Perché il fantasy di fine ‘800 è stato (e resta) decisivo per l’immaginario collettivo Continua Faerie, la storia del fantasy di Edoardo Rialti.
In copertina: William Morris & Co. ‘Tapestry: Greenery’ 1892 | ©Plum leaves/Flickr
Faerie – Indice
4. Artù nell’Etna: la stagione del grande fantasy rinascimentale italiano.
6. Il bastone di Prospero, Artù agli inferi e un reduce dalla Terra delle Fate
7. Il Romanticismo e la nascita del Fantasy
-->Mia zia non disse una parola, ma prese il cappellino per i nastri, come una fionda, diede con’esso un colpo in testa al signor Chillip, se lo mise sul capo di traverso, uscì fuori e non si fece più vedere. Svanì come una fata arrabbiata, o come uno di quegli esseri soprannaturali che, secondo la voce popolare, io ero destinato a vedere; e non tornò più.
Charles Dickens, David Copperfield
Idilli del re e goblin al mercato: il fantasy dell’età vittoriana
La seconda metà dell’800 potrebbe davvero essere raccontata nei termini noti a tante narrazioni fantastiche come l’avvento d’una nuova e definitiva Era degli Uomini, nella quale antichi poteri si ritraggono, in un’esplosione di ultimo effimero sfarzo, miti millenari crollano, e nuovi poteri salgono al trono, brandendo poteri inimmaginabili prima di allora, talismani di ricchezza e dominio che superano le promesse di ogni Excalibur o Graal. Come nell’antica saga dei Nibelunghi che proprio in quegli anni viene nuovamente valorizzata dalle arti, dalla filologia e persino dalla politica, tesori sepolti nella terra o sott’acqua vengono davvero plasmato in Anelli magici che schiudono ricchezze infinite, sebbene in quell’oro sfavillante si possano già scorgere le fiamme danzanti della tragedia, del tradimento e della strage.
Siamo in quella che viene comunemente definita l’apoteosi della borghesia, il trionfo d’una serie di innovazioni scientifiche che tutt’oggi costituiscono l’ossatura della nostra vita sociale, e di cui più recenti invenzioni non sono che il conseguente sviluppo. Indubbiamente corre più differenza tra la vita ordinaria di Napoleone e la regina Vittoria che tra quella della stessa monarca inglese e qualsiasi europeo del ceto medio oggi.
Alle possenti e febbrili tensioni della prima metà dell’800 pare invece seguire una stagione di compromesso, percorsa tuttavia da drammatiche tensioni e turbamenti che si riflettono ed esprimono proprio nel mondo obliquo di quello che possiamo ormai pienamente definire fantasy, che in questa fase della storia culturale europea conosce una sua nuova stagione d’oro e diventa quanto ancora oggi intendiamo come tale, una narrazione sempre più in prosa anziché poesia ambientata in un medioevo più o meno precisato e che comprende la possibilità del magico e del meraviglioso.
Anzitutto prosegue e si amplia l’associazione (niente affatto scontata) col mondo dell’infanzia, che a sua volta costituisce un’altra “invenzione” del mondo ottocentesco borghese, su questo aspetto in piena continuità col mito romantico del “fanciullo naturaliter poeta”. I bambini sono al contempo protagonisti e fruitori di molte nuove narrazioni fantastiche, in particolare delle fiabe, basti pensare alle celebri raccolte di Andersen (che vi introdusse non poco del suo strazio di omosessuale represso) e Andrew Lang, e al tempo stesso gli autori trovano nella “scusa” dello scrivere per bambini una scappatoia che giustifica il loro interesse per questo genere di storie; già nel 1831 De la Motte Fouquén iniziava il suo epico e sterminato Der Percival (pubblicato solo nel 1997) con un bambino malato che chiede alla madre “il librone delle figure… quello con la copertina dorata, con i grandi stemmi d’oro e le pagine che mostrano, con colori brillanti, la storia di Perceval”, ed è interessante notare come gli autori della seconda metà dell’800 esprimano ora una paternalistica supponenza per quelle che già vengono bollate come infantili fughe dalla mondo e dalle autentiche sfide del realismo letterario, ora l’insofferenza per quel medesimo e angusto modello positivista. Ne è un esempio la satira con cui Charles Dickens irride Gradgrindr, la sua aula significativamente “nuda, monotona, sepolcrale” e il suo credo “Ora, quello che voglio sono i Fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro. Solo dei fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto.”
A questo mondo gelido e sudicio fa da contrasto l’autunno di colori (basti pensare anche solo ai titoli delle fiabe di Oscar Wilde, come Una casa di melograni) che costituì invece il fantastico nell’età vittoriana, un filone narrativo e artistico che arriverà persino a condizionare la moda e la politica. È proprio nel massimo apogeo dell’impero britannico che la tradizione arturiana viene nuovamente brandita come un grande mito nazionale, nella speranza che si ripeta il miracolo della sua valorizzazione in età elisabettiana. In realtà il fantasy cavalleresco della seconda metà dell’800 è uno specchio magico nel quale si riflettono soprattutto frustrazioni e inquietudini, al pari di altri percorsi tentati dal fantastico come Jekyll e Hyde, Dracula, Dorian Gray o il surreale e ironico ribaltamento di Alice. Lo testimonia l’opera poetica del poeta laureato per eccellenza, lord Alfred Tennyson, nella cui scrittura si fondono l’esaltazione dei valori nazionalisti, politici, sociali e religiosi, ma anche le domande sollevate dalle nuove scoperte scientifiche della modernità. I suoi Idilli del Re sono significativamente dedicati allo scomparso Principe Alberto, che aveva personalmente caldeggiato la realizzazione di affreschi arturiani per la ricostruita sede del Parlamento dopo l’incendio del 1854, nonostante ciò presentasse qualche problema spinoso per il credo anglicano (il Graal è evidentemente un mito a sostegno della transustanziazione proclamata dalla Chiesa Cattolica, che proprio in quegli anni era stata abbracciata dalla grande speranza della Chiesa d’Inghilterra, il cardinal Newman) e per la morale matrimoniale (la principale storia d’amore delle antiche leggende è quella dell’adulterio di Ginevra e Lancillotto). Al pari del suo vecchio Ulisse e memore della lezione allegorica di Spenser, il ciclo arturiano di Tennyson mira a incarnare un vasto percorso simbolico-esistenziale, nel quale Artù rappresenterebbe “Il principio spirituale che innalza l’uomo sulla bestia”, la forza civilizzatrice che, ispirata da un ideale divino, viene però assediata dalle forze della disgregazione morale e sociale. La Tavola Rotonda è dunque la storia d’un sogno malinconicamente incompiuto, e persino la storia di Merlino murato nella prigione d’aria dalla seduttrice Viviana segue a una crisi assolutamente innovativa per lo stregone, che cederebbe a Viviana solo dopo essere già stato consumato da una malattia squisitamente moderna, il male oscuro della depressione della insensatezza, al pari d’un intellettuale vittoriano tormentato dalle scoperte del darwinismo o della nuova filologia biblica:
Poi cadde su Merlino una grave malinconia;
sogni e oscurità si alternavano nella sua mente
finché vide che la sua sorte
era quella di cadere;
e una battaglia piena di gemiti
vide nella nebbia
e guerra e morte di carne moribonda
in lotta con la vita,
morte in ogni vita,
morte che giace in ogni amore,
i più miserabili trionfanti sopra i più nobili
e l’eccelsa Mèta corrosa dal verme.
Ma il lascito più significativo della rinarrazione di Tennyson va certamente cercato nella dipartita di Artù in seguito all’èpica battaglia col figliastro Mordred. La quasi-sconfitta di Artù che, pur vittorioso, ha ricevuto una tale ferita da doversi ritirare nella magica isola di Avalon, è anche un giudizio sulla storia umana, nella quale gli ideali luminosi brillano sempre in un crepuscolo che non sai definire se preceda solo il tramonto o anche l’alba. La sua eco nella più celebre partenza del fantasy contemporaneo, quella di Frodo (a sua volta ferito) al molo elfico dei Porti Grigi ne Il Signore degli Anelli, è così esplicita (nonostante le risposte altalenanti dello stesso Tolkien) che basta accostare i passi corrispettivi per coglierne tutta la portata. Persino il riconoscimento che “l’ordine vecchio muta” riecheggerà prima nelle parole di Barbalbero (“il mondo è cambiato”) e poi in quelle del Merlino nell’Excalibur cinematografico di Boorman (“è il tempo degli uomini, e dei loro metodi”):
Vedono allora una barca cupa
Oscura come drappo funerario,
da poppa a prua-come fosse un sogno-
stavano sulla tolda morte forme
immobili, vestite tutte in nero
e tre Regine con corone d’oro
un alto acuto grido ecco si leva
da far rabbrividire pure le stelle
quasi una voce sola, un’agonia,
lamentazioni cupe come un vento
che lacera la notte desolata
in terra ove nessun pose mai piede.
E Arthuro, lentamente, dalla barca:
“L’ordine vecchio muta, cede al nuovo
E Dio compie se stesso in molti modi
Ché un buon costume non corrompa il mondo…
Ma ora addio.
Vado lontan, con questi che tu vedi
Credo d’andar… almen cosi (ho la mente
Velata un po’ dal dubbio) ad Avilon
Dove non cade grandine né neve
Dove non soffia con violenza il vento;
giace felice immensa in mezzo ai prati
bella di orti e viali e ombrose grotte
incoronata da un estivo mare
dove potrò curar la mia ferita.”
(Gli Idilli del Re)
“Ma sono stato ferito troppo profondamente, Sam. Ho tentato di salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinchè altri possano conservarle.”…Allora Frodo baciò Merry e Pipino e per ultimo Sam, e salì a bordo; le vele furono issate, il vento soffiò, e lentamente la nave scivolò via lungo il grigio estuario; e la luce della fiala di Galadriel che Frodo teneva alta scintillò e svanì. La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”.
(Il Signore degli Anelli)
La barca a remi e vela scivola e va
Simile a cigno che dal gonfio petto
Par modulare una carola antica
E prima di morir le bianche piume
Arruffa e prende il largo scivolando
Quasi non muove le sue brune palme.
A lungo resta immoto Bedivere
Ripensa le memorie del passato
Finchè lo scafo è solo un punto scuro
Contro la soglia chiara del mattino
E via lontano smuore anche il lamento.
(Gli Idilli del Re)
Ma per Sam la sera diventò buia, mentre si teneva in piedi sulla riva dei Porti e guardando il grigio mare vide soltanto un’ombra sulle acque che scomparve presto a occidente. Rimase a lungo lì immobile nella notte,udendo soltanto il sospiro e il mormorio delle onde sulle spiagge della Terra di Mezzo,e il rumore penetrò sino in fondo al suo cuore. Accanto a lui erano Merry e Pipino,immobili e silenziosi.
(Il Signore degli Anelli)
All’assolo elegiaco di Tennyson si unì e seguì un’intera polifonia, quella dei Preraffaelliti, il movimento artistico che ebbe i suoi principali rappresentanti in Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones e William Morris e che si rifaceva all’arte e alla poesia medievale e quattrocentesca, ravvisandovi un ideale spirituale e persino sociale. Sia Rosetti che Burne-Jones realizzarono celebri dipinti d’ispirazione arturiana, laddove Cristina Rossetti, sorella di Dante e importante poetessa mistica, compose anche il poema Goblin Market, nel quale due sorelle assaggiano i frutti magici offerti loro dai Goblin dei fiumi. Nonostante si tratti d’un poema proposto per fanciulli (anche se l’autrice diede risposte contraddittorie in materia), la tensione sensuale sottesa alla narrazione fiabesca è evidente, sebbene con un linguaggio assai più sublimato dell’esplicito e tormentato erotismo di Algernon Swinburne, autore a sua volta d’una rinarrazione poetica di Tristano e Isotta che influenzò d’Annunzio. Tuttavia a esercitare il peso maggiore sull’immaginario fantasy successivo sarà soprattutto William Morris. Propugnatore d’una radicale trasformazione della vita sociale e strenuo avversario dei principi estetici della modernità industriali, Morris non fu soltanto poeta, romanziere, traduttore delle antiche saghe islandesi, ma anche teorico di design, moda e architettura, nonché fondatore della Lega Socialista. La sua produzione narrativa e poetica, così come la sua pittura, è dunque una delle tante facce di tale medesimo prisma, e il ritorno a taluni elementi della vita comunitaria e dell’orizzonte immaginativo medievale costituivano per lui parte fondamentale d’una radicale azione riformatrice della società tutta. In Morris il fantasy (presente come elemento nelle saghe tradotte, o come ambientazione del tutto originale dei suoi romanzi, come l’utopico Notizie da Nessun Dove o Il Bosco oltre il Mondo) è dunque espressione d’una esplicita riflessione e azione politica, con una nettezza d’intenti che non conosce precedenti e che eserciterà un influsso significativo sulle generazioni successive. Nelle parole di Mario Praz, “egli traeva dalla sua messe di fiabe antiche le storie nuove, come traeva dalla lana, dalla seta, dal metallo, dal vetro, dalla carta, dalla pergamena i nuovi addobbi per un mondo che voleva più bello e più libero.” Bisognerà aspettare le generazioni post-Tolkien per ritrovare un simile impatto del fantastico nella contestazione politica. La sua raccolta di poesie The Defense of Geneuvre, fu definita dal grande critico esteta Walter Pater (mentore di Oscar Wilde) “una cosa tormentata e contorta dalla passione, come il corpo di Ginevra nell’atto di difendersi dall’accusa di adulterio.” Non solo. Morris è uno dei primi autori fantasy nei quali il paesaggio stesso gioca un ruolo assolutamente decisivo; le sue montagne affilate dai picchi innevati, i suoi campi d’erba verde, le sue paludi non costituiscono un mero sfondo, ma un elemento attivo, che deve essere attraversato, vissuto e che plasma la coscienza dei suoi protagonisti, perlopiù giovani uomini che devono imparare la difficile convivenza tra l’impegno comunitario e il richiamo dell’oltre, dell’elusivo, delle bellezze ed amori soprannaturali.
Si fermò per riprendere fiato, sollevò il capo per guardare e, meraviglia, vide che si trovava proprio sulla vetta e sotto, davanti a lui, v’erano ampi pendii collinosi che sembravano sospesi nel vuoto….oltre quell’ultimo lembo di deserto di apriva una fertile terra di colline boscose, pianure verdi e piccole vallate, che si estendeva in lungo e in largo fino a confondersi all’orizzonte con grandi montagne blu e vette innevate.
(Il Bosco oltre il Mondo)
Si tratta inoltre dei primi “full fantasy” moderni, romanzi cioè che si aprono e chiudono in un mondo a sé, perlopiù senza varchi con sconfinamenti nel sogno o la rievocazione di qualche epoca passata. Tutti elementi che, al pari della ricerca linguistica, volta a ricreare il periodare austero, paratattico e formulare delle saghe, colpirono profondamente proprio il giovane J. R. R. Tolkien. Negli anni universitari all’Exeter College (dove anche Morris aveva studiato) Tolkien scoprì che “il punto di vista di Morris coincideva con il suo… Morris aveva tentato di ricreare il piacere che egli stesso aveva provato leggendo le pagine della prima letteratura inglese e islandese” (H. Carpenter). Gli echi e le riprese sono numerosi e significativi, dal “Bosco Atro” alle paludi celtiche in The House of Wolfings che ispirarono le “dead marshes” i loro soldati sottacqua attraversate da Frodo, Sam e Gollum. Ma l’influenza di Morris su Tolkien è così vasta da poter essere rivelata ovunque, dalla ricerca linguistica all’importanza dell’ambientazione, che viene a sua volta vissuta e attraversata senza il ricorso a facili balzi magici. Si tratta appunto d’un orizzonte immaginativo comune, seppure declinato in modi molto diversi, e che in fondo comprende e supera i richiami specifici. Lo testimonia una delle prime lettere della celebre raccolta a cura di Carpenter, nella quale un Tolkien soldato confida alla giovane moglie i primi tentativi di stendere la prima versione del suo Turin proprio in una commistione di prosa e poesia mutuata ancora una volta da Morris, un leitmotiv stilistico che arriverà fino al Signore degli Anelli:
Fra le altre cose che faccio sto provando a trasformare una delle storie, una gran bella storia e molto tragica, in un racconto breve nello stile dei romanzi di Morris, con brani di poesie in mezzo.
Il canto del drago: politica e fantasy in Francia e Germania
Naturalmente il fantasy nella seconda metà dell’800 non è appannaggio esclusivo del mondo britannico. Una forte matrice politica è certamente presente nel Merlino l’incantatore di Egar Quinet (1860), nel quale la Tavola Rotonda e il Graal sono evocati come un convito mistico di fratellanza che ribalta e critica le mitologia auto-rappresentativa di Napoleone III (il quale, al pari del Kaiser e dei monarchi inglesi, tentò di ammantare il suo potere d’un aura sacrale, appellandosi a rinnovati spiriti di cavalleria o di crociata). Ma, sebbene il fiabesco e il fantastico avessero già esercitato un ruolo di primo piano nella tradizione musicale e operistica (basti pensare Mozart o Mandelsohn), ecco divampare il caso Wagner. Il più grande, influente e controverso compositore della seconda metà dell’800 ha esplorato i due grandi filoni del fantastico medievale, quello delle saghe nordiche e pagane (con la tetralogia dei Nibelunghi nella quale persino il drago Fafner canta in qualità di Basso) e varie leggende cavalleresche, più o meno esplicitamente arturiane (Lohengrin, Tannhauser, Tristano e Isotta, L’Olandese Volante). Il percorso che dall’influenza di Schopenauer giunse al simbolismo del Parsifal portò anche alla rottura col devoto discepolo Nietzsche che lo vedeva ormai “prostrato, impotente e avvilito, davanti alla croce cristiana”. Nelle parole dello stesso Wagner si trattava semmai d’una riproposizione in chiave estetico-simbolica di quanto un tempo era stato impugnato come dogma e che ormai non ha più diritto di cittadinanza come verità oggettiva, ma conserva una sua valenza metaforica: “Si potrebbe dire che dove la Religione diventa artificiale, tocca all’Arte di salvare lo spirito della Religione riconoscendo il valore figurativo dei simboli mitici, che la Religione vorrebbe farci credere nel senso letterale, e rivelando la loro profonda e nascosta verità mediante una presentazione ideale.”
Wagner fu anche un importante e valido scrittore, sia in prosa che in poesia, firma dei suoi stessi libretti nei quali vengono espresse e sviluppate complesse questioni di critica filosofica ed economica. La sua influenza sull’immaginario collettivo fu enorme. Basti pensare ai castelli dell’ammiratore e patrono Ludwig II, che proprio per ricreare il medioevo da sogno delle sue opere portò la Baviera verso la rovina, donando tuttavia al ‘900 alcune delle immagini più pervasive di come, via Disney, viene percepito il medioevo nell’immaginario collettivo.

Un peso e un’influenza che annoverano tra i loro debitori lo stesso Tolkien (che però ebbe molte riserve sulla lettura economica che Wagner aveva dato al mito dell’Oro del Reno), C. S. Lewis, che persino alle copertine dei suoi dischi, illustrate da Arthur Rackhman, attribuì un ruolo decisivo nella scoperta di quella che definì “Nordicità”; ma anche Adolf Hitler, col quale gli eredi del compositore flirtarono al pari della sorella di Nietzsche, sebbene con basi ideologiche parzialmente più solide delle evidenti storture cui fu costretto il pensiero del filosofo. La sovrapposizione – comunque ottusa e riduttiva – tra l’orizzonte simbolico romantico di Wagner e le ideologie di destra del primo ‘900 costituirà a sua volta uno degli elementi cardine della diffidenza d’una certa critica nei confronti del fantasy, accusato appunto di fomentare una visione reazionaria del mondo e della società. Già a fine ‘800, dunque, con Wagner e Morris, valchirie, elfi e draghi iniziano a sedere in parlamento o a sfilare nelle proteste, assumono un forte significato politico, principalmente in esplicita contrapposizione con alcune scelte della modernità.
Il grande precursore: il fantasy allegorico di MacDonald
È invece dalla Scozia protestante che viene un altro grande e decisivo precursore, il pastore evangelico George MacDonald, autore di edificanti romanzi d’ambientazione storico-realistica ma celebre soprattutto come autore di fiabe per l’infanzia e di romanzi fantasy per adulti. In una certa misura, è proprio MacDonald a traghettare il fantastico di matrice allegorico-spirituale nella letteratura contemporanea, non perché egli sia l’unico a perseguire tale scelta narrativa e stilistica, ma per la sua diretta ed esplicita influenza su (parzialmente) Tolkien e soprattutto sul C. S. Lewis di Narnia, che lo considererà sempre il suo personale Virgilio, l’autore che, nei suoi anni di ateismo, aveva però “battezzato la sua immaginazione”. L’allegorismo di certi fantasy è una vexata quaestio, spesso banalizzata da sostenitori e detrattori un egual misura. La riprova della sua complessità negli autori più maturi si evince dalle riflessioni teoriche di MacDonald stesso. È suo infatti un importante saggio che, dopo la prima grande stagione romantica costituisce uno dei contributi più importanti di fine ‘800, e che a sua volta prepara la strada all’altra grande fioritura di trattazioni teoriche, sviluppatasi intorno ai saggi di G. K. Chesterton, C. S. Lewis, J. R. R. Tolkien, Ursula Le Guin; ed è parimenti significativo che MacDonalkd, così influenzato dagli scritti di Schlegel o Coleridge, ribalti tuttavia le gerarchie di quest’ultimo, e stabilisca che la fancy o fantasy sia una facoltà ben più potente e profonda della mera imagination. Ecco dunque come MacDonald già chiariva nella sua prosettiva quale fosse l’orizzonte simbolico d’un racconto fantastico, ben lontano da qualsiasi facile schematismo ideologico:
Il racconto esiste non tanto per trasmettere un significato quanto per ridestare un significato. Se non ridesta nemmeno un interesse, allora gettatelo via. Può esserci un significato, ma non è per voi. Se, ancora, non riconoscete un cavallo quando lo vedete. Il nome scritto sotto non vi servirà a molto. In ogni caso, lo scopo del pittore non è insegnare zoologia…[Una fiaba] dovrebbe essere molto simile alla sonata. Sappiamo tutti che la sonata significa qualcosa…ma se due o tre uomini si sedessero per scrivere ciò che la sonata significa per ciascuno di loro, quale avvicinamento credete che ci sarebbe a un’idea definita? Un avvicinamento davvero piccolo- e appena un po’ più che necessario. Scopriremmo che ha risvegliato dei sentimenti collegati, se non identici, ma probabilmente nessun pensiero comune. Per questo motivo la sonata ha forse fallito il suo scopo?… Ciò che non ha un contorno evidente può avere un colore intenso. Una favola, una sonata, una tempesta che si addensa, una notte sconfinata, ti afferrano e ti spazzano via: incominci subito a lottare e a chiederti da dove venga il potere che hanno su di te o dove ti stiano portando? le forze più grandi si trovano nelle regioni dell’incomprensibile.
È quanto MacDonald ambì a evocare anche nel suo celebre Phantastes, un romanzo d’iniziazione ispirato ovviamente a Novalis (anche in questo caso, la vicenda si apre con un giovane uomo che si addormenta) nel quale il protagonista si addentra in una terra fatata, si confronta con cavalieri di matrice spenseriana, dolci fanciulle-faggio, e deve soprattutto affrontare la propria Ombra, in un percorso di trasformazione che non sarebbe certamente dispiaciuto a Jung e Ursula Le Guin, che ammirava molto MacDonald. La prosa del pastore possiede una grande densità, e si ha sempre l’impressione d’affacciarsi su uno specchio d’acqua terso, eppure profondissimo, agitato da correnti segrete che non si scorgono ma comunque si avvertono. Gli eventi, i dialoghi, le descrizioni, le prove sono veri e fruibili in sé, eppure sembrano sempre indicare anche qualcos’altro. Per MacDonald infatti il fantastico è un’esperienza spirituale, mistica, e forse non c’è migliore illustrazione del suo credo di una scena evidentemente meta-letteraria come il ritrovamento d’un libro fatato e l’esposizione balbettante del suo contenuto, una scena di grande suggestione, che evidentemente anticipa la dinamica fondamentale de La Storia Infinita di Ende:
Tenterò di riferire una storia, ma ahimè! è come voler ricostruire una foresta con rami rotti e foglie secche. Nel libro fatato tutto aveva la giusta misura, non so però se nelle parole o in qualcosa d’altro. Esso faceva risplendere e lampeggiare i pensieri nell’animo con tale forza che il mezzo scompariva dalla coscienza, la quale entrava in contatto diretto con le cose. Il mio modo di rappresentarle è come una traduzione che abbassa un linguaggio ricco ed efficace, capace di riunire i pensieri di un popolo splendidamente evoluto, in quello povero e disarticolato di una tribù selvaggia. Naturalmente, mentre leggevo quella storia mi sentivo Cosmo, io il protagonista, anche se per tutto il tempo mi parve di possedere una doppia coscienza e che la vicenda avesse un doppio significato.
Tuttavia tale rivelazione misteriosa resta appunto elusiva, e forse persino erroneamente ricercata, giacché come i filoni d’argento si ramificano nella dura roccia, come le insenature e i golfi s’infiltrano nella terraferma dal mare inquieto, come le luci e gli influssi dei mondi superiori perforano silenziosi l’atmosfera terrestre, così il Paese Fatato penetra nel mondo degli uomini, e talvolta sorprende l’occhio comune con un’apparente associazione di causa ed effetto, mentre tra la prima e il secondo non esiste alcun legame.
L’altro fantasy di MacDonald, Lilith, è una narrazione audace e bizzarra (espressione delle sue convinzioni eterodosse di cristiano universalista), nella quale il protagonista varca la soglia di un’altra dimensione e, coadiuvato da un corvo che è anche il precedente proprietario della sua biblioteca magica e nientemeno che da Adamo ed Eva, induce la seducente e sinistra Lilith, prima consorte di Adamo stesso, a rinunciare alla propria guerra diabolica e redimere così anche i suoi figli giganteschi; tale fusione di immaginazione fantastica, viaggi dimensionali e giustificazione teologica avrà un peso decisivo sul già citato C. S. Lewis, che a sua volta ambirà ben due volte a rinarrare la vicenda della Genesi, in un fantasy e in uno scifi, mentre La principessa e i goblin, romanzo per l’infanzia di MacDonald che comprende anche un’orrenda regina orchesca con scarpe di granito puro, intagliate a mo’ di zoccoli olandesi (sic), con i suoi folletti malevoli che si annidano nelle grotte, è diretto antesignano dei goblin (e del loro grottesco monarca) delle Montagne Nebbiose di Tolkien, che proprio per scrivere la prefazione a una celebre fiaba di MacDonald, La chiave d’oro, non troverà migliore tributo che concepirà a sua volta una delle sue ultime fiabe, Il fabbro di Wotton Major.
Capelli Turchini e Sovrani nel Vulcano: il fantastico nell’Italia post-risorgimentale
Per quanto riguarda il fantastico italiano, la produzione tardo-ottocentesca è certamente molto meno significativa delle letterature d’oltralpe, che da questo punto di vista costituiscono un modello predominante, sebbene anche in Italia persista un significativo fiume carsico, quella della valorizzazione e difesa, nei nomi più importanti della poesia e del romanzo, delle letture fantastiche avvenute in giovinezza. Già Leopardi (come avevamo ricordato nella puntata sul romanticismo) rievocava la grande stagione dei poemi cavallereschi italiani come una seconda età dell’oro della poesia, nella quale il caro imaginar non era ancora avvizzito nel ghetto dell’arido vero.
Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell’arme e degli amori,
Che in età della nostra assai men trista
Empièr la vita di felici errori:
Nova speme d’Italia. O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea l’umana vita: in bando
Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
È spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.
(Ad Angelo Mai)
Era importante ricordare questa citazione perché Pascoli svilupperà a sua volta la stessa dinamica. Elemento essenziale della sua poetica è infatti l’ascolto e la custodia di quel “Fanciullo Eterno” che resiste dentro ciascun uomo, ed è significativo che nel tratteggiare questa eterna giovinezza del canto umano, Pascoli affermi chiaramente che scopo di questa voce interiore è partorire platonicamente “mythous e non logous”, una polarità che egli traduce significativamente quali “favole e non ragionamenti”; e alle canoniche e classiche immagini omeriche del cantore di corte è altrettanto importante e sorprendente che Pascoli affianchi quelle dei bardi del Kalevala, che proprio in quegli anni veniva raccolto dal “Grimm finlandese”, Lonnrot, e che tanta influenza avrebbe poi avuto sullo stesso Tolkien: Vecchio è l’aedo, e giovane la sua ode. Väinämöinen è antico, e nuovo il suo canto.
Lo stesso Pascoli, al pari di Leopardi, ricorda le estati trascorse in Romagna a divorare i suoi fantasy, le avventure immaginate da Boiardo e Tasso:
Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone…
(Romagna)
Nell’Italia della cultura positivista e storicista sono importanti anche gli studi sul folklore e sulle leggende portati avanti da personalità come Arturo Graf, che raccoglie le testimonianze sul regno magico di Artù nell’Etna generato dalla cultura normanna, e Pio Rajna, che invece risale alle fonti dell’Orlando Furioso. Tuttavia i due contributi principali vanno cercati certamente nell’opera che molti considerano “il” vero libro dell’unità nazionale, ossia l’antifiaba di Pinocchio (laddove il Collodi che era stato traduttore di Perrault inserisce anche una Fata dai Capelli Turchini) e le poesie di Carducci, che non solo tradusse a sua volta celebri ballate di Goethe come Il Re degli Elfi, ma realizzò componimenti autonomi tratti da leggende medievali come quella dell’infernale destriero di Teodorico di Verona, e, appassionato lettore di fiabe, raccontò il vuoto malinconico lasciato dalle fate sui monti della Carnia, in un componimento interamente giocato sulla dolente contrapposizione tra un passato di grazia e magia e lo squallore contemporaneo:
Su le cime de la Tenca
Per le fate è un bel danzar,
Un tappeto di smeraldo
Sotto al cielo il monte par.
Nel mattin perlato e freddo
De le stelle al muto albor
Snelle vengono le fate
su moventi nubi d’or.
Elle vengon con l’aurora
Di Germania ivi a danzar.
Treman l’ombre degli abeti
Nere e verdi al trapassar.
Ahi, da tempo in su la Tenca
Niuna fata non appar:
Sol la But tra i verdi orrori
S’ode argentëa scrosciar,
E il dannato su ‘l Moscardo
Senza più tregua d’amor
Notte e dì col mazzapicchio
Rompe il monte e il suo furor.
Ahi, le vaghe fantasie
Dal mio spirito esulâr,
E il torrente di memoria
Odo funebre mugghiar:
Niun fantasima di luce
Cala ormai nel chiuso cuor,
E lo rompe a falda a falda
Il corruccio ed il dolor.

Non molti anni dopo, qualcuno sosterrà invece che le fate continuano a danzare eccome nelle radure d’Europa, e possono persino essere catturate con i moderni ritrovati della scienza e della tecnica. Era nientemeno che il padre del detective razionalista per eccellenza. Sir Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes e della sua arte della deduzione, era infatti al contempo un convinto spiritista, che si spese a favore di alcune ragazzine che avevano organizzato una messinscena fotografica, sostenendo di aver così immortalato delle fatine dei boschi, che si libravano sui fiori. Oggi tali falsi fanno sorridere nella loro evidente ingenuità, eppure Conan Doyle scrisse un intero libro a loro sostegno, ennesima testimonianza di come a fine 800-inizio ‘900 fantastico e scienza, immaginazione e nuove sfide tecnologiche non fossero in mero contrasto, ma potessero stranamente convivere e sovrapporsi, in un mondo che correva troppo in fretta e si affannava a conservare dei punti di fuga e di riferimento simbolico.
In bel romanzo che condensa tanti degli elementi fin qui ripercorsi nelle vite di alcuni personaggi di fantasia, Il Libro dei Bambini di Antonia Byatt, si racconta uno di questi cortocircuiti immaginativi. Alla prima Universale, quella svoltasi nella fatidica data 1900, a Parigi l’intera Esposizione era circondata da un tapis roulant dove i cittadini potevano muoversi a tre diverse velocità, con strilli di meraviglia, aggrappandosi l’uno all’altro mentre passavano da una striscia mobile all’altra. Le riviste pubblicarono articoli incandescenti sulla “fata elettricità”. Eppure, l’eccitazione poteva accompagnarsi ad una sottile inquietudine, visti i cartelli che mettevano in guardia sul grand danger de mort. È un’immagine icastica dell’ebbrezza e dei pericoli in arrivo nei decenni successivi. Ferrovie, impianti idraulici, elettricità, gas, benzina erano davvero come le armi e talismani donati dalle fate e dai maghi nelle storie, uno scrigno delle meraviglie che prometteva finalmente di essere alla portata di tanti, forse persino di tutti. Tuttavia quel danger de mort si sarebbe ben presto palesato nell’orribile risvolto di quei medesimi doni, nel primo conflitto tecnologico contemporaneo e nelle stragi -prima inconcepibili- della Guerra Mondiale. Eppure, come si è già accennato poco sopra, fate, draghi e maghi continueranno ad accompagnare l’uomo del ‘900, e sarà proprio sotto la pioggia fangosa di quell’inferno così prossimo e in un successivo letto d’ospedale che un giovane inorridito dalla violenza delle macchine farà a sua volta convergere elfi e mitragliatrici nelle pagine del suo taccuino, annotandosi parole come Gondolin, Feanor, Tuor… si chiamava J. R. R. Tolkien.
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