presupposti e dei vincoli raramente resi espliciti. Non è né neutro né innocente. Rafforza le concezioni dualiste, universaliste, essenzialistiche, idealiste, spiritualiste e religiose cristiane caratteristiche del pensiero kantiano.

Nei testi costituzionali recenti essa prende posto al centro della dichiarazione dei diritti fondamentali. Pretende di rappresentarne il presupposto. Il termine in ogni caso è oggi causa di visioni divergenti sia sul suo significato proprio, sia sulla sua utilità d’impiego nell’ambito dei diritti umani. Se n’è dette di tutte al suo indirizzo, dato il suo carattere generico: è concetto sfuggente, espressione ambigua, nozione inutile, artificio retorico senza sostanza, luogo comune, requisito banalmente estetico, persino stupido. Bisogna prestare attenzione a giudizi del genere, ancorché tranchant, perché interpretano un modo di sentire e un giudizio assai diffuso, e risalente. Schopenhauer si divertiva a dileggiare la parola:

Le parole dignità dell’uomo, una volta pronunciate da Kant, diventarono lo shibboleth di tutti i moralisti sconsigliati e spensierati, che nascosero la mancanza di un fondamento morale – un fondamento vero o almeno qualcosa di somigliante – sotto le impressionanti parole dignità dell’uomo, calcolando con furbizia che anche il loro lettore si vedesse fornito di questa dignità e si considerasse quindi soddisfatto.

Nel 2008 Steven Pinker, uno psicologo di Harvard, scrisse un articolo che fece chiasso, dal titolo “The Stupidity of Dignity”.

Il problema è che la “dignità” è una nozione sdolcinata e soggettiva, inidonea a svolgere i pesanti compiti morali a essa assegnati.

L’occasione riguardava un Report del President’s Council on Bioethics creato in quell’anno dal presidente Bush dal titolo Human Dignity and Bioethics. Attraverso una serie di esempi, spesso ridicoli o paradossali, lo psicologo intendeva dimostrare che è un concetto inutile, espressione di una percezione umana superficiale, alla quale forse si vuole attribuire un effimero significato morale, e per svilirne il senso, usa metafore sarcastiche: “è lo sfrigolìo, non la bistecca, è la copertina, non il libro”:

Non dovremmo ignorare un fenomeno che induce una persona a rispettare i diritti e gli interessi di un altro. Ma ciò spiega anche perché la dignità è relativa, fungibile, e spesso dannosa. Dignità è superficiale, è lo sfrigolìo, non la bistecca; la copertina, non il libro. Ciò che alla fine importa è il rispetto per una persona, non il perpetuo richiamo che lo scatena. In effetti, il divario tra percezione e realtà ci rende vulnerabili verso le illusioni della dignità.

Sulla stessa linea d’onda di violento rifiuto è la presa di posizione di Ruth Macklin, che insegna etica medica al Albert Einstein College of Medicine:

Non significa nient’altro che rispetto per le persone e la loro autonomia… L’appello alla dignità popola il territorio dell’etica medica. La dignità è concetto utile per un’analisi etica delle attività mediche? Un’attenta osservazione di casi importanti mostra che gli appelli alla dignità sono vaghi riferimenti ad altre, più precise, nozioni, oppure meri slogan che niente aggiungono alla sua comprensione.

C’è solo da osservare che ambedue gli scrittori ora citati si muovono attorno ai problemi legati alla bioetica e alle tecnologie riproduttive. Tutte le ipotesi esaminate riguardano la dignità applicata alla genetica umana. Non ci sarebbe niente di male, naturalmente, ma il campo risulta alquanto più ristretto.

***

Vorrei adesso voltare pagina per aprire un lungo discorso sulle riflessioni che il sociologo americano Richard Sennett dedica alla parola, e al concetto, di rispetto. “Rispetto”, egli dice, non è proprio un sinonimo di dignità. Gli ricorda molto la parola “prestigio”, somiglia a riconoscimento, a onore, a status. È, questo di Sennett,

un libro di grande fascino, arricchito di ricordi personali e considerazioni storiche nei quali il concetto di rispetto si eleva a principio dell’etica, a riconoscimento della dignità propria o altrui, al senso della reciprocità sociale: «Rispetto è un modo di esprimersi. Vale a dire, trattare gli altri con rispetto non è una cosa automatica, anche con la migliore volontà del mondo; portare rispetto significa trovare le parole e i gesti che lo rendano convincente».

Bisogna tuttavia convenire che il rispetto sia spesso minacciato da forme sentimentali o emotive di falsa solidarietà. Alla sfera delle emozioni lo riduce lo stesso Kant, quando definisce il rispetto (Achtung) come l’impegno a riconoscere negli altri uomini, oltreché in se stessi, una dignità che si è in obbligo di salvaguardare:

Ma la stessa legislazione, che assegna ogni valore, deve appunto perciò avere una dignità, ossia un valore incondizionato, incommensurabile, per il quale solo la parola rispetto (Achtung) fornisce l’espressione appropriata alla stima che un essere razionale deve avere verso di essa.

È probabile che nella nozione di rispetto sia contenuta la solidarietà che dovrebbe avere alla base la considerazione reciproca. Ma solidarietà si può confondere talvolta con compassione. Il sociologo americano usa parole crude al proposito, come sentimento che urta la dignità e il rispetto delle persone cui è rivolto. Compassione è un sentimento, un’emozione che induce alla beneficienza; e regalare qualcosa può essere uno strumento manipolatorio. Nietzsche lo considerava un istinto depressivo e contagioso che indebolisce gli altri istinti:

La compassione sta in contrasto con gli affetti tonici che elevano l’energia del sentimento vitale: essa agisce in senso depressivo. Si perde forza quando si ha compassione… Aristotele, come è noto, vide nella compassione uno stato morboso e pericoloso.

Il far del bene è offensivo dell’amor proprio del destinatario. Sennett descrive come la compassione verso il povero, che consiste nell’aiutarlo materialmente attraverso un coinvolgimento sentimentale, possa ferirne la dignità. Il benefattore desta sospetto, perché la beneficienza è gemella dell’orgoglio, si trasforma in condiscendenza e alla fine in disprezzo, e solo più raramente in solidarietà. «Un sentimento di pietà mista a riprovazione e sdegno per una condizione di traviamento morale, di colpa, o anche di compatimento sprezzante». «Dare agli altri può essere un modo per manipolarli», perché il fatto di dare non è di per sé portatore della carica positiva di un atto di solidarietà, perché «la carità ferisce», come dice Mary Douglas. Lo stretto rapporto tra compassione e dignità lo si può trarre dalle parole della grande antropologa inglese:

La carità è intesa come dono gratuito, una cessione di risorse volontaria non richiesta. Sebbene la lodiamo come virtù cristiana, sappiamo che la carità ferisce… Il fatto è che tutta l’idea di dono gratuito è basata su un equivoco. Non esistono doni gratuiti. Ciò che è sbagliato nei cosiddetti doni gratuiti è che l’intenzione di chi dona è di essere esentato da doni che arrivano dal beneficiato… Un dono che non fa niente per aumentare la solidarietà è una contraddizione.

Anche l’atto del dono può essere piegato ad una visione della dignità che tradisce un rapporto di sottomissione. È il gesto del ricco, armato di dignità e di potere, che si “degna” di dispensare doni sotto forma di elemosine. La sua onorabilità si esprime nel modulare il dono verticale, non restituibile, e garantisce della bontà dell’atto e che si esprime nell’autocompiacimento, nel godimento di se stessi; si manifesta come espressione della propria dignità, fatta di potere, di supremazia e che non attende restituzione. Jean Starobinski ha scritto pagine magnifiche sul rapporto tra chi dona e chi riceve come strumento di sovranità. Si tratta del paradosso del dono ridotto all’acquisizione di un potere, di un prestigio. Ecco un altro luogo dell’animo dove si può scorgere una forma, anomala, di dignità.

Curiosa e degna di nota, perché proviene da un sociologo americano, forsanche versato agli studi sull’umanesimo italiano, la citazione che Sennett fa di Giovanni Pico:

Il filosofo rinascimentale Pico della Mirandola formula l’idea che “l’uomo è artefice di se stesso”, con la quale intende che la formazione di sé è un’esplorazione, piuttosto che l’applicazione di una ricetta. Religione, famiglia, comunità, sostiene Pico, definiscono la cornice, ma è compito di ciascuno scrivere la propria parte.

Tornando alla nostra parola, alcuni giuristi, almeno italiani, ne sembrano invece affascinati: Elogio della dignità (Flick), La rivoluzione della dignità (Rodotà). Ha sempre colpito l’immaginazione del giurista, forse perché è un vocabolo d’incerta collocazione nel dizionario giuridico; forse perché è comparso da protagonista, col suo fascino evocativo di intenso magnetismo, nelle recenti carte costituzionali; forse perché è uno strumento linguistico che si può giocare su vari tableaux contemporaneamente. Fatto sta che non se ne può parlare se non cedendo alla sua seduzione. Un esempio di come il discorso possa portare lontano in un indefinito luogo dell’anima, dove il termine diventa oggetto di riscatto dalle ingiustizie, di rifugio contro il male, sostegno dai disagi dell’esistenza, è dato dalle pagine di Giovanni Maria Flick: «La dignità è un ponte

dagli orrori, gli errori, e le angosce del passato verso i fantasmi, le inquietudini e le paure del presente e del futuro».

Può essere accostata a tutto, è termine di confronto per qualunque moto dell’animo umano e di qualunque condotta dell’individuo dentro la società. E così, è invocata come argine alla «dimensione dei nuovi conflitti legati all’intolleranza, al fanatismo e al terrorismo globale». Non c’è più limite di fronte alla sua pervicace presenza: ecco la voce magica, il toccasana per ogni tempo e per ogni luogo; basta pronunciarla e subito si aprono le porte del paradiso. In alcuni tratti quelle pagine sembrano assumere un senso vagamente ideologico. È l’ideologia dell’integrità e dell’onestà, della vita retta in contrasto ai mali del mondo, alla corruzione, alla violenza. E alla fine, tutto diventa possibile: «La dignità, nella sua vaghezza, è o dovrebbe essere un punto di riferimento essenziale e insostituibile, per cercare di incanalare e di gestire – anche se non di riuscire a placare – le nostre inquietudini e angosce di fronte alla realtà».

“Dobbiamo ancora parlare di dignità della persona umana?” si chiede il gesuita francese Paul Valadier, in un saggio in aperto contrasto col razionalismo kantiano. «Non diventa fonte di confusione e dunque non è scaduto il suo rango di criterio di giudizio?».

Nella maggior parte dei proclami, anche tra i più recenti e i più autorevoli, per esempio quelli che provengono dalla politica europea, si vuole continuare a vederne un’idea centrale e irrinunciabile, un caposaldo universalmente accettato della vita civile, un principio fondativo. Per la verità, qualche commentatore controcorrente e in vena di scetticismo ha sostenuto che la voce non abbia alcun significato coerente, ma che sia divenuta nel tempo il mero contenitore di un ampio coacervo d’idee politiche, sociali, religiose. Ma, d’altronde è bene avvertire, che l’opinione che avanzi questi dubbi al riguardo è vista con sospetto dalla stragrande maggioranza di coloro che discettano dell’argomento; la verità è che essa è diventata intoccabile, guai a metterla in discussione.

Si potrebbe solo aggiungere, a chi avesse tentato di trovarne uno sbocco pratico, una qualche forma di applicazione diretta, una Verwirkung, che questi, pur armato delle migliori intenzioni, si sarà sempre accorto di aver di fronte la forza impalpabile dell’idea, che rigetta nel calderone della genericità il destino del concetto. Se ne potrà ripercorrere il frastagliato percorso semantico e poi ermeneutico attraverso l’acuto e spesso divertente libro di Casaburi, sopra citato.

Insomma, è un argomento tabù, che dispensa dal discutere: è inutile stare a criticare un assioma così evidente. Non c’è testo contenuto in carte costituzionali, saggio di filosofia morale, scritto di ascesi religiosa, enciclica papale, sentenza di corti di giustizia dove la dignità non sia assunta a valore omnicomprensivo della “natura umana in sé”. Allora, bisognerà ammettere che è abbastanza raro che una nozione morale incroci così aspri e contrastanti giudizi. L’appello alla dignità diventa il vertice, la summa, l’argomento decisivo e inconfutabile per il riscontro della validità di principi d’eguaglianza, di libertà, dell’autodeterminazione dell’uomo, della sua inviolabilità fisica e morale, di giustizia, eccetera. Vorrebbe essere, alla fine, la sembianza che l’uomo ha di se stesso.

Ecco il punto centrale – per chi crede nella persistente utilità della locuzione – dal quale si dovrebbe partire. Ma ciascuno può intuire la colossale vastità che si vuole assegnare ad un concetto del genere; e per converso il rischio grandissimo di veder fallito in partenza ogni pur robusto sforzo per chi volesse trarre dall’approfondirlo. Ci sarà sempre il rischio di ridurre (o degradare) il vocabolo semplicemente a “topos argomentativo”; chiunque parli di dignità – magari sul divano di casa – farà sempre la sua bella figura di fronte agli altri che ascoltano. E in questo, forse, sta la sua utilità. «La dignità umana, come la si intende comunemente nella contemporaneità, è divenuta un super-argomento, un argomento mitico, un argomento capace di chiudere una discussione».

È una concezione decorativa della dignità, per usare il paradosso di Thomas De Koninck. In fin dei conti, al pari di tutti i principi generali, assoluti e astratti, anche la dignità svela ad ogni passo la sua fragilità. Come altri concetti dei quali tanto più si proclama la diffusa realtà morale o giuridica, tanto meno si rendono di difficile compimento, perché alla fine i tentativi di precisarne i contenuti si dimostrano solo apparenti. La vera ragione è che si vogliono lasciare indeterminati e astratti. La dignità viene sublimata a valore umano immateriale e trascendente. Non si può apprezzare la Dignità in sé. Sarebbe come lodare la Libertà o la Vita o l’Arte in astratto e in generale: salvo poi a scontrarsi, e a contraddirne il senso, con le singole dignità di ogni giorno e di ogni uomo.

Un concetto astratto come quello di cui si parla cede la sua parte di senso quando viene declinato in forma plurale: le dignità, ogni volta diverse ed applicabili a situazioni o categorie lontane tra loro. Alla dignità – al singolare – si sostituiscono o si surrogano tante dignità. Come dire tante mentalità, tante culture, tante civiltà: «anche linguisticamente sono casi che hanno in comune una terminologia astratta che nasce con un singolare obbligato e si piega a fatica e col tempo all’uso plurale». Ragionare in termini di alti valori, di principi sommi, für evvig, e poi fermarsi lì, rischia di essere pernicioso a chi voglia trovare in quelli dei veicoli da utilizzare nella realtà quotidiana. Una vicenda simile è accaduta nella storia recente quando si è voluto moltiplicare l’acquisto di nuovi diritti a beneficio dei singoli. I buoni sentimenti trasmessi dalla bella parola rischiano di favorire l’espandersi di diritti e di valori cosiddetti universali, ma sempre imprecisati, secondo una formula che potrebbe essere sperimentata solo alla prova dei fatti: più diritti = più dignità. Oggi l’uomo, il cittadino dei paesi occidentali, ha acquistato una quantità di diritti che soltanto una generazione fa non si sognava neppure di rivendicare. Siamo forse diventati tutti noi più carichi di dignità perché possediamo più diritti? Ma sì, proviamo a dare tanti diritti, diritti soggettivi, diritti politici, a chi non ne ha, per esempio a quelli che sono ancora sui barconi. Accresciamo forse la loro dignità? Oppure quegli uomini e quelle donne hanno già la loro dignità in sé, in quanto esseri umani?

La verità è che il sincretismo della nostra parola cerca di trovare un lasciapassare per tutte le stagioni. Si cerca di trovare ad ogni costo, come scrive il filosofo belga, «il fondamento transculturale, la legittimazione ultima universalmente accettata, che sembra far difetto all’idea troppo moderna o troppo occidentale, secondo taluno, di “diritti dell’uomo”».

Si ponga mente al fatto che i criteri assoluti (dignità, eguaglianza, libertà, giustizia) sono tutti privi di contenuto normativo. Per ciascuno di essi si può ripetere quanto Montesquieu assai affabilmente, e con una pointe satirica, scriveva a proposito della libertà: «Non c’è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito gli spiriti in tante diverse maniere, come quella di libertà».

Ecco perché manifesta la sua fragilità. Ecco dunque il paradosso della dignità: più se ne accentua il valore di bene sommo dell’essere umano, più se ne svilisce il senso. Gustavo Zagrebelsky qualche anno fa mostrava il proprio scetticismo a proposito di principi dei quali tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più li si svuota. «I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto». Così è per la dignità: «troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto sono più belle, tanto più facilmente contengono concetti molto ‘disponibili’». Gli esempi d’ignominia e di orrore che ci assalgono ogni giorno dimostrano «quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dalla barbarie».

Date queste premesse, l’avvio del discorso consente una domanda, forse peregrina ma in un certo senso pregiudiziale: quali sono i diritti cosiddetti fondamentali che possono fare a meno della dignità? È attorno a questo interrogativo che si deve collocare il rapporto tra dignità e diritti. Nel prosieguo vedremo come la nozione di dignità non solo riassuma, ma costituisca il fondamento, o se vogliamo il presupposto, per l’esistenza di quelli. Si potrebbe dunque assegnare alla dignità il compito riassuntivo di comprendere tutti i diritti spettanti alla persona umana, proprio nel suo insieme. Si chiamino essi – in quest’ottica non fa differenza – diritti fondamentali, diritti umani, diritti della personalità.

È costume separare taluni diritti della personalità, per esempio i fondamentali, l’eguaglianza e la libertà, e poi ovviamente la giustizia. Essi apparterrebbero alla sfera pubblica del loro esercizio, assai più che a quella privata. Per la verità, il trattamento che i diritti di libertà e di eguaglianza hanno nei testi di diritto costituzionale occupa un posto assai esiguo. Spesso non si va al di là della loro definizione, magari a partire dalla Dichiarazione dell’89.

Un ulteriore chiarimento propedeutico. Degno di che cosa? Quando si parla di dignità, chi è che decide? La dignità è nozione e valore riferito a se stessi, nel senso che sono io che decido della mia propria dignità, la dignità è rivolta verso me stesso? Oppure sono sempre io che decido qual è il grado di tollerabilità della mia dignità verso gli altri, rivolta nei confronti degli altri? Oppure ancora: sono gli altri che decidono il grado di reputazione sociale; è la società nel suo insieme che assegna dignità al cittadino, al lavoratore, ma anche al povero, al disoccupato, al drogato, al carcerato, al migrante, al rifugiato? (e via di questo passo nell’enumerare le peggiori circostanze nelle quali può mai trovarsi la condizione umana). Oppure sono questi soggetti, nella loro tragica umanità, che si rivolgono alla società per reclamare onorabilità e rispettabilità?

Chi dobbiamo chiamare in causa? A chi dobbiamo rivolgerci? Proviamo a porre degli interrogativi su come fare quando abbiamo a che fare con la dignità. Per esempio, va da sé che tutti gli esseri umani ne sono coinvolti, ma in qual modo? Il singolo che si trova in una determinata condizione di fatto, oppure è la situazione di fatto che ne determina i limiti? Esiste un diritto alla dignità? C’è una misura, una casistica cui far riferimento? Dov’è che la soglia oltre la quale quel principio è oltrepassato? Chi è che decide? Il tribunale della dignità; oppure è il singolo individuo che deve rivendicarne la lesione e pretenderne la tutela?

Insomma, qual è la norma che ne governa l’esercizio; qual è il precetto che presiede alle sue violazioni? Essa vuole esprimere l’idea di un alto ed eguale rango di ogni persona umana. Vuole esprimersi nella considerazione universale dell’essere umano. È questa la vocazione cui con tanta enfasi è enunciata la sua perdurante validità. È un’idea così evidente che appare di comprensione intuitiva, osserva Martha Nussbaum, come vedremo più avanti. Ma anche la filosofa di Chicago dà in questo modo per scontato il senso della voce, che vuole esimere dal conf ronto o dalla definizione. In un curioso libro di difficile collocazione, il filosofo francese Éric Fiat cerca di riassumere le concezioni della dignità in varie ed assai opinabili tipologie; ne distingue cinque: concezione borghese, concezione monoteistica, concezione kantiana, concezione razionale, concezione moderna, dove per ciascuna specie sono narrati – a proposito o a sproposito – aneddoti e storielle in gran quantità, dove la parola intenderebbe trovare la sua conferma o la sua smentita. Tenta di dare una risposta a domande eterne: tutti gli uomini sono degni? o solamente i migliori; la dignità è intrinseca alla persona umana? o la si può perdere a causa di condotte o di situazioni; tutti gli uomini devono essere rispettati; c’è del sacro in tutti gli uomini?


Cosimo Marco Mazzoni, giurista, ha insegnato e ha svolto ricerche in varie università, italiane, soprattutto Siena, e straniere, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti. É stato Humboldt-Stipendiat all’Università di Tübingen. Si è occupato negli anni recenti di aspetti giuridici legati alle biotecnologie e alla bioetica. Oltre a libri e saggi del repertorio civilistico tradizionale, ha scritto o curato i volumi: Una norma giuridica per la bioetica, (1998), trad. inglese A Legal Framework for Bioethics (1998), Un quadro europeo per la bioetica (1998), Ethics and Law in Biological Research (2002), Per uno statuto del corpo (2008), Psiche o la forma del corpo (2013), La persona fisica (2016), Il dono è il dramma (2016).
(febbraio 2019)

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