La filosofia dei tarocchi: da dove viene il Matto?


Una carta dei tarocchi, “Il Matto”,  spiegata attraverso la letteratura, la poesia, il mito e – ovviamente – la magia.


In copertina: John Matthews, Mark Ryan, Will Worthington, Wildwood tarot


di Francesca Matteoni

Creativity is a kind of magic, era scritto su un foglio appiccicato a un muro nel sud di Londra che mi sono trovata spesso a percorrere, come residente o visitatrice. Mi è apparso davanti mentre pensavo a questo articolo su quel “diabolico mazzo di carte”, da cui la Madame Sosotris di T.S. Eliot tira fuori figure sinistre: il Marinaio Fenicio Annegato, la Belladonna, la Dama delle Rocce, la Ruota.  La magia, potrei aggiungere, è una forma di poesia – entrambe hanno a che fare con i riti, che sono un concentrato di immaginazione e memoria. E vi sono alcuni oggetti, perfino banali all’apparenza, che veicolano la forza poetica, come quella magica. Un ramo che diviene bacchetta di rabdomante; una tazza che contiene l’acqua della vita; una moneta che dice la fortuna; una lama  che separa il giusto dall’ingiusto. Bastoni, coppe, denari, spade. O anche fiori, cuori, picche e quadri nel mazzo di carte toscane delle infinite partite a rubamazzo con mia nonna. Soltanto un gioco, eppure la mente simbolica lavora e riconosce altro nelle immagini: i cuori sono l’amore, ma le picche la sventura; i fiori i nuovi inizi e i denari i beni materiali.

Le carte avevano una loro forza e facevano un po’ paura: erano magiche, componevano storie. Nel mio tempo infantile esse erano soprattutto l’oggetto della Maga Magò disneyana, la strega isterica che vive nella parte desolata del bosco e vuol farsi un boccone del giovane Artù, trasformato in passero da Merlino. Ben lontana dall’incantatrice cannibale del libro di T.H.White da cui era ispirata, una figura tanto inquietante che la versione americana la epurò con l’intero capitolo in cui compariva, in cui la strega fa un solitario. L’associazione è immediata: chi usa le carte opera malefici.

Le cose si complicano quando dalle carte comuni si passa ai tarocchi, il gioco rinascimentale, che in tempi relativamente recenti  (il settecento francese e ancora di più l’ottocento inglese di artisti e teosofi) diviene strumento sapienziale per leggere i destini. Nei tarocchi appaiono gli Arcani maggiori, le più strane delle immagini –  personaggi appesi a un laccio o incatenati a un demone, donne ultraterrene chine su un ruscello. Cosa rappresentano? Porteranno sfortuna a chi le scopre? La risposta più ovvia è che sono soltanto se stesse. Non sono il male e non sono il bene. La loro qualità magica , che è quanto ci interessa esplorare, deriva tuttavia da quell’aspetto divinatorio che incute tanto scetticismo e qualche infondato timore. Come sempre è bene andare alle radici. L’americana Rachel Pollack osserva nel suo Tarot Wisdom che le recenti interpretazioni dei tarocchi sono intrise di psicologia e tentativi di volgere l’uso delle carte a una comprensione dei propri stati emotivi, deprivandole del lato oscuro. Tali interpretazioni non sono fallaci, solo riduzioniste, e, alla lunga… un po’ noiose. Siamo sicuri che tutto si possa contenere, spiegare?  Riappropriandoci dell’arte divinatoria, reclamiamo qualcosa di antico, in relazione con il dio greco Hermes e, prima di lui, con le donne del Fato (Norne, Parche, Moire), che osservano, attendono e non giudicano la via degli umani. La divinazione è una forma primitiva di comunicazione col divino. Scrive la Pollack:

“La magia del vedere attraverso è quanto accade nelle letture di tarocchi. Sistemiamo le carte e, ispirati dalle immagini,  vediamo oltre la situazione presente verso le sue possibili evoluzioni. C’è una differenza tra la visione oracolare, governata da Apollo, e la divinazione, governata da Hermes. La prima, come praticata notoriamente a Delfi, dipende dall’ispirazione diretta, spesso in uno stato di trance. La divinazione usa un sistema, spesso una qualche maniera di predire la sorte. In Grecia questo poteva significare usare le lettere nei loro rimandi simbolici, allo stesso modo in cui gli scandinavi hanno sempre usato le rune o gli ebrei l’alfabeto. I tarocchi sono un sistema di divinazione, un mezzo che usiamo per rispondere alle nostre domande e ottenere chiarificazioni.”

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Chiarificazioni che appartengono all’intuito, che sfuggono alla traduzione puramente descrittiva delle immagini.  Gli Arcani funzionano come specchi – ci riflettono, ci capovolgono. Si sviluppano in ventuno carte, a loro volta divisibili in gruppi di tre, secondo le fasi dell’esperienza. Rapidamente: le prime sette, Mago, Sacerdotessa, Imperatrice, Imperatore, Gerofante, Amanti, Carro – ovvero gli aspetti primari del nostro esistere, confrontarsi con la società, trovare la propria strada; la Forza, l’Eremita, la Ruota, la Giustizia, l’Appeso, la Morte, la Temperanza – le virtù spirituali, l’incontro fra l’umano e il destino, la legge morale e i limiti che fanno di noi ciò che siamo; il Diavolo, la Torre, la Stella, la Luna, il Sole, il Giudizio, il Mondo – potenze demoniache e astrali, che in noi si attivano, amplificano la dimensione del Fato in cui siamo immersi.  Fra di loro si muove senza numero e senza apparente scopo, il Matto.

Se nelle carte “puoi entrare con un salto da una cima, attraverso una caverna oscura, un labirinto, o perfino scendendo in una tana, inseguendo un coniglio vittoriano con un orologio da taschino”  e divenendo di volta in volta i vari personaggi, il Matto precede: è la fantasia senza briglia, il caos la vastità, il vuoto o la germinazione del sé. La sua energia sarà modellata dagli altri Arcani, enfatizzata o addirittura spezzata. Anche il Matto, come la rosa dei mistici, è senza perché.  Si legge in uno dei libri più antichi dell’umanità, le Chāndogya Upanişad, che  “La persona umana consiste delle proprie intenzioni. Secondo le intenzioni che ha in questo mondo, così diviene alla propria dipartita. Formi perciò un’intenzione corretta”.

Questa intenzione è assente nel Matto, quasi preumano, una creatura ignara, assorbita nell’immaginario, privo di coscienza. Guardiamolo meglio.

A braccia spalancate e vestito di fiori, con una sacca sulle spalle e un cane che gli salta accanto (forse la sua anima che si sveglia),  sui bordi di un precipizio cui non presta attenzione, nel mazzo Rider Waite Smith; ma perfino inebetito, i pantaloni calati e un copricapo di piume a indicare la sua natura volatile, nella versione rinascimentale dei Visconti Sforza.  Follia estatica e demenza lo caratterizzano – lo zero come un buco da cui emergere o in cui precipitare. Nessuno di noi può essere il Matto, ma senza di lui non è possibile partire.

Torniamo alla poesia, che nel mio avvicinamento ai tarocchi ha avuto grande responsabilità, grazie all’opera di William Butler Yeats, poeta irlandese e mago, che nei suoi versi nascose gli arcani tra le presenze incantate della sua terra.  È nella Canzone di Aengus l’Errante  che si può riconoscere l’avventura iniziatica del Matto:

Andai nel bosco dei noccioli,

Perché un fuoco avevo nella testa

Recita l’apertura. Colui che parla ha il nome del dio celtico dell’amore, corrispettivo del nostro Hermes greco, il più curioso dei divini, agitato da un sogno – la sua forza immaginativa quale elemento puro e inquieto. Aengus entra nel bosco, il Matto inizia a calarsi nella geografia della memoria, si fa umano e si perde.

Eppure il folle ha nelle mitologie e nelle tradizioni un posto di riguardo, suscita sentimenti diversi che vanno dal disprezzo al rispetto. Yeats viene ancora in aiuto, con una descrizione della Fase dello Stolto nel suo libro più singolare e misterioso, Una Visione:  “Nel suo aspetto peggiore, le sue mani e i suoi piedi e i suoi occhi, la sua volontà e i suoi sentimenti, obbediscono a  oscure fantasie subconscie, mentre nel suo aspetto migliore conoscerebbe tutta la saggezza, se solo potesse conoscere qualcosa”.

Difatti per conoscere deve mutarsi, remare verso l’altro.  Prima di questa sua mutazione il suo potere è lo stesso dell’Amadan na Breena, la creatura più importante della corte delle fate insieme alla Regina, terribile e saggio. I visionari e i contadini irlandesi credevano che non esistesse rimedio al “colpo” dell’Amadan, capace di portare l’uomo alla follia o ancor peggio a morte certa, perché la stoltezza è uno stato vicino al decesso: si può passare oltre, accedere alla visione, o restare con la bocca piena di polvere. Scrive Yeats nel 1901,

“Conoscevo un altro uomo, un grande veggente, che vide uno stolto bianco in un giardino di visione, dove era un albero con piume di pavone invece che foglie, e fiori che si aprivano mostrando piccoli volti umani quando lo stolto li toccava col suo pettine, e vide ancora uno stolto bianco seduto presso una polla sorridendo e guardando le immagini di molte belle donne emergere sulla superficie dell’acqua. Tutti i popoli antichi credevano  che la morte fosse l’inizio della saggezza e della bellezza; e la stoltezza fosse una specie di morte. (…) L’io, che è il fondamento della nostra conoscenza, è fatto a pezzi dalla stoltezza”.

Il Matto dei tarocchi riverbera in ognuno degli arcani. Vi è un mazzo, il Wildwood Tarot, dove la posizione dell’Arcano è chiara e suggestiva: tutte le storie delle carte avverranno là, nel bosco selvaggio o dei noccioli – il Matto sta di spalle, proteso, separato dal bosco da un burrone. Sotto ai suoi piedi appare l’arcobaleno, forse un ponte per chi ha coraggio o è totalmente insensato: dipende sempre dall’intenzione che si esprime nel Mago, nell’Uno e con lui nei quattro assi.

E intagliai una bacchetta di nocciolo,

E legai una bacca ad un filo

Con le parole del mistico tedesco Jacob Böhme:

“All’inizio la volontà è sottile come un nulla, e così desidera e aspira a essere qualcosa e a divenire manifesta a se stessa. Questa nullità fa sì che la volontà entri in uno stato di desiderio e tale desiderio è una immaginazione. La volontà che si osserva nello specchio o sapienza, provoca la comparsa della propria immagine entro l’infondatezza e così crea un fondamento nella sua immaginazione”.

Fuoco sciamanico, desiderio di sbrogliare la tela acquorea di voci da cui emerge la vita.

E quando falene bianche si alzarono in volo

E le stelle come falene brillarono intermittenti,

Lanciai la bacca in un ruscello,

E pescai una piccola trota d’argento.

Con gli strumenti del Mago, Aengus pesca la trota, talvolta una traghettatrice di anime nel folklore celtico, la trae dalle acque di sotto,  quelle che nutrono le visioni delle sibille e della Sacerdotessa negli arcani. Ma ecco,

Quando l’ebbi posata a terra

Soffiai sul fuoco per ravvivarlo,

Ma per terra cominciò ad agitarsi qualcosa,

E qualcuno mi chiamò per nome:

Era diventata una fanciulla radiosa

Fiori di melo fra i capelli

Mi chiamò per nome e scappò via

E svanì nell’aria scintillante.

La fanciulla si rivela nell’arcano dell’Imperatrice, Aengus diviene a sua volta l’Imperatore che vorrebbe catturarla e perfino il Gerofante che rinnova il passo sulle vie degli antenati e della tradizione. Entrambi si incontrano per un attimo nel sesto arcano maggiore: gli Amanti, l’altro che finalmente si manifesta e spinge a scegliere cosa vogliamo essere. È l’Amore che mette sul Carro il vagabondo e gli permette di non soccombere alla Ruota, l’altro grande, enigmatico arcano, vero principio di ogni viaggio terreno. Appena nati, nel mezzo, o verso la fine, prima che la Morte decida di farci visita come una comare attempata o un ragazzino irriverente, stiamo su quel cerchio che affonda e sospinge, ruota di mulino, timone, ruota degli orfani esposti in una piazza medievale. Se il valore del Matto è lo zero, la Ruota, cerchio per eccellenza, ha il potere di azzerare l’agire umano, non è controllabile e sta, non a caso, in posizione centrale fra gli arcani maggiori. Matto e Ruota appartengono insieme al Mondo a una triade fra cui l’umano si muove – tre zeri, tre cerchi, tre forze preesistenti alla nostra volontà.

Sebbene sia invecchiato nel mio vagabondaggio

Attraverso cave e colline,

Troverò infine dove lei è fuggita,

E bacerò le sue labbra e prenderò le sue mani:

E camminerò tra l’erba multicolore

Cogliendo fino alla fine dei tempi

Le mele d’argento della luna,

le mele d’oro del sole.

Nell’ultima parte della poesia il viaggio del corpo diviene quello dello spirito, sotto le luci astrali di Luna e Sole, attraverso cui passiamo come fossero colonne di un tempio per camminare su quell’erba variopinta e alchemica del risveglio alla propria vocazione o riscatto nella carta del Giudizio. Dopo vi è solo il Mondo, ciò che deve ancora essere sognato, un uovo cosmico, un corpuscolo, una sfera di Natale, fragile e perfetta. Vi è il sé personale restituito a quello universale, riprendendo le Upanişad:

“Questo mio sé situato nel cuore è più piccolo di un granello di riso, o di orzo, o di sesamo, o di miglio, o del nucleo di un grano di miglio. Questo mio sé, situato nel cuore, è più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi. Ciò che contiene tutte le opere, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti, ciò che abbraccia tutto questo mondo, silenzioso, in stato di quiete, tutto ciò è questo mio Sé, situato nel cuore. Esso è il Brahman. In Esso entrerò lasciando questo mondo.”

Ma questa è un’altra storia nella sacca del Matto, “il principe di un altro mondo nel suo viaggio attraverso questo”,  che entra e vaga a suo piacimento, sbaragliando castelli di carte.


Francesca Matteoni conduce laboratori di tarocchi, scrittura e immaginazione. Ha pubblicato vari libri di poesia, fra cui Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014) e il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014). Scrive saggi di storia e folklore. È redattrice di Nazione Indiana.

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