La favola delle neuroscienze rivela la loro nudità



Mentre l’imperatore della favola si pavoneggia con vestiti invisibili, le neuroscienze tentano di vestire la complessa nozione di coscienza con teorie che potrebbero non avere sostanza.


In copertina, Joan Mirò, Derrier le miroir (1956) – Litografia a colori – Asta Pananti in corso

di Riccardo Manzotti

La favola delle neuroscienze rivela la loro nudità

Racconta la famosa favola di Hans Christian Andersen che l’imperatore ricevette vestiti meravigliosi in dono da un famoso sarto di grande fama e che questi vestiti fossero dotati di un potere magico: potevano essere visti solo da persone di grande intelligenza e gusto sopraffino. Ammettere di non vederli sarebbe stata la prova evidente di essere persone di basso rango, indegne della nobiltà sofisticata e dell’aristocrazia. I vestiti vennero consegnati e per lungo tempo né l’imperatore né i nobili ebbero il coraggio di ammettere di non vedere alcunché. E così l’imperatore (che non vedeva nulla) e i nobili si fidarono del sarto famoso e delle sue parole e in numerose celebrazioni l’imperatore si pavoneggiava con i suoi nuovi abiti (che nessuno vedeva) e, in realtà, andava in giro nudo (o in mutande, a seconda dei casi). Finché, un bel giorno, un giullare, o uno sciocco che non aveva niente da perdere, si mise a gridare che l’imperatore era nudo. All’inizio cercarono di farlo tacere, ma lo sciocco continuava a gridare e più d’uno a corte non riuscì a trattenere un sorriso che ben presto si trasformò in una contagiosa risata liberatoria che rivelò a tutti la verità: i vestiti non erano mai esistiti e l’imperatore era nudo. Ci era voluto uno sciocco per mostrare a tutti che l’aristocrazia, preoccupata più di mostrarsi sofisticata che non di vedere la verità, era stata prigioniera della propria vanagloria.

Questa meravigliosa favola è perfetta per descrivere quello che sta avvenendo in queste settimane nel campo delle neuroscienze (e trent’anni fa era già stata usata dal premio Nobel Roger Penrose per una situazione simile ma con autori diversi, tutto si ripete…). In questo caso l’imperatore è il problema della coscienza, l’aristocrazia e i nobili sono i neuroscienziati e i vestiti invisibili sono le tante teorie (una in particolare vedremo perché) che in questi anni sono state avanzate (e mai veramente messe in discussione) per poter nascondere la nudità delle neuroscienze davanti alla nostra esperienza quotidiana. È una storia che vale la pena di essere brevemente raccontata perché ci dimostra quanto la scienza, lungi dall’essere uno sforzo oggettivo portato avanti da ricercatori neutrali, sia spesso guidata da interessi, scontri di potere, gruppi lobbisti. Riassumo.

La coscienza rimane un enigma non solo per le neuroscienze, ma per la scienza in generale. Infatti, come ha scritto il filosofo David Chalmers nel 1994 (ma analoghe, se non identiche osservazioni sono stato ciclicamente fatte fin dai tempi di Galileo), quand’anche sapessimo tutto quello che c’è da sapere sul funzionamento del cervello, non sapremmo ancora nulla del perché ci sia e cosa sia quel fenomeno familiare, ma scientificamente misterioso, che chiamiamo coscienza. Detto ancora più brutalmente: nessun microscopio o risonanza magnetica ha mai visto un pensiero o una sensazione. E infatti, fino agli anni Novanta, la neurofisiologia è rimasta intenzionalmente lontano dal problema della coscienza poiché nessun dato sperimentale richiedeva la nostra esperienza. Negli anni Novanta, però, una serie di fattori hanno spinto i neurofisiologi a un cambio di atteggiamento (significativamente espresso dal loro nuovo nome: neuroscienza, più astratto e promettente) che li ha incoraggiati a occupare il campo lasciato vuoto da filosofi e psicologi: la mente e quindi la coscienza.

Per mancanza di avversari, questo sarto prestigioso, le neuroscienze, non ha avuto più concorrenti: chi poteva permettersi nella comunità scientifica di mettere in discussione la pretesa delle neuroscienze di essere la «vera» scienza della mente e della coscienza? Non era forse vero che neuro-farmaci e tecniche di neuro-imaging ogni giorno forniscono prove della identità tra la nostra mente e il cervello? E così, i neuroscienziati si sono dilettati a invadere un campo minato e oscuro, dove la nostra esistenza si incrocia con la realtà, quel luogo da cui la conoscenza scientifica scaturisce e non è ancora fatta di parole e di equazioni, il punto dove il mondo fa esperienza di sé stesso: la nostra coscienza insomma.

Per farla breve, i neuroscienziati, come il sarto della favola, sono stati investiti dell’incarico di cucire i vestiti nuovi dell’imperatore, ovvero di proporre una teoria neurale della coscienza. E non si sono affatto tirati indietro! Anche perché nessuno osava, nelle corte nobile delle comunità scientifiche, mettere in discussione questo diritto. E così sono state avanzate tante teorie, agghindate in nuvole di parole dal suono rassicurante: dalla core consciousness di Anthony Damasio al global workspace di Baars/Dehane, dalla oscillazione a 40 Hz del premio Nobel Francis Crick a fantomatici fenomeni quantistici. Come è stato osservato anche in un paio di articoli recenti su Nature e Science, nessuna di queste teorie era minimamente compatibile con le altre e neppure sembrava essere una conseguenza logica dei dati sperimentali, ma poco male: finché questi sarti competevano tra di loro e ognuno aveva la sua parte, all’interno della corte delle neuroscienze, il gioco era ben tollerato. L’unica cosa importante era non permettere a estranei di inserirsi in questo mercato. 

Nel 2004 un nuovo arrivato, Giulio Tononi, in forze all’università del Wisconsin, entrò nel gioco proponendo una nuova teoria, con le carte in regola per sparigliare il tavolo: la teoria dell’informazione integrata (o IIT). Si è trattato di un colpo da maestro (e non voglio criticare l’onestà scientifica del suo proponente per il quale ho molta stima, ma raccontare il frammento di storia della scienza in cui è stato coinvolto) perché la teoria si proponeva di spiegare la coscienza grazie a una quantità calcolabile, empiricamente verificabile, interna al cervello e, potenzialmente, diversa dalla materia grigia e sanguinolenta di cui è sgradevolmente, composto il nostro sistema nervoso centrale; una quantità rassicurantemente chiamata informazione integrata.

In due parole, la teoria dell’informazione integrata suggerisce che, interagendo tra loro, i neuroni produrrebbero una rete di rapporti causali, quantificabile numericamente, che sarebbero identici alla nostra coscienza per un motivo non spiegato ma postulato. I nostri momenti di coscienza sarebbero quindi tutt’uno con delle quantità matematiche che i neuroni implementerebbero all’interno del cervello. Veramente? Il punto dolente è che la teoria non ci dà alcuna giustificazione razionale sul perché l’informazione integrata dovrebbe diventare un’emozione o una sensazione, ma si limita a postularlo.

Vi chiederete: ma non sono state raccolte evidenze sperimentali a sostegno di questa ipotesi? E la risposta è che sono stati raccolti moltissimi dati che mostrano l’esistenza di correlazioni tra l’integrazione dell’attività neurale e la coscienza dei pazienti; studi e ricerche che sono la ricaduta più importante della teoria dell’informazione integrata. Ma queste ricerche non hanno mai fornito alcuna prova del fatto che la coscienza sia l’informazione integrata e neppure che l’informazione integrata esista. I risultati sperimentali mostrano soltanto che un certo livello di interazione tra le aree cerebrali è un segno di buona salute neurale e che un cervello funzionante è necessario alla coscienza. 

In copertina, Joan Mirò, Derrier le miroir (1956) – Litografia a colori – Asta Pananti in corso

C’è un senso ancora più profondo in base al quale la coscienza non è oggetto degli studi delle neuroscienze in generale. Mi spiego con un esempio. Considerate un classico problema nella fisica odierna: la materia oscura (o dark matter). Molte energie e risorse sono spese alla sua ricerca. La materia oscura nasce come ipotesi per spiegare uno scostamento tra le predizioni sulla velocità angolare delle galassie e la velocità osservata. A differenza della coscienza nasce da un problema interno ai dati osservati: si misura qualcosa che non si sa spiegare. Invece nel caso della nostra esperienza, non c’è nulla nei dati osservati dalle neuroscienze che richiede l’aggiunta di un altro principio, come la coscienza appunto. Non ci sono neuroni che «sparano in modo diverso dalle predizioni dalle neuroscienze». La coscienza, epistemologicamente, è totalmente esterna alla base empirica delle neuroscienze.

Ora, dopo quasi venti anni e milioni di dollari di finanziamenti, qualcuno comincia a porre la domanda che forse si sarebbe dovuta porre all’inizio: ma postulare che qualcosa di invisibile (l’informazione integrata) sia tutt’uno con la cosa che dobbiamo spiegare, che genere di spiegazione è? Non è una spiegazione scientifica perché per essere tale dovrebbe emergere dai dati a disposizione. Non è una spiegazione filosofica perché sostituisce un mistero con un altro, anzi li moltiplica! Se prima dovevamo spiegare come la coscienza emerga dei neuroni, dopo con l’informazione integrata dobbiamo spiegare come l’informazione integrata emerga dai neuroni e poi come l’informazione integrata corrisponda alla coscienza. I sostenitori dell’informazione integrata hanno tutto il diritto di avanzare ipotesi coraggiose, ma hanno anche il dovere di tradurle in termini che siano concettualmente comprensibili ed empiricamente verificabili.

La discussione è diventata bollente, al punto che più di uno studioso ha utilizzato l’espressione consciousness wars (le guerre della coscienza), nel momento in cui, ai primi di Ottobre un gruppo di celebri neuroscienziati e filosofi ha pubblicato una lettera aperta nel quale denuncia la teoria dell’informazione integrata di non essere altro che un esempio di pseudoscienza: il vestito è invisibile e l’imperatore è nudo (Fleming et al. 2023). L’accusa è pesante, ma è sostanzialmente giustificata per i motivi accennati prima. L’informazione integrata non è compatibile con i dati empirici e non si è mai esposta alla verifica o alla falsificabilità, inoltre va contro il principio di Occam per cui spiega qualcosa aggiungendo altre cose da spiegare. Non dovrebbe essere un dramma. Anzi, è positivo che la comunità scientifica sia aperta a ipotesi radicalmente nuove. Ma, i 124 firmatari eccellenti di questa lettera aperta hanno un altro bersaglio, ovvero il fatto che quest’ipotesi (che non è nemmeno scientifica in senso stretto) abbia pian piano raggiunto nell’immaginario collettivo (e anche specialistico) la condizione di teoria dominante e prevalente e condivisa dalla comunità scientifica. E questo è giustamente preoccupante, perché vuol dire che la comunità scientifica è succube di criteri esterni.

Ora, nel caso della coscienza, si deve sottolineare come le ipotesi alternative non siano affatto meglio. In generale si tratta di ipotesi che sopravvivono solo in virtù dell’autorità dei proponenti, dell’uso di una terminologia falsamente rassicurante e grazie al fatto di confermare i pregiudizi di chi se ne occupa. È una situazione abbastanza deprimente. 

Questa lettera rappresenta un segnale importante per le neuroscienze: l’accusa che è stata avanzata a carico della teoria dell’informazione integrata dovrebbe essere estesa anche alle altre teorie della coscienza attualmente in circolazione in ambito neuroscientifico e interrogarsi se, per caso, non sia un male comune e se ci sia qualche motivo di fondo per cui, una teoria della coscienza basata sul cervello non possa che essere pseudoscienza. In fondo, questo è successo ogni volta che un paradigma scientifico ha cominciato a mostrare i propri limiti. Gli studiosi all’interno di quel paradigma hanno iniziato a proporre soluzioni pseudoscientifiche e inverificabili per sostenere il paradigma come nel caso dei ponti fra i continenti di Edward Suess o come l’etere luminifero. In tutti questi casi gli studiosi all’interno di una disciplina si sono comportati esattamente come i nobili della favola di Andersen, pretendendo di vedere una teoria dove non vi era nulla. E invece dovremmo salutare con favore il coraggio dei 124 firmatari e la loro decisione nel mostrare come teorie apparentemente scientifiche siano solo casi di pseudoscienza, non importa quanti articoli e quanti finanziamenti siano stati in grado di attrarre. Ma non dovremmo fermarci qui e magari dovremmo chiederci se tutti loro, nel denunciare la pagliuzza nell’occhio dell’informazione integrata, non siano ciechi alla trave e guardare criticamente alla pretesa delle neuroscienze di essere la scienza della mente e avere il coraggio di considerare nuovi orizzonti, nuovi paradigmi, nuove ipotesi. Troppe volte, le nuove ipotesi in campo scientifico rivelano di essere basate su pregiudizi condivisi, ma non compresi. Sono quei pregiudizi, scriveva Albert Einstein, che vanno esplicitati e discussi per evitare che ci guidino inconsapevolmente: a volte nella scienza si deve fare un passo indietro, per poter fare un passo avanti.

Un grafico che mostra il sorpasso della concezione tradizionale di una scienza dei neuroni (neurophysiology) a quella molto più vaga di una scienza della mente e della computazione con basi neurologiche (neuroscience). Fonte https://ngram.google.com
Riferimenti
Fleming, Stephen, et al. (2023), «The Integrated Information Theory of Consciousness as Pseudoscience».
Melloni, Lucia, et al. (2021), «Making the hard problem of consciousness easier», Science, 372 (6454), 911-13.
Seth, A. K. e Bayne, T. (2022), «Theories of consciousness», Nature Reviews Neuroscience, 23 (7), 439-52.

Riccardo Manzotti (1969), filosofo e ingegnere, Fulbright Scholar al mit di Boston, è ora professore di Filosofia Teoretica presso l’università iulm di Milano e lavora sul rapporto tra media, mente, intelligenza artificiale e percezione. Tra i suoi saggi ricordiamo L’esperienza. Perché i neuroni non spiegano tutto (Codice, 2008; con Vincenzo Tagliasco), Consciousness and Object (John Benjamins, 2018).

4 comments on “La favola delle neuroscienze rivela la loro nudità

  1. Antonio Gulli

    La coscienza: un’ennesima metamorfosi del reale.

  2. Antonio Gulli

    Non ho pretese di definire la coscienza. Ma quando penso il mio sentire, quando avverto il fuori che mi si fa specchio e il dentro si fa intendere, allora il guscio sembra rompersi presentando una nuova metamorfosi del reale.

  3. Non lo sai tu gancio spiaggiato
    d’anima d’acciaio e cadmiata pelle
    orfano di gruccia che forse fu di legno
    oppure d’incolpevole polistirene fuso
    ignori la tua forma semplice enigmatica
    per noi soltanto immagino perché
    sempre cerchiamo simboli che leghino

    la passeggiata in riva al mare
    al transito epocale obbligatorio
    di globi fulgenti o sfere inerti
    e al nostro fra un tiepido abitacolo
    ed un impermanente freddo loculo
    il gaio irsuto frutto del corbezzolo
    con il suo pentagono nascosto
    sotto l’aggrappo del picciolo

    nemmeno lui vegeto vivente
    si rende conto dell’immensa trama
    della quale dall’atomico pulviscolo
    su su fino ai mostruosi ammassi
    ordito siamo tutti quanti insieme
    stretti e tessuti quale drappo enorme
    per essere strappato al termine

    d’un divino intento ormai compiuto.

  4. Renato

    Buonasera,
    riuscire a spiegare in modo scientifico che cosa è la coscienza farebbe guadagnare come minimo un Nobel: l’occasione è troppo ghiotta per non provarci.
    Visto che siamo in argomento, Le chiedo qual è il rapporto fra Mente e Coscienza? Nel famoso libro “La società della mente” Marvin Minsky affermò che “La mente è semplicemente quello che fa il Cervello”, quindi passando da un luogo ove avvengono reazioni chimico fisiche all’impalpabile fil rouge che caratterizza la vita degli esseri senzienti.
    Grazie

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